All’ombra dell’agenda internazionale continuano a fumare le macerie di conflitti apparentemente dimenticati, come la campale guerra per procura che, da scontro interno, ha visto la Siria trasformarsi in un teatro di distruzione inarrestabile.
Nelle ultime settimane diverse fonti stanno parlando di un’imminente nuova operazione del governo turco del ‘sultano’ Erdogan, che starebbe concentrando a ridosso del confine settentrionale della Siria reparti militari e milizie jihadiste affiliate, nella zona del Rojava curdo.
I funzionari turchi non confermano né smentiscono la notizia, mentre i media prevalentemente filo-governativi, a causa della stretta censura vigente in Turchia, non esitano a parlare di operazioni “per garantire la sicurezza nazionale”.
In questo contesto il Parlamento turco ha di recente rinnovato l’autorizzazione a missioni militari nell’area per altri due anni, al fine di controllare i quasi mille chilometri di confine che corrono fra i due paesi medio-orientali, in un’area storicamente insediata da popolazioni curde.
Nel malaugurato caso che queste manovre venissero confermate, si tratterebbe della terza operazione militare turca contro le Forze Democratiche Siriane, di cui fanno parte prevalentemente le Unità di Protezione Popolare (YPJ, YPG), considerate una minaccia dal ‘sultano’ Erdogan per la loro vicinanza allo storico partito dei lavoratori PKK.
Dopo l’invasione di Afrin del marzo 2018 e quella di Tal Abyad e Serekanye nell’ottobre 2019, l’ennesima campagna militare punterebbe al consolidamento della presenza turca nella regione, per bloccare i collegamenti fra territori siriani sotto il controllo curdo, occupando zone ad est e ad ovest dell’Eufrate per l’espansione di quella ‘zona di cuscinetto’, che già negli ultimi anni è stata impiegata per il trasferimento coatto dei profughi siriani finora detenuti in Turchia.
Oltre tre anni dopo l’invasione turca, paradossalmente denominata ‘ramoscello d’ulivo’, che secondo Erdogan doveva contribuire ad “annientare i terroristi e garantire stabilità all’area”, un recente rapporto del Rojava Information Center ha documentato crimini e violazioni dei diritti umani.
Dalle evidenze emerge infatti come le milizie jihadiste filo-turche abbiano perpetrato aggressioni e violenze sistematiche contro la popolazione, con oltre 150 rapimenti e stupri accertati, citando anche i dati del Missing Afrin Women Report del 2020. Soltanto nell’ultimo quadrimestre (aprile-luglio) il rapporto parla di oltre un centinaio di arresti politici, con la pratica diffusa della tortura.
Il controllo delle aree occupate viene infatti perpetrato con operazioni di segregazione e sostituzione delle popolazioni originarie, fra cui curde e yazide, con profughi di cultura arabo-islamica, insediati con la forza.
Molti parlano anche di “turchificazione” dei territori occupati imponendo lingua ufficiale, pratiche amministrative e riferimenti culturali tipici della potenza occupante, come l’obbligo del velo per le donne e l’applicazione della shar’ia.
Al contrario degli intenti dichiarati da Erdogan, parla la devastazione di oltre 300mila piante di olivo e da frutto e la distruzione di circa 10mila ettari di terreni coltivabili.
La strategia turca è dunque passata da una fase di conflitto militare aperto, ad una guerra di logoramento a bassa intensità, sfruttando prevalentemente milizie non regolari, onde evitare ricadute ed implicazioni per il regime di Ankara.
A rinfocolare i piani di una nuova offensiva dell’esercito turco in Rojava sembrano essere state anche alcune iniziative della nuova amministrazione statunitense, con sanzioni imposte alle milizie del gruppo Ahrar al-Sharqiya ed altre misure analoghe contro il sedicente ‘Esercito Nazionale Siriano’ sempre affiliato ad Ankara. Peraltro nel rapporto sul Traffico di Persone del 2021 del Dipartimento di Stato USA, il governo turco è stato esplicitamente implicato nell’utilizzo di bambini soldato, includendo così per la prima volta un membro della NATO in questa lista nera.
Gli incontri recenti a Washington fra la nuova amministrazione di Joe Biden ed esponenti del Consiglio Democratico Siriano guidato dalle SDF hanno evidentemente rappresentato un campanello d’allarme per la Turchia.
Ma le nuove minacce di ostilità sembrano in parte condizionate da altri fattori di carattere più ampio.
Da un lato la crisi economica perdurante in Turchia potrebbe trovare in una nuova campagna militare l’arma di ‘distrazione di massa’ a favore del governo Erdogan, uscito non proprio indenne dalle ultime consultazioni elettorali, nonostante la stretta sulla libertà di stampa e di opposizione al suo regime.
Un’altra variante sempre più accreditata e rilanciata anche dal Rojava Information Center riguarderebbe invece la ‘guerra dell’acqua’ che lo stato turco porta avanti in Siria.
L’abbassamento sensibile (di circa 300m³ in meno al secondo) del livello dei fiumi Tigri ed Eufrate, dovuto alla crisi climatica, ma anche dalle operazioni di incanalamento ed irreggimentazione delle acque mediante le numerose dighe a monte dei fiumi in territorio turco, ha causato una riduzione notevole di approvvigionamento per i tre impianti idro-elettrici siriani di Tabqa, Tishrine e Firat, attualmente operanti in modo alternato e discontinuo.
Per Selman Barudo, co-presidente della Commissione per l’agricoltura e l’economia dell’amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale, “la mancanza di acqua, soprattutto in una stagione dell’anno troppo cruciale per le colture di grano e cotone, ha un effetto devastante sull’agricoltura e sull’economia. Le regioni agricole di Tabqa, Rakka e Deir-ez-Zor sono le più colpite. Il livello dell’Eufrate è così basso che i dispositivi di pompaggio degli agricoltori non sono più sommersi e quindi non possono irrigare le colture”.
Nonostante gli accordi di Losanna (1923) fra Turchia, Siria ed Iraq per la gestione condivisa delle vie fluviali, negli ultimi diciotto mesi sono state registrate ben 24 interruzioni idriche, accreditando così l’ipotesi di un deliberato utilizzo della risorsa come arma politica del regime di Erdogan.
A fronte di questa situazione sempre più critica, molti attori internazionali restano a guardare in silenzio. Se gli USA rischiano di replicare l’abbandono dei loro alleati curdi sul campo, la Russia ha avviato una sorta di negoziato per la gestione insieme ad Ankara di imminenti campagne militari nell’area, come quella promossa dal regime di Assad su Idlib, in contropartita del nullaosta ad Erdogan per l’ulteriore operazione in Rojava.
In questo quadro l’Unione Europea resta alla finestra, nonostante nel marzo 2018 il Parlamento europeo abbia chiesto alla Turchia di fermare l’offensiva e ritirarsi da Afrin, senza successo. Anche l’ONU ha sollevato preoccupazioni per il livello di violenza nella Siria settentrionale.
Inoltre, l’Ufficio Informazioni del Kurdistan (UIKI) ha rilanciato la richiesta di indagini internazionali sull’impiego di armi chimiche in Kurdistan, come nei casi documentati nelle regioni del Kurdistan meridionale di Heftanîn, Metîna, Zap e Avaşîn.
Anche per questo proprio pochi giorni fa è salpata dalla Grecia la “Nave della Pace” che approderà il 12 novembre in Italia, a Napoli, per chiedere la liberazione del leader curdo Abdullah Öcalan.
“Il conflitto turco-curdo è attualmente una tempesta – si legge nella dichiarazione dell’equipaggio europeo che ha promosso l’iniziativa – Il partito turco di governo AKP non solo conduce da tempo una guerra contro la popolazione curda nel proprio paese, ma fa anche affidamento su un’escalation militare contro le conquiste dei curdi in Siria e Iraq. Una soluzione politica e pacifica alla questione curda sembra quindi fuori portata. Ma soprattutto nei momenti in cui una soluzione al conflitto sembra quasi impossibile, la solidarietà internazionale può sviluppare una grande forza e ravvivare la speranza di pace”.
Dopo la debacle in Afghanistan e la tendenza europea ad alimentare il circolo vizioso con l’esportazione di conflitti armati e l’importazione di profughi, se non addirittura l’esternalizzazione delle frontiere per tenerli confinati in paesi terzi dietro sovvenzione di regimi sempre più autoritari, di fronte a questa nuova minaccia del governo turco si impone un cambio di paradigma per l’UE, che riesca davvero a tutelare quei valori di democrazia e diritti umani, sempre troppo sacrificati sull’altare degli interessi commerciali e delle incapacità politiche.
INFO:
https://rojavainformationcenter.com/2021/10/orient-xxi-la-turquie-mene-une-guerre-de-leau-en-syrie/