Nun ce provate, su quei giornalacci, a ridurre a emo disimpegnato e piagnone uno degli autori più militanti, coerenti e lucidi nel raccontare un disagio generazionale che può sembrare privato e invece è tutto politico.
Nun ce provate, a far diventa’ Strappare lungo i bordi ‘na cosa “carina”, anche se è chiaro che è stata pensata per un pubblico più ampio e generalista rispetto ai fumetti: se un compagno una volta tanto ha fatto il botto, se è arrivato veramente a tutti mentre di solito se la cantamo e se la sonamo in quattro gatti, non è solo perché Zerocalcare è un drago, ma è perché ha toccato un nervo scoperto, un dolore e una rabbia che proviamo in tanti, troppi, anche se poi solo pochi riescono a esprimerli, e sono ancora meno quelli che riescono a curarli nella relazione, nella solidarietà, nella lotta.
Se tutti parlano di questa serie, se in molti sentono un magone in petto dopo averla finita, è perché col rituale della visione collettiva, per quanto asincrona, Zerocalcare ha offerto un surrogato di quella terapia psico-politica che ci manca come l’aria, una sorta di catarsi a tutto quel futuro schiacciato, a quelle vite da adolescenti fuori tempo massimo, a quei lavori di merda che dobbiamo pure cercare con resilienza e far finta di amare proattivamente, a quel senso di inadeguatezza di chi, come Alice, odia «vivere sgomitando e calpestando chi le sta vicino», eppure vorrebbe ugualmente trovare il suo posto nel mondo, anziché essere relegato all’irrilevanza.
Che bello, se questo sentimento collettivo emerso da mille commenti commossi squarciasse il limbo digitale e si trasformasse in corpi e voci, nel calore di un’assemblea, nel coraggio di scendere da quel treno tossico che ci hanno spacciato come unica possibilità quando ancora avevamo i calzoni corti. È troppo tempo che siamo soli, remissivi, ridotti a «brandelli sottili e ciancicati come le vite che se ritrovamo in mano», per accontentarci di un’ora e mezza di straniante conforto via Netflix piovuto dalla matita di un bravissimo artista.