Per far credere di poter fermare l’arrivo in Europa, soprattutto in Italia, di giovani tunisini e di immigrati, nel paese nordafricano, dall’Africa Subsahariana, Giorgia Meloni ha firmato nel luglio scorso, con il presidente tunisino, un Memorandum, simile a quello firmato nel 2017 da Minniti con la Libia, che però non ha condotto ai risultati previsti. Questo nonostante dall’inizio del 2023 Saied, stia applicando le stesse parole d’ordine dei governi europei contro i migranti provenienti dai paesi del Sahel. Lo fa allarmando il paese e dichiarando che è in atto un complotto internazionale che ha lo scopo di realizzare in Tunisia una “sostituzione etnica”, per farla diventare un “paese di neri” e alimentando la paura dei crimini che potrebbero essere commessi da coloro che cercano di passare dalla Tunisia verso l’Europa. L’Italia ha promesso a Tunisi aiuti ma finora si sono rivelati inconsistenti: addestramento della guardia di frontiera, qualche motovedetta, 150 milioni di euro con la promessa di averne altri 900 in futuro. Il governo italiano si sta inoltre impegnando per rendere meno rigide le clausole imposte dal Fmi, in cambio di frontiere più sicure. Ma questo non basta e allora Tunisi cerca interlocutori più affidabili. Nel settembre scorso il suo ministro degli Esteri si è recato a Mosca per chiedere sostegno ed ora, proprio mentre le relazioni fra Iran e Russia si fanno più strette, c’è stato un incontro con la massima autorità di Teheran.
Il 23 maggio si sono infatti incontrati – l’incontro è passato in secondo piano – l’ayatollah Seyed Ali Khamenei, leader del regime iraniano e il presidente tunisino Kais Sayed. Era già in agenda da tempo ma è avvenuto nonostante l’improvvisa e controversa morte recente del presidente iraniano Ebrahim Raisi. Lo ha riferito la Tasnin News Agency, con un lungo commento sull’avvenimento. Nella nota si fa riferimento al comune impegno dei due Paesi per la causa palestinese ma soprattutto nella necessità di stabilire una relazione più forte fra i due paesi. Secondo Khamenei “La presenza di un rispettato studioso e accademico come Kais Saied al timone della Tunisia rappresenta un’opportunità per il paese di mostrare una nuova immagine positiva di se stesso dopo anni di dominio autoritario e disconnessione con il mondo islamico”. L’ayatollah Khamenei ha anche evidenziato il positivo potenziale di espansione delle relazioni tra Iran e Tunisia. Secondo la massima autorità religiosa iraniana, il gran lavoro effettuato dal defunto presidente Raisi, rispetto alle tematiche del lavoro, dell’energia e della comunicazione su c’erano già state interlocuzioni fra i due paesi saranno ancora più incentivati sotto la guida temporanea di Mokhber che, con la sua attuale autorità, migliorerà ulteriormente queste relazioni. L’intenzione è quella di passare da una cooperazione e comprensione fra i due paesi ad una “collaborazione sul campo”. Saied, da parte sua ha condiviso le aspettative di Khamenei e si è espresso in maniera molto netta rispetto alla situazione a Gaza affermando che “Il mondo islamico deve uscire dalla propria attuale posizione passiva e, con unità, operare per garantire i diritti del popolo palestinese in tutti i territori palestinesi e la creazione di uno stato indipendente con la sua capitale in Holy Quds (Gerusalemme, Ndr)”.
Lo scenario è complesso e si tratta di diplomazie internazionali le cui strategie sono da sempre estremamente difficili da interpretare in mancanza di fonti certe, ma corre l’obbligo di tener conto di alcuni nessi logici e, soprattutto, temporali. Tunisi è ormai da tempo in una grave crisi economica, il FMI è disponibile ad elargire un prestito di 1,9 mld di dollari, a patto che vengano effettuate riforme che rendono il Paese un sorvegliato speciale. Il lato positivo è che fra i vincoli a cui Saied dovrebbe sottostare è una maggiore attenzione al rispetto dei diritti umani, d’altra parte il Fondo non è un ente benefico e pretende riforme strutturali in Tunisia, sotto la voce “modernizzazione” ma che porterebbero, se attuate in queste condizioni, ad operare tagli nei servizi sociali già pessimi. Questo farebbe riesplodere il malcontento forte nel Paese. Saied, che ha di fatto esautorato il parlamento – le prossime elezioni presidenziali e parlamentari si dovrebbero tenere ad ottobre – sta da tempo cercando di garantirsi il consenso con la repressione e con la vecchia ma inossidabile arma del controllo delle frontiere. Da una parte si arrestano e si sottopongono anche a tortura, oppositori politici, avvocati e giornalisti, nonché ogni forma di dissenso. Il 27 maggio diverse decine di giornalisti hanno manifestato a Tunisi lunedì contro quella che hanno definito la “repressione” delle libertà e hanno chiesto il rilascio di due colleghi condannati, ha raccontato un giornalista dell’AFP. Circa 60 manifestanti hanno cantato “Libertà per la stampa tunisina”, “Lo stato di polizia è una vecchia notizia” e “La magistratura è subordinata” al di fuori della sede del sindacato dei giornalisti nazionali (SNJT). Il giorno della solidarietà è stato organizzato dopo che due noti giornalisti erano stati condannati mercoledì a un anno di carcere per post sui social media sulla situazione socio-economica della Tunisia e il presidente Kais Saied, che ha sequestrato i poteri radicali nel 2021. I manifestanti, che includevano parenti dei giornalisti imprigionati, hanno tenuto cartelli con la scritta “No alla liquidazione dei media”, “Il giornalismo non è un crimine” e “Non c’è stampa libera e professionale sotto minaccia e intimidazione”.
L’emittente Borhan Bssais e il commentatore politico Mourad Zeghidi sono stati arrestati l’11 maggio e giudicati colpevoli di aver diffuso “false informazioni” e di aver “diffamato altri o aver danneggiato la loro reputazione”.
I loro avvocati stanno facendo appello alla sentenza, hanno detto le famiglie dei giornalisti all’AFP. Bssais e Zeghidi sono stati condannati ai sensi del decreto 54, emanato nel 2022 da Saied ufficialmente in nome della lotta contro le “notizie false” ma ampiamente criticato per la sua ampia interpretazione. “La libertà sta cominciando a perdere il suo valore in Tunisia e i colleghi perseguiti sono prigionieri di coscienza”, ha detto il presidente della SNJT Zied Dabbar prima della protesta.
Chiedendo che Bssais e Zeghidi siano liberati, ha chiesto di fermare il “decreto strumentalizzante 54” e “reprimere le libertà”.
Una dozzina di avvocati, giornalisti e attivisti della società civile sono stati arrestati in base al decreto 54 e ad altre leggi nelle ultime settimane, attirando la “preoccupazione” delle ONG internazionali, dell’Unione europea, degli Stati Uniti e della Francia. Nell’ultimo anno e mezzo, più di 60 voci critiche sono state perseguite con il decreto 54. Incontrando il ministro della Giustizia venerdì, Saied ha detto che la costituzione tunisina avrebbe garantito, bontà sua, la libertà di espressione.
“Nessuno è stato ancora perseguito per le proprie opinioni”, ha detto, mentendo per l’ennesima volta di fronte al suo popolo.
Intanto Mosca ha da tempo aumentato la propria presenza, non solo militare, nelle aree di crisi in Africa. Lo ha fatto nella Cirenaica – est della Libia – in Mali e da poco in Niger, mettendo ai margini la presenza francese e statunitense. Un rapporto più fecondo con la Tunisia offrirebbe, soprattutto in caso di escalation del conflitto in Ucraina, un nuovo fronte, in cui l’arma da utilizzare rischiano di divenire i migranti.
Anche perché già da tempo ed in maniera semplicemente criminale, si sta muovendo l’UE. Il 21 maggio scorso sono usciti i risultati sconvolgenti di un’inchiesta realizzata da “Lighthouse reports” che ha coinvolto giornalisti di 8 importanti testate: Washington Post, Enass, Der Spiegel, El Pais, IrpiMedia, ARD, Inkyfada e Le Monde e che è durata oltre 1 anno. Il rapporto che ne è uscito è stato denominato “Desert Dumps” (Discariche nel deserto) e dimostra come l’Europa finanzia ed è direttamente coinvolta in operazioni clandestine in alcuni paesi nordafricani per scaricare, ogni anno, decine di migliaia di persone, colpevoli unicamente di avere un colore della pelle diverso, nel deserto o in aree remote per impedire loro di entrare nei paesi UE. “I fondi per queste discariche nel deserto sono stati pagati con il pretesto della “gestione della migrazione” con l’UE” Secondo quanto affermato a Bruxelles, queste risorse non sostengono la violazione dei diritti umani, anzi si afferma di monitorare continuamente la loro gestione. Di diverso avviso i giornalisti che provano come l’UE finanzi consapevolmente o sia addirittura direttamente coinvolta nella detenzione, nell’espulsione e nella profilazione razziale in almeno 3 paesi: Marocco, Mauritania e – come ci si aspettava – Tunisia. Secondo l’inchiesta molte persone presenti in questi tre paesi, anche con uno status legale, vengono fermati in base al colore della pelle, caricati su autobus e condotti in mezzo al nulla, spesso aride aree desertiche dove vengono lasciati senza alcuna assistenza, acqua o cibo, a rischio di rapimento, estorsione, tortura, violenza sessuale e, nei casi peggiori, la morte. Altri vengono portati nelle zone di confine dove, secondo quanto riferito, vengono venduti dalle autorità ai trafficanti di esseri umani e alle bande che li torturano per ottenere un riscatto. Questa indagine è il tentativo finora più completo svolto per documentare la conoscenza e il coinvolgimento dell’Europa nelle operazioni anti-migranti e a sfondo razziale in Nord Africa. Rivela come questo sistema di sfollamento di massa e abusi sia noto da anni a Bruxelles, ma che sia gestito grazie a denaro, veicoli, attrezzature, intelligence e forze di sicurezza fornite dall’UE e dai paesi europei. Dalle interviste realizzate ad una cinquantina di sopravvissuti, importantissime quelle di coloro che hanno fornito anche materiale visivo e/o dati sul proprio viaggio che hanno permesso di geolocalizzare i loro resoconti e mappare l’accaduto. Sono stati reperiti anche video che hanno permesso di verificare 13 casi, avvenuti fra luglio 2023 e maggio 2024 in cui gruppi di persone di evidente provenienza subsahariana o dell’Africa Occidentale, sono stati radunati in alcune città e portate nei pressi dei confini libici o algerini. Lì sono stati scaricati senza nulla. In un caso comprovato sono stati consegnati alle forze di sicurezza libiche che hanno poi trasferito tale gruppo in un centro di detenzione. Alcuni di questi orrendi racconti sono giunti in Italia grazie alle testimonianze di chi, nonostante tutto, è riuscito a raggiungere le nostre coste o da parte dei parenti. Già oggi però, venendo considerata la Tunisia un “paese terzo sicuro”, sono all’ordine del giorno le deportazioni, anche collettive, negando il diritto d’asilo a chi ha comprovato i crimini di un regime. La Tunisia non è un paese sicuro né per molti dei propri cittadini né soprattutto per chi, avendo la pelle nera e provenendo da altri paesi, rischia in futuro una deportazione in un paese di transito dove si mandano a morire le persone nel deserto.
Simili scene sono state comprovate in Marocco, dove i paramilitari delle Forze Ausiliarie sono stati filmati mentre raccoglievano le persone dalla pelle nera dalle strade, nella capitale Rabat mentre altre sono state caricate su autobus non contrassegnati e portate nel deserto. Dalla Mauritania ci sono addirittura prove che dimostrano come le persone fermate siano state condotte in zone di guerra in Mali dalle forze di polizia. Membri attuali ed ex del personale UE, delle forze di polizia nazionali e delle organizzazioni internazionali operanti nei paesi delle discariche, i giornalisti hanno potuto accertarsi della consapevolezza Ue in merito a quanto accadeva, da Bruxelles si è negato che i fondi impegnati nella regione potessero essere utilizzati per simili scopi ma due alti funzionari che hanno preferito, per ora, l’anonimato, hanno affermato l’impossibilità di rendere conto del modo con cui i finanziamenti sono utilizzati. Negli ultimi anni più di 400 milioni di euro sono stati erogati per la gestione della migrazione ai tre paesi, secondo un consulente che ha lavorato ai progetti “Bisogna rendere difficile la vita dei migranti. Complicare le loro vite. Se lasci un migrante della Guinea nel Sahara [in Marocco] due volte, la terza volta ti chiederà di riportarlo volontariamente a casa”. Prezioso per l’inchiesta si è rivelato un documento proveniente dall’agenzia di frontiera dell’UE Frontex. Sono i giornalisti ad affermare: “Abbiamo anche portato alla luce documenti disponibili al pubblico difficili da trovare che dimostrano che i funzionari dell’UE hanno tenuto discussioni interne su alcune delle pratiche abusive almeno dal 2019. Hanno anche rivelato che l’UE finanzia direttamente le forze paramilitari ausiliarie marocchine, che abbiamo filmato mentre rastrellavano persone con la pelle nera nella capitale”. L’inchiesta ha portato ad individuare i committenti europei, partendo dai veicoli utilizzati per i rastrellamenti e le espulsioni e seguendo il filo delle gare d’appalto. Ad esempio in Tunisia sono stati utilizzati per i raid dei Nissan della polizia che corrispondono per marca e modello da quelli donati da Germania e Italia. Anche alcuni accademici concordano con la ricostruzione:
“Il fatto è che i paesi europei non vogliono sporcarsi le mani”, ha detto Marie-Laure Basilien-Gainche, professoressa di diritto all’Università di Lione e specialista in diritti umani e migrazione. “Non vogliono essere ritenuti responsabili delle violazioni dei diritti umani e esternalizzarle ad altri. Credo che, secondo il diritto internazionale, siano davvero responsabili”. Alcune vicende individuali sono state ricostruite, come quella di Timothy Huks, cittadino statunitense, arrestato nel 2019 da agenti in borghese nei pressi della sua abitazione a Rabat. Non è stato sufficiente mostrare la patente Usa né chiedere di poter prendere il passaporto lasciato a casa. Ammanettato e spinto in un furgone, si è poi ritrovato in una stazione di polizia, ammassato con altri 40 uomini di colore. Gli hanno rilevato le impronte digitali, lo hanno fotografato, interrogato come se fosse un terrorista e poi portato nonché abbandonato con gli altri a 200 km a sud della città in cui è tornato con un bus.
In un altro caso, Idiatou, una donna guineana di vent’anni, ha raccontato di essere stata intercettata in mare mentre cercava di raggiungere le Isole Canarie dalla Mauritania. È stata portata in un centro di detenzione nella capitale Nouakchott, dove gli agenti di polizia spagnoli le hanno scattato una foto prima di essere costretta a salire su un autobus bianco verso il confine con il Mali. Lì, in mezzo al nulla, lei e altre 29 persone sono state mandate via. “I mauritani ci inseguivano come animali”, ricorda. “Avevo paura che qualcuno mi violentasse”. Dopo quattro giorni di cammino è riuscita a raggiungere un villaggio e ha trovato un autista che l’ha portata da un parente in Senegal. E ancora, in Tunisia, François, un cittadino camerunense di 38 anni, ha raccontato di essere stato intercettato in mare dalla Guardia Marittima Nazionale Tunisina mentre cercava di raggiungere l’Italia su un’imbarcazione sovraffollata. È stato poi caricato su autobus con decine di altri africani subsahariani e portato nella zona desertica vicino al confine algerino. È stato in grado di nascondere il suo telefono in modo che non fosse confiscato dalla polizia e ci ha fornito i dati GPS e le fotografie del viaggio, permettendo così di verificare il suo account. Sono stati portati al confine algerino e lì abbandonati, ricevendo l’ordine di camminare verso l’Algeria. Sono tornati in Tunisia dopo i primi spari degli agenti di frontiera di tale paese, nel gruppo due donne in gravidanza e un bambino con un infezione. Dopo 9 giorni di cammino, senza acqua ed in preda ad allucinazioni, hanno trovato un mezzo di trasporto per raggiungere il porto tunisino di Sfax.
Ma all’UE interessa solo dare l’idea di poter fermare, con ogni mezzo, il passaggio di persone rinunciando a sostenere realmente i problemi dei paesi di fuga e di transito. Nel continente africano si stanno affacciando da tempo Turchia, Russia, Iran e Cina per offrire il loro sostegno che ovviamente non è di beneficenza. A pagarne le conseguenze resteranno soprattutto le persone in fuga, vittime ignare dei giochi politici che si realizzano sulla propria disperazione.
Stefano Galieni