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Oltre la Dichiarazione di Porto

Riproponiamo, con la gentile concessione dell’Autore, questo articolo di Giuseppe Bronzini, Presidente della sezione lavoro della Corte di Cassazione, pubblicato in data 11 maggio su https://www.labourlawcommunity.org/

Nei mesi passati si era creata una certa aspettativa sulla Dichiarazione di Porto prevista per l’8 maggio 2021 durante il vertice informale del Consiglio sotto la Presidenza portoghese; sostanzialmente questo vertice sembra essere stato all’ultimo momento declassato in una sorta di workshop para-accademico sulla dimensione sociale nel corso del quale comunque il Presidente Draghi ed altri leader hanno potuto sviluppare idee interessanti, ma allo stato non di applicabilità immediata.

Si era, invece, sperato che questo incontro potesse costituire, sulla scia dell’ufficializzazione (il 4 marzo del 2021) da parte della Commissione europea dell’Action Plan per l’attuazione del Pilastro sociale europeo, una forma di anticipato endorsement degli Stati (quantomeno di una loro maggioranza) del Plan della Commissione in modo che il processo di implementazione del Pilastro potesse procedere speditamente anche nel prossimo vertice ufficiale di giugno ed oltre. Una sorta di accelerazione della “transizione” sociale dell’Unione dopo il varo del Recovery e la presentazione dei Progetti da parte dei singoli Stati, in attesa che la Conferenza sul futuro dell’Unione (aperta ufficialmente il 9 maggio) potesse decollare e la società civile sviluppare proposte concrete per rafforzare gli elementi di coesione e di solidarietà nell’ordinamento dell’Unione e che potesse decollare, a partire da più univoci orizzonti sociali comuni, il negoziato sulla riforma della governance sovranazionale.

I tempi sono infatti cruciali: il Recovery Plan deve essere realizzato da qui al 2026 nel solco del rispetto dei principi e dei diritti del Pilastro, ma certamente una cosa sono le formulazioni generali, un’altra se da queste si riesce ad arrivare al varo di direttive (ad esempio sul salario minimo), di regolamenti (ad esempio sull’intelligenza artificiale anche nei suoi impatti lavoristici), di raccomandazioni (ad esempio sul reddito minimo garantito) o anche di  strategie complessive (ad esempio sulla disabilità), a seconda del quadro di competenze in campo. Ancora: una cosa è un negoziato sulla riforma (che ormai quasi tutti danno per scontata) del patto di stabilità senza previo allargamento degli interventi dell’Unione nel settore sociale, un’altra è se i progetti di ridefinizione delle compatibilità economiche, monetarie, fiscali e finanziarie debbano già misurarsi con un capitolo sociale sovranazionale capace di alludere ad una sorta di welfare continentale prefigurato, nei suoi tratti salienti, anche sotto il profilo di un investimento diretto da parte dell’Unione (come sembra aver suggerito Draghi nella sua proposta di proroga della SURE).

La Commissione europea ha fatto in sostanza bene i compiti a casa dettagliando una marcia molto intensa di provvedimenti di attuazione del Pilastro, ma si sa bene che su alcuni, qualificanti, punti come il salario minimo, manca il consenso di alcuni Stati (tra cui i campioni del garantismo sociale in campo mondiale e cioè i Paesi scandinavi) per cui si rischia di arrivare a giugno con una forte opposizione nonostante gli uffici legali della Commissione abbiano, alla fine, fugato i dubbi sulla base giuridica utilizzata.

Si pensava che a Porto, visti il momento storico, la grande determinazione della Commissione e un atteggiamento delle parti sociali molto più convinto rispetto al “progetto europeo”, si potesse in qualche modo consacrare un accordo di massima, una sorta di Social compact politico-istituzionale sulla necessità di atti giuridici vincolanti da adottare prontamente, per trasmettere l’idea di quel salto di qualità che da Amsterdam in poi ci si aspetta nella solidarietà europea, ma così non è stato. A frenare decisamente le ambizioni della Presidenza portoghese è stato un documento (cosidetto non-paper ) siglato da un gruppo di ben 11 Paesi fra loro molto eterogenei, ma che vede tra i firmatari Svezia, Danimarca e Finlandia, che chiedeva prudenza e gradualità, in nome della sussidiarietà e del rispetto delle competenze nazionali, cercando di  imbrigliare le diffuse attese di iscrizione nell’agenda dell’Unione di un innovativo set di nuovi diritti o di pretese più forti di matrice sovranazionale, eventualmente con forme di finanziamento dell’Unione ove necessarie.

La Dichiarazione di Porto (sottoscritta anche dalle parti sociali) si limita a ribadire le decisioni già adottate per il Next generation EU (si parla di uno storico “accordo” del luglio del 2020) e ribadisce che uno dei vettori privilegiati di  questo sarà il  Pilastro sociale, ma non c’è nessun accenno al fatto che la governance economica precedente debba essere riformata e resa più coerente con le ambizioni sociali dell’Unione; sull’Action Plan la Dichiarazione è piuttosto gelida: «come stabilito nell’agenda strategica 2019-2024 dell’UE, siamo determinati a continuare ad approfondire l’attuazione del Pilastro europeo dei diritti sociali a livello dell’UE e nazionale, tenendo debitamente conto delle rispettive competenze e dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Il piano d’azione presentato dalla Commissione il 4 marzo 2021 fornisce utili orientamenti per l’attuazione del Pilastro europeo dei diritti sociali, anche nei settori dell’occupazione, delle competenze, della salute e della protezione sociale».

Ben altra forza espressiva, appena due giorni prima, la Presidente della Commissione aveva usato per descrivere la “svolta del Recovery”: «this crisis exposed our fragility. The fragility of our health. The fragility of our livelihoods. But today, we emerge from this fragility with a new found purpose. We are reshaping our continent for decades ahead. Because while fighting this pandemic, our Union has started to do something it has never done before on this scale. With the strong backing of 27 Member States, the European Commission is raising capital on the international markets. This empowers our Union to invest billions in a badly needed joint recovery and in our common priorities: investments and reforms. The plan is called NextGenerationEU. It is worth EUR 750 billion. It is the largest recovery package in Europe since the Marshall Plan. And it can trigger a European Renaissance».

Si accettano i nuovi obiettivi per il 2030: il 78% di occupazione, almeno il 60% della forza lavoro annualmente ammessa a processi di formazione ed infine una riduzione di 15 milioni del numero dei poveri; il punto n. 8  sembra alludere ad alcune a proposte di interventi della Commissione: «allo stesso tempo, i cambiamenti legati alla digitalizzazione, all’intelligenza artificiale, al telelavoro e all’economia delle piattaforme richiederanno un’attenzione particolare al fine di rafforzare i diritti dei lavoratori, i sistemi di sicurezza sociale e la salute e la sicurezza sul lavoro», così come c’è un accenno al punto n. 9 alla necessità di difendere salari equi e al contrasto della discriminazione di genere al successivo punto n. 10.

Nel complesso quindi la Dichiarazione non rimarrà alla storia: tuttavia sarebbe sbagliato ingigantirne il significato. L’Action plan non necessitava di alcuna approvazione trattandosi di un’autoregolazione del potere di iniziativa della Commissione e certamente la Dichiarazione di Porto non lo smentisce né anticipa eventuali bocciature di alcune iniziative specifiche. Si accetta l’idea che il Pilastro debba essere messo in opera ed anche il passaggio prima ricordato sul rispetto delle competenze è piuttosto scontato (va anche notato che la catch word della sussidiarietà, strumentalizzata nel non paper dal gruppo degli 11, non è qui richiamata). La Commissione proseguirà la sua illuminata azione se non altro per non perdere quel grandissimo prestigio acquisito in questi ultimi mesi di artefice della “rinascita” europea.

Oggi la Commissione può contare, peraltro, su due importanti, possibili, alleati: il primo è il Parlamento europeo, che proprio lo scorso dicembre ha approvato una dettagliatissima Risoluzione sull’Europa sociale, poi specificata  in altre Risoluzioni, dal salario minimo al diritto alla disconnessione, che – dopo aver imposto di essere in qualche modo cooptato nella gestione del Recovery (sia pure a livello informativo) con un Accordo interistituzionale – sta mostrando finalmente una chiara aspirazione a rivestire un ruolo di primo piano nel processo inevitabile di revisione delle regole del gioco sovranazionale. Il secondo è la Conferenza sul futuro dell’Unione, che ha promosso una lunga fase di ascolto della società civile sui grandi temi del disagio “europeo” (tra cui anche la dimensione sociale) attraverso una piattaforma innovativa cui liberamente possono accedere semplici cittadini, ma anche associazioni, centri di ricerca  ed università che non mancherebbero di stigmatizzare arresti di stampo nazionalista  nell’attuazione del Pilastro.

A questi potrebbe aggiungersi il sindacato europeo, che sembra aver definitivamente sciolto alcune riserve per la costruzione di un welfare continentale. Non sarà, quindi, facile per gli Stati bloccare un processo garantista ed emancipativo, che sta finalmente evadendo dalla sfera degli specialisti; basterà pensare alla notevole audience che ha avuto Draghi a Porto nell’agganciarsi a questa nuova sensibilità con due proposte come uno strumento europeo per la disoccupazione e l’obbligatorietà dei target sociali.

I giochi sono più che mai aperti, anche dopo il non memorabile incidente di Porto[1].


[1] Cfr. L. Visentini, The Social Summit – and beyond, in Social Europe, https://www.socialeurope.eu/the-social-summit-and-beyond, 7 maggio 2021.

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