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Ottava meditazione keynesiana – Clarendon

di Giuseppe
Nicolosi

Il processo di progressiva liberazione dalla fatica del lavoro che si è realizzato durante lo scorso secolo grazie alle evoluzioni di scienza e tecnologia, sta ottenendo, come effetto principale, quello di consegnarci indifesi nelle mani di chi intende colonizzare la nostra attenzione e il nostro tempo libero per suoi scopi. Keynes, questo, non avrebbe potuto prevederlo. Nel tardo Novecento alcuni segnali di allarme riguardo questi processi ci furono. Figure particolarmente attente alle modificazioni dello psichismo collettivo avevano colto aspetti di rilievo della trasformazione in corso. Per esempio, erano i primi anni Novanta quando la Garzanti pubblicò un carteggio tra il celebre psicanalista James Hillman e lo scrittore Michael Ventura. Sebbene poco conosciuto, quel libro rimane, a mio modo di vedere, uno dei più rilevanti sussulti di pensiero critico nell’epoca del trionfo neoliberista e dell’affermazione delle nuove tecnologie digitali 1. C’è una lettera in particolare, intitolata “Benvenuti nel tempo del sogno”, in cui Ventura descrive a Hillman una cittadina del Texas di millecinquecento anime che si chiama Clarendon. Un posto che, fino a quel momento, era stato una roccaforte del puritanesimo, si andava progressivamente trasformando per effetto dell’irruzione delle nuove tecnologie della comunicazione, fino a divenire irriconoscibile. Dettagli apparentemente minimali, come l’apertura nei paraggi di un supermercato aperto 24 ore su 24, o l’arrivo della TV via satellite e via cavo, stavano impercettibilmente trasformandone lo stile di vita:

«Così un posto che per il suo modo di vivere era stato condizionato dal suo isolamento, dalla rigorosa regolamentazione di ciò che era permesso entro i propri confini, dal radicato legame con quella che immaginava essere la moralità del XIX secolo (…) non è più segregato nello spazio; non ha più quel senso del tempo che è proprio dei contadini. Questo è l’equivalente tecnologico del distribuire a tutti, a Clarendon, l’LSD, non una volta, ma tutti i giorni, nel caffé del mattino e nel té del pomeriggio». (ivi)

Questo di Ventura è, a mio giudizio, uno dei più brillanti tentativi di interpretare l’impatto delle tecnologie digitali sulla popolazione bianca e tradizionalista dell’america profonda. Una sorta di apocalisse “culturale”, in senso lato, che ha provocato un rimbalzo autoritario, una riaffermazione rancorosa del senso di identità che ha dato il via a nuove forme di isterismo collettivo reazionario. Scriveva Ventura:

«Molte di queste persone danno la colpa dell’incertezza, della provvisorietà della loro vita, al liberalismo, all’umanesimo, al relativismo e a tutti i comportamenti che a tali parole sono attribuiti – mentre quello che in realtà sta succedendo è che una volta erano prigionieri di tempo e spazio e ora non vogliono tornare in quella condizione, ma le pareti di quella prigione mancano loro terribilmente». (ivi)

Questo tensione tra una libertà del tutto “virtuale” e in gran parte illusoria e una crescente nostalgia della prigione e delle sue mura, a distanza di quasi trent’anni dalle righe di Ventura, si è spostata verso lidi imprevisti. Qui da noi, ha spianato la strada al governo geronto-fascista di Giorgia Meloni. Ma in quella lettera il passo che più interessa l’argomento che stiamo discutendo, quello delle forme di sfruttamento del tempo libero, è questo:

«In ogni casa ci sono strumenti che gradualmente riducono il tempo e lo spazio delle persone, che sono diventate dipendenti da quegli strumenti. Coscientemente, sono persone che si considerano normali, rette e conservatrici, e che sostengono con forza di non volere che questo accada. Eppure, in esse agisce qualcos’altro, una sorta di fame che seguono senza pensarci e senza intenzione e che li porta a indulgere in attività che minano  totalmente le convinzioni alle quali sono più affezionati. Chiedono sempre più confini, eppure vivono sempre meno dentro quei confini. Non è allora ragionevole pensare che qualcos’altro, qualcosa di  più profondo dentro di loro, provochi questo bisogno sovversivo ?

Povera psicoterapia, che cerca di curare l’anoressia di Annie o la bulimia di Jill, l’alcolismo di Bobby o l’iperattivismo di Jack, quando queste persone vivono e sono espressione di una vorace fame collettiva che, di fatto, divora i confini della sanità.» (ivi)

Individuare gli elementi indispensabili per spiegare quella “vorace fame collettiva”, quel “qualcosa di più profondo”, di cui scriveva Michael Ventura in quella lettera, è lo scopo generale di queste meditazioni keynesiane. Per esempio, il sociologo Craig Lambert, in un libro relativamente recente, scrive che:

«L’innocenza del tempo libero lo rende vulnerabile alle scorrerie delle strutture organizzate – e ce ne sono molte – che hanno piani precisi per le nostre ore non lavorative, una risorsa naturale che aspetta solo di essere sfruttata. » 2

Ha ragione Lambert ? Esiste realmente un interesse economico nei confronti della nostra attenzione ? In realtà, pare ci sia una logica che tiene insieme “fine del lavoro” e “lavoro senza fine”. Lambert ha dedicato il suo libro  al “lavoro ombra” (Shadow work), termine che indica tutte quelle circostanze in cui veniamo spinti a fare, per nostro conto, lavori che fino a qualche tempo fa prevedevano un personale apposito. Il pacchetto è molto ampio: si va dai mobili Ikea al distributore automatico della benzina, dalla prenotazione online di un biglietto del treno o del teatro fino al lavoro gratuito in rete degli appassionati di questo e quello, il cui lavoro viene infine estratto e messo a profitto dalle grandi aziende

Nella seconda meditazione abbiamo visto come  J. M. Keynes con le “Prospettive” avesse lanciato un segnale di allarme che, almeno in termini generali, suonava in questo modo: il quantitativo di lavoro necessario diminuirà progressivamente, ma sarà difficile per il genere umano interpretare questo cambiamento in una chiave positiva. L’umanità, secondo Keynes, correva il rischio di non riuscire a cogliere le opportunità positive che il processo di riduzione del lavoro ad opera delle tecnologie avrebbe offerto.

Oggi, numerose e affidabili ricerche hanno dimostrato come il tempo di lavoro, nella nostra vita, si sia ridotto progressivamente e come il tempo libero, di conseguenza sia visibilmente cresciuto. In Italia il tempo dedicato al lavoro (certificato e pagato) costituiva, nei primi anni del Novecento, quasi il 40 % del tempo di vita complessivo, mentre oggi si è ridotto al 16%. Sebbene una delle ragioni statistiche di questa riduzione del tempo di lavoro sia da ricercare nell’aumento della speranza di vita, in altre parole nella nostra maggiore longevità, questo non cambia i termini problema. La profezia di Keynes, come sosteneva David Graeber, per l’essenziale si è verificata, il tempo generale di lavoro si è effettivamente ridotto e non soltanto a causa dei lavori inutili. Tuttavia, non si è verificata, se non in minima parte, la prevista riduzione dell’orario di lavoro. In termini generali, la percezione soggettiva del tempo, quello che si potrebbe chiamare “il tempo percepito”, si manifesta prevalentemente in forma ansiosa, come costante senso di disagio per la sua crescente scarsità. Nel contesto dell’operaismo italiano l’argomento del crescente tempo libero venne affrontato da alcuni dei principali teorici del movimento del ‘77. Paolo Virno, in un testo dei primi anni Novanta, pose la questione in questi termini:

«Di tempo in eccesso ve ne sarà comunque: è la forma che prenderà questa esuberanza a costituire la posta in palio» 3

Iniziava a delinearsi lo spazio per una contesa politica riguardo la direzione che si sarebbe data a questa eccedenza di tempo disponibile. Come sosteneva Paolo Virno in quelle pagine, era di fatto impossibile che una sinistra legata a doppio filo al mondo del lavoro collocasse la questione del tempo libero al centro della sua strategia politica. Ma  che poi il vero oggetto del contendere fosse divenuto l’attenzione umana resa disponibile dal tempo libero, era una tesi talmente controintuitiva ed eretica che non avrebbe trovato accoglienza neppure tra i più assidui lettori del Frammento sulle Macchine di Karl Marx. Dovevamo aspettare che Google, Facebook e Amazon divenissero i protagonisti principali dell’economia planetaria, per poter iniziare a sollevare qualche interrogativo sensato a tale riguardo. In realtà, già negli anni Novanta italiani, il trionfo politico di un tycoon televisivo come Silvio Berlusconi avrebbe dovuto destare allarme non solo per le dubbie qualità morali del personaggio ma, soprattutto, per il suo background formativo: nel 1960, a ventiquattro anni, Berlusconi vinse il premio Giannino Manzoni con una tesi in legge sul contratto pubblicitario. Anche nel caso della sua affermazione, come in quello delle slot machine, la domanda più importante che dobbiamo porci non è di tipo etico, ma di carattere scientifico in senso lato. Per effetto di quali competenze e di quali circostanze storiche un persuasore professionista, attraverso un dispositivo elettronico e/o digitale come la TV, è diventato il fondatore di un grande partito e poi il presidente del Consiglio ? Se un problema del genere fosse stato affrontato seriamente a tempo debito, gli interrogativi che si pongono oggi sull’influenza dei social media nelle scelte politiche sarebbero meno enigmatici. Per iniziare a capirci qualcosa, vale iniziare con il chiedersi se effettivamente la diffusa disponibilità di tempo libero debba essere considerata la “conditio sine qua non”, affinché le più varie forme di persuasione “automatica” possano risultare efficaci.

Le osservazioni di Lambert, al di là delle sue intenzioni, possono essere collocate all’interno dello schema interpretativo su cui il neo-operaismo italiano esercita da alcuni decenni la sua intelligenza critica con indiscutibile finezza. Basti soffermarsi su questa analisi, scritta in codice rigorosamente marxiano, dell’economista Christian Marazzi:

«L’aumento dei profitti degli ultimi trent’anni è quindi dovuto a una produzione di plusvalore con accumulazione, per quanto un’accumulazione del tutto inedita perché esterna ai tradizionali processi produttivi. Il nuovo capitale costante, a differenza del sistema di macchine (fisiche) dell’epoca fordista, è costituito, oltre che dalle tecnologie dell’informazione, da un insieme di sistemi organizzativi disciplinari e immateriali che succhiano pluslavoro inseguendo cittadini lavoratori in tutti i momenti di vita, con il risultato che la giornata lavorativa, il tempo di lavoro vivo, si allunga a dismisura e si densifica.

Queste strategie di crowdsourcing, di vampirizzazione delle risorse vitali della moltitudine, rappresentano la nuova composizione organica del capitale, il rapporto tra capitale variabile come insieme di socialità, emozioni, desideri, capacità relazionali e tanto ‘lavoro libero’ (gratuito), qualità anch’esse despazializzate, disperse nella sfera del consumo e della riproduzione delle forme di vita, dell’immaginario individuale e collettivo.» 4

Tornando alla previsione di Keynes, il tempo libero viene occupato da forme di lavoro gratuito che si trovano fuori dagli orari di lavoro ufficiali. Ma a questa prima rappresentazione del problema, che rimane circoscritta alle dinamiche produttive, nelle pagine precedenti abbiamo iniziato a suggerire larvatamente di aggiungerne un’altra: quella del consumo nelle sue forme compulsive. Qui le conclusioni di Lambert sul tempo libero diventano cogenti. I vari dispositivi mirati a catturare la nostra attenzione si servono del tempo libero per incrementare le nostre spinte al consumo. La “fame collettiva” di cui scriveva Ventura non è che una descrizione particolarmente efficace dell’inquietudine generata dall’iperstimolazione mediatica.

Vale seguire Craig Lambert in una serie di interessanti considerazioni sulla solitudine:

«L’isolamento non va confuso con l’essere solitari. Trascorrere del tempo con se stessi – che sia per meditare, montare una finestra, dipingere ad acquarello, suonare il sax o rilassarsi leggendo un libro – può essere un’attività molto gratificante.

La solitudine nutre lo spirito, per questo spesso la scegliamo. L’isolamento non è qualcosa che si sceglie. Ci viene imposto dai rifiuti, dai tentativi falliti di legare con gli altri, dal nostro stesso scoraggiamento e, a volte, dalle aziende e dalle istituzioni (…). Modelli economici e tecnologie essenzialmente antisociali sono un ulteriore stimolo all’isolamento.» (ivi)

Nel suo libro Lambert presenta una serie di dati sulle persone che vivono in solitudine nelle grandi città americane: almeno il 40% delle abitazioni di Atlanta, Denver, Seattle, San Francisco e Minneapolis hanno un solo inquilino. Non mancano le consuete osservazioni su anomia, atomizzazione e collasso delle norme sociali. A destare sorpresa è però il fatto che, qualche pagina dopo, il nostro Lambert, all’interno del medesimo ragionamento, tira fuori nientedimeno che Asylums di Erving Goffman, il celebre lavoro del sociologo canadese sulle istituzioni totali 5. Chi conosce quel fondamentale studio di Goffman sa che lì si descrive, essenzialmente, una socializzazione forzata. Le condizioni di vita nelle istituzioni totali sono del tutto invertite rispetto alla “loneliness”, alla solitudine. Nelle strutture totali l’esistenza è completamente istituzionalizzata. Sonno, lavoro, pasti, esercizio fisico sono decisi dall’ammnistrazione. L’organizzazione del tempo è eterodiretta e obbligatoria. Tutto il contrario dell’anomia. Lambert, che aveva attribuito solo qualche pagina prima la responsabilità della solitudine alle tecnologie, pone una questione di tipo del tutto diverso:

«Nel XXI secolo è lecito domandarsi se altre organizzazioni – oltre a quelle militari, ai conventi, agli ospedali psichiatrici,  e via dicendo – abbiano cominciato a trasformare la società in un’istituzione totale senza mura di cinta. Multinazionali, governi sovranazionali, istituzioni scolastiche, lavoro organizzato, onlus, Big Pharma, Big Data e i loro aiutanti, gli onnipresenti sistemi d’informazione e intrattenimento, stanno tutti effettuando continue incursioni nel nostro tempo non strutturato.» (ivi)

Al di là della tesi di fondo di Lambert – che a mio giudizio mira a cogliere nel tempo libero la “materia prima” del capitalismo estrattivo contemporaneo – occorre riflettere con attenzione sulla sintesi dei contrari che questo sociologo realizza in quelle pagine. Da un lato, denuncia l’atomizzazione e la loneliness contemporanee ma, dall’altro, punta il dito indice contro nuove forme di integrazione coatta che un tempo erano un tratto quasi esclusivo delle istituzioni totali. Entrambe queste opposte distopie sono viste dall’autore come parimenti possibili nella nostra epoca e, in casi particolarmente disgraziati, come coesistenti e complementari. Consapevole della paradossalità di questa conclusione, Lambert scrive nelle pagine finali del suo lavoro:

«In questo capitolo ho postulato due differenti distopie. Nella prima si assiste alla frammentazione della società in individui atomizzati e separati, ognuno intento a fare quello che deve, svolgendo il proprio lavoro ombra, soddisfacendo i propri bisogni su Internet, cercando svago digitale senza connessioni con la comunità e preparando il terreno ad anomia e collasso sociale. L’altro scenario descrive individui fin troppo integrati nella comunità. Più precisamente mi riferisco a un’integrazione di istituzioni che soffocano le preferenze dei singoli sotto quelle di establishment più ampi, quali le multinazionali e gli altri leviatani che dirigono la nostra vita quotidiana, convogliando la quasi totalità dell’energia umana nei canali dell’economia e verso obiettivi istituzionalmente determinati. (…) Ma c’è di peggio: questi due scenari non sono necessariamente incompatibili, potrebbero verificarsi entrambi simultaneamente».

La situazione determinata dalla pandemia ricorda da vicino la sintesi degli opposti paventata da Lambert: da un lato una solitudine pericolosamente straniante, dall’altro un collettivismo degli obiettivi comuni, organizzato al ritmo scandito delle continue emergenze. La guerra russo-ucraina e la conseguente minaccia atomica stanno prolungando questo scenario a tempo indeterminato.

Giuseppe Nicolosi

  1. James Hillman, Michael Ventura, 100 anni di psicoterapia e  il mondo va sempre peggio, Garzanti, 1993.[]
  2. Craig Lambert, Il lavoro ombra, Baldini e Castoldi, 2017.[]
  3. AA.VV., Sentimenti dell’aldiqua, Theoria, 1992.[]
  4. Christian Marazzi, Il comunismo del capitale, Ombre Corte, 2010.[]
  5. Erving Goffman, Asylums, Einaudi, 1968.[]
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