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Oltre il mito di Ventotene

di Francesca
Lacaita

A proposito di Contro Ventotene di Alessandro Somma

“L’Europa unita: un sogno nato a Ventotene” è il titolo del tema scritto sulla lavagna nel film di Paolo Virzì Ovosodo (1997). Così il regista alludeva al mito di Ventotene, che oggi come allora viene coltivato in primo luogo nelle scuole. Elemento costitutivo di questo mito è il rapporto di causa ed effetto che si viene a creare tra il celebre Manifesto composto nell’isola e il processo di integrazione europea: l’Europa unita ha origine a Ventotene. Quindi, se Spinelli e Rossi non avessero scritto il loro Manifesto, o se Ursula Hirschmann e Ada Rossi fossero state scoperte mentre cercavano di portare sul Continente le cartine di sigaretta dove era stato copiato il testo, l’Unione Europea non esisterebbe? O se esistesse, in che modo sarebbe diversa da quella attuale? I miti sono belli perché assolutizzano le personalità e le azioni delle figure individuali, le rendono esemplari, sono decontestualizzati e facili da apprendere, ed è per questo che hanno tanta fortuna a scuola. Tocca alla riflessione e agli altri strumenti critici ridimensionarli, mostrandone l’inconsistenza storica, o anche, in questo caso, l’evidente provincialismo.

Nel suo Contro Ventotene. Cavallo di Troia dell’Europa neoliberale (Roma, Rogas Edizioni, 2021), Alessandro Somma attacca un altro mito di Ventotene, da un’altra prospettiva. Il mito, secondo l’autore, sarebbe l’aura progressista che avvolge il Manifesto e che ne fa un punto di riferimento per tanti “alter-europeisti” di sinistra (“ah, quest’Unione Europea neoliberale e tecnocratica non è quella del Manifesto di Ventotene!”), o che li fa restare comunque attaccati all’europeismo anche quando criticano questo o quel punto del Manifesto stesso. L’autore intende invece mostrare che «ampie parti del testo, al pari di molti contributi successivi dei loro autori», sono in realtà «fondative dell’Europa neoliberale», dall’approvazione spinelliana per la «deriva tecnocratica», alla «fede nel mercato e nel principio di concorrenza», passando per la «condanna della partecipazione democratica». E quelle frasi del Manifesto tanto popolari a sinistra, e che hanno fatto storcere il naso a più di qualche liberale contemporaneo, come: «La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita»? Una «sorta di specchietto per le allodole», replica Somma, che «lusingano i critici dell’Europa dei mercati, ma convivono con misure obbiettivamente incompatibili con le ragioni di chi intende promuovere l’emancipazione sociale e individuale» (p. 9). E al disvelamento delle profonde affinità tra gli autori del Manifesto di Ventotene (specialmente Spinelli, la bête noire) e l’Unione Europea di oggi (che Somma sembra concepire come un progetto sin dall’origine volto a sovvertire lo stato keynesiano) sono dedicate le pagine del libro.

Gli orientamenti politico-ideologici degli autori del Manifesto di Ventotene sono invero abbastanza noti, e non dovrebbe sorprendere a sinistra il fatto che essi non intendessero superare il capitalismo bensì modificarlo al suo interno. La pluralità di letture cui il Manifesto dà adito si riflette anche nella complessità della sua storia (fu presto abbandonato dai suoi stessi autori che lo ritennero sorpassato dagli eventi); gli stessi nodi problematici che si presentano oggi (a cominciare dalla questione, sollevata pure nel romanzo di Wu Ming 1 La macchina del vento, della scarsa o nulla considerazione della soggettività delle masse) sono discussi in maniera articolata pure in diversi testi che Somma cita nelle note bibliografiche. Il Manifesto viene cioè sempre più indagato in termini storico-critici. Da questo punto di vista Somma può stare tranquillo: nessuno si accosta al Manifesto come a uno scritto programmatico per l’oggi; il mito di Ventotene è prerogativa soprattutto dei politici in facile ricerca di consensi, come quei tre (Renzi, Merkel, Hollande) in visita all’isola che sorridono dalla copertina del libro.

Piuttosto, è Somma a nutrirsi di quel mito, come se da Ventotene davvero fosse partito tutto, come se non fosse esistito nient’altro, e tutto puntasse a una medesima direzione. Ciò non è in contraddizione con il suo assunto, sviluppato in particolare nell’ultima parte, dell’irrilevanza di Spinelli e del Manifesto di Ventotene fino a circa trent’anni fa, quando una sinistra postcomunista in crisi di identità li adottò per dare un senso a sé stessa e specialmente per mascherare la sua adesione al neoliberalismo e alle sue politiche. Perché per Somma è la stessa idea di europeismo a essere un gigantesco imbroglio, usato per depoliticizzare la sfera pubblica, abbattere il compromesso keynesiano, dare mano libera al capitale. Le vicende della sua bête noire acquistano in questo senso un carattere esemplare. L’unico piano in cui una politica di sinistra è possibile è infatti per Somma quello nazionale, integrato al massimo dall’“internazionalismo” – che, se si privilegia una dimensione solo nazionale, rischia di significare poco più che una simpatia vicaria per quello che succede fuori dal proprio paese, pronta a dissolversi davanti a un contrasto di interessi o quando sopraggiunge altro ad attirare l’attenzione.

Ma proviamo a uscire dai confini un po’ angusti di Ventotene, e allarghiamo lo sguardo. Già nel 1924 il sindacalista olandese Edo Fimmen, segretario della Federazione Internazionale dei Lavoratori dei Trasporti, pubblica un opuscolo che ha un grande successo internazionale, e che nella sua versione inglese è Labour’s Alternative: The United States of Europe or Europe Limited1. In esso si sostiene che data l’interrelazione esistente all’interno dell’Europa e il carattere transnazionale già raggiunto dal capitalismo, l’alternativa è secca: o gli Stati Uniti di Europa, o una sorta di Europa “a responsabilità limitata”. Non si tratta di un caso isolato: l’assetto dell’Europa viene discusso in ampi settori del movimento operaio, in modo vario e articolato, senza giungere a posizioni univoche, ma tale da mostrare che l’idea di Europa unita non si sviluppa solo negli ambienti delle élite2. Molti sono convinti che una società europea già esista, con i suoi legami e con le sue istanze comuni, e che si tratti di trovare l’assetto che più renda giustizia a tale società.

L’idea che la sovranità assoluta dello stato nazionale sia pericolosa e quindi da limitare non ha origini neoliberali, ma in primo luogo pacifiste. Le correnti più radicali del pacifismo teorizzano la fine della separazione tra politica interna e politica estera e sostengono che la pace si raggiunge democratizzando entrambe, superando la concezione dello stato-potenza, e perseguendo obiettivi di giustizia sociale all’interno e nei rapporti tra i popoli. Lo scrittore pacifista tedesco Kurt Tucholsky, firma celebre della rivista di sinistra «Die Weltbühne», scrive nel 1926:

«Noi non avremo nessuna pace finché la Società delle Nazioni non si deciderà a sbarazzarsi dell’idea sbagliata dell’inviolabilità dello stato. Non è vero che non ci si debba immischiare nella politica interna di uno stato straniero – non esiste più oggi, se mai è esistita, una politica interna senza ripercussioni all’esterno. Così come nessun inquilino ha diritto di appiccare il fuoco nel proprio appartamento richiamandosi alla santità del proprio focolare domestico, gli stati non possono impunemente fare la politica interna di testa propria, se questa mette a rischio la pace. Noi non abitiamo più nelle fortezze isolate del Medioevo, noi viviamo in una casa. E questa casa si chiama Europa»3.

[Sorge a questo punto spontanea la domanda: cosa avrebbe detto Tucholsky dei bombardamenti contro la Serbia del 1999? Ovviamente non si può saperlo, ma si sa che disse, commentando la frammentazione dell’Europa sorta dal Trattato di Versailles che «il punto non è costruire i piccoli stati, ma di abolire, in questa forma, quelli grandi»]4. In realtà, scrive ancora Tucholsky, «nessuno stato oggi è più libero – è in balia dell’industria, degli interessi agricoli, delle banche e della finanza internazionale, e non può fare nulla senza di loro». Per libertà si può solo intendere quella di «scegliersi i propri sfruttatori […]. Il resto sono bandiere, cappellani militari e sciocchezze»5. Di unità europea si cominciava a parlare anche in quegli anni, ma che il termine “Europa” significasse tante cose e che avesse implicazioni diverse a seconda dell’impostazione politica che lo ispirava era già chiaro, con una lucidità che si sarebbe purtroppo persa nei decenni dell’integrazione europea. Scriveva nel 1930 Carl von Ossietzky, il direttore della «Weltbühne», a proposito del progetto paneuropeo di Richard Coudenhove-Kalergi: «il progetto di Coudenhove non porterebbe a un’unione dei popoli, ma a un patto dei governi capitalistici contro i loro popoli, a una comunanza di tutti i mezzi dello stato per impedire la rivoluzione sociale, o quel che sia»6.

L’esperienza transnazionale dell’antifascismo, dell’esilio, della guerra e della Resistenza (com’è stato scritto, «nessuna Resistenza europea fu angustamente “nazionale”, tutte – compresa quella italiana – furono creole, internazionaliste e migranti») dà una particolare pregnanza e rilevanza all’internazionalismo e all’idea di Europa, declinata ovviamente in una pluralità di aspetti e di posizioni, ma in cui spicca in particolare l’ala sinistra del socialismo. Il Manifesto di Ventotene non è né l’unico né il primo documento in Europa a prospettare una federazione europea quale via d’uscita da una crisi di civiltà segnata dal nazionalismo, dall’imperialismo, dalla disuguaglianza, dalla violenza e dalla sopraffazione. Sono tanti, e i quattro volumi a cura di Lipgens e di Loth non li esauriscono certo7. Si può ricordare qui, per i legami che ha per il nostro paese, Silvio Trentin, attivo in Francia nel gruppo resistenziale “Libérer et fédérer” e in Italia in Giustizia e Libertà, sostenitore di un federalismo delle autonomie in una visione partecipativa, all’interno di un’economia socialista, e per molti aspetti diversissimo dagli autori del Manifesto di Ventotene. In ogni caso, l’europeismo che sorge dalle esperienze dell’antifascismo e della Resistenza esprime una cultura politica avanzata e progressista anche in ambienti non necessariamente o immediatamente riconducibili alla sinistra. Si vedano per esempio due documenti dell’Unione Europea dei Federalisti nel secondo dopoguerra, come i 12 punti della Carta di Hertenstein del 1946 e Pour bâtir l’Europe del 1947-48, in cui si afferma il principio del decentramento e della costruzione della democrazia «dal basso verso l’alto», si ripudia ogni imperialismo (anche se non si parla esplicitamente di rinuncia alle colonie), si rifiuta l’asservimento a qualsiasi potenza straniera, si proclama il rispetto dell’integrità delle comunità umane, si auspica per l’Europa, già all’alba della guerra fredda, un ruolo di terza forza, di ponte tra le due superpotenze, si respinge non solo il totalitarismo, ma anche «un certo capitalismo presunto liberale che, subordinando i valori umani al potere del denaro, fa nascere l’insicurezza, la miseria nell’abbondanza, l’ingiustizia sociale, il disordine internazionale».

Non furono comunque i federalisti a “fare l’Europa”. Com’è noto, il processo d’integrazione europea fu sostenuto dagli Stati Uniti in funzione antisovietica, e gli attori furono in sostanza gli stati, che poterono riprendersi dalla prostrazione in cui erano caduti con la nuova guerra mondiale, con il loro personale politico, burocratico ed economico. In particolare, furono le classi dirigenti democristiane a guidare le prime fasi dell’integrazione, con i partiti di sinistra contrari soprattutto per la torsione conservatrice che veniva così impressa. Diversi degli europeisti che erano stati attivi nella lotta contro il fascismo erano già morti, o morirono in quegli anni. Altri abbandonarono la lotta per una nuova Europa o persero di rilevanza nella conversazione pubblica, altri ancora, e Spinelli tra questi, fecero una chiara scelta di campo per l’Occidente.

In questo modo il tema dell’unità europea mantiene un certo fascino ideale e una moderata risonanza nella sfera pubblica, specie in Italia per gli sforzi di Spinelli di dare uno sbocco “federale” al processo di integrazione, ma con chiari limiti: limiti di contenuto, di indirizzo politico, di diffusione sociale. Si viene a creare un cortocircuito per cui l’“Europa” è affare perlopiù delle élite moderate, mentre a sinistra i rappresentanti del movimento operaio agiscono per sviluppare e difendere lo stato sociale all’interno del proprio stato nazionale. Accostarsi all’“Europa” significa in generale “imborghesirsi”, sia in termini di base sociale, sia in termini ideologico-politici. Questa sorta di “divisione del lavoro” ha contribuito nel lungo termine a indebolire la sinistra, restringendone di fatto il perimetro di azione e mettendola sulla difensiva negli anni di trionfo della globalizzazione. In ogni caso, è stata retrospettivamente una grande perdita l’assenza, a sinistra, di una capacità di azione comune, di un programma condiviso a livello continentale tale da resistere allo smantellamento dello stato sociale attuato negli ultimi tre decenni, includere i paesi dell’ex Europa orientale in modi diversi, concepire un altro tipo di unione monetaria, prospettare insomma un modello alternativo di integrazione europea.

Un discorso simile si può fare anche per altri ambiti. Nei primi decenni di integrazione europea, chi ha visioni di cambiamento radicale generalmente ignora l’Europa per guardare direttamente al mondo. Se si prescinde da Alexander Langer e da pochi altri, l’europeismo è completamente dissociato, se non su un piano puramente ideale, dalla cultura e dagli obiettivi politici del movimento per la pace. Non sappiamo quali sarebbero state le dinamiche post-1989 – ad esempio, se la Jugoslavia si sarebbe dissolta, se la NATO si sarebbe ampliata a Est, se gli stati dell’Unione Europea avrebbero partecipato alle guerre più o meno “umanitarie” per portare democrazia e diritti umani in Europa e nel mondo – se nei decenni precedenti fosse stato più diffuso, visibile e forte un europeismo non allineato all’atlantismo. Sappiamo però che questo europeismo non c’è stato, ed è stato un’altra grande perdita.

E si giunge così all’Europa di Maastricht e a un altro cortocircuito. Il Trattato del 1992 viene presentato come una svolta cruciale verso l’Europa unita grazie all’Unione economica e monetaria, alla Politica estera e di sicurezza comune, alla politica di coesione economica e sociale, all’introduzione della cittadinanza europea. L’affermazione del principio di sussidiarietà dà addirittura adito a fantasie su una possibile, prossima “Europa delle regioni”. Pochi vedono i rischi di svuotamento della democrazia e delle politiche sociali nei parametri e nei vincoli di Maastricht, e le critiche o le ragioni del dissenso, che vengono tutte liquidate, anche quando si manifestano in bocciature ai referendum, in Francia e in Danimarca, come espressioni di nazionalismi retrogradi o di risentimento da parte di quelli che saranno in seguito definiti con malcelato disprezzo “i perdenti della globalizzazione”. Per quanto grottesco possa oggi sembrare, Maastricht ha rappresentato la promessa più importante del mondo post-1989, della fine delle ideologie, della globalizzazione, del trionfo della democrazia liberale. Le diverse posizioni politiche si stemperano in un cangiante neoliberalismo.

In questo contesto si crea il “mito di Ventotene”. Il mito dà legittimità e continuità storica all’Europa di Maastricht, in base all’antifascismo e alle idee liberaldemocratiche, liberalsocialiste (le uniche ritenute rispettabili per la sinistra) degli autori del Manifesto (nel frattempo defunti). Il mito consente pure di restringere il campo di discussione sulla fisionomia dell’Europa, essendo la frase più citata quella che «La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale […] e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale». Solo che la frase è molto lunga (neanch’io l’ho citata integralmente) e detta fuori contesto si è facilmente semplificata in “destra e sinistra non contano più, contano solo europeisti e nazionalisti, e se critichi l’‘Europa’ sei tra questi ultimi”. Infine, ma non da ultimo, mito depotenzia le implicazioni rivoluzionarie del testo: si può celebrare a scuola allo stesso modo il Manifesto di Ventotene il 9 maggio e la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate il 4 novembre, indifferentemente, come se i loro significati fossero uguali e intercambiabili.

La forza del mito, sia nella versione ufficiale, sia in quella rovesciata di Somma, sta nella supposta unicità e idea di continuità. Smontiamolo, questo mito. Il Manifesto di Ventotene è solo una delle tante prese di posizione a favore dell’unità europea che furono scritte in senso antifascista e resistenziale. Non ha “ispirato” il processo di integrazione europea, che è stato avviato e gestito dagli stati e dalle loro élite, sulla base degli interessi e dei rapporti di forza dominanti, e con diversi passaggi, a seconda dei momenti storici. Nel secondo dopoguerra l’integrazione europea ha accompagnato lo sviluppo dello stato sociale. Negli anni Novanta l’“Europa” è stato il dispositivo attraverso cui è stata imposta (sempre dagli stati e dalle loro élite, analogamente peraltro a quanto avveniva in altre parti del mondo) una torsione pro-business che ha gravemente condizionato la vita sociale e politica dei vari paesi europei. Un ritiro nella dimensione nazionale per contrastare tale torsione, come auspica Somma, è illusorio. Il capitalismo estrattivo e predatorio attuale non ha più bisogno dell’unità europea per giustificarsi e imporsi. Il nazionalismo appare lo strumento per stabilizzare quell’ordine e quella stabilità utile allo status quo socioeconomico. In nessuno degli stati con governi “sovranisti”, dentro e fuori l’Unione Europea, viene messo in discussione l’assetto socioeconomico pro-business. Neppure nei paesi al di fuori della UE esiste una sinistra in grado di opporvisi, se si prescinde da realtà lontane. Tanto meno nel Regno Unito post-Brexit, dove il segretario laburista Keith Starmer segue la linea pro-Brexit di Boris Johnson e contemporaneamente liquida l’eredità politica di Corbyn.

Il ripiegamento sulla dimensione nazionale, a partire almeno dalla metà del XX secolo, ha indebolito la sinistra perché gli altri guardavano comunque oltre i confini. La dimensione europea (dove l’Altro è anche Prossimo) è quindi imprescindibile, come diceva Fimmen quasi cent’anni fa. Ha perfettamente ragione Alessandro Somma quando condanna «il sostegno preconcetto a soluzioni istituzionali concepite per superare la dimensione nazionale, senza considerazione alcuna per le ripercussioni sull’ordine politico ed economico inevitabilmente riconducibili a una simile opzione» (p. 110) – quel sostegno che ha accompagnato tutti i passi dell’integrazione europea da Maastricht in poi. Ma è da qui che deve muovere la lotta per riappropriarsi della democrazia e contrastare le disuguaglianze.

 

Francesca Lacaita

  1. London, Labour Publishing Company, 1924.[]
  2. Cfr. Willy Buschak, Die Vereinigten Staaten von Europa sind unser Ziel. Arbeiterbewegung und Europa im frühen 20. Jahrhundert, Essen, Klartext Verlag 2014 e la raccolta di documenti curata dallo stesso autore Arbeiterbewegung und Europa im frühen 20. Jahrhundert. Dokumentenband, Essen, Klartext Verlag, 2018.[]
  3. Ignaz Wrobel [Kurt Tucholsky], Außen- und Innenpolitik, «Die Friedens-Warte», vol. 26, luglio 1926, pp. 210-211.[]
  4. Ignaz Wrobel [Kurt Tucholsky], Die Beamtenpest, «Die Weltbühne», 23 ottobre 1928, Nr. 43, p. 624.[]
  5. Ignaz Wrobel [Kurt Tucholsky], Außen- und Innenpolitik.[]
  6. Carl von Ossietzky, Coudenhove und Briand, «Die Weltbühne», 27 maggio 1930, disponibile qui.[]
  7. Walter Lipgens e Wilfried Loth (a cura di), Documents on the History of European Integration, 4 voll., Berlin-New York, De Gruyter, 1984-1991.[]
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1 Commento. Nuovo commento

  • Silvana Telaro
    26/12/2021 13:20

    Buon pomeriggio ! Si ! questa non è l’Europa sognata da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni …ideali di unificazione dell’Europa in senso federale….un movimento che sapesse mobilitare tutte le forze popolari dei vari paesi, un ordine comune per sviluppare una vita politica secondo le caratteristiche dei vari popoli….E’ stato difficile ? continua ad essere difficile ?

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