Giovedì 16 maggio, dalle 14 alle 16, decine se non centinaia di persone, familiari di detenuti morti in carcere, hanno manifestato davanti al Ministero di Giustizia.
Un appuntamento importante, costruito dal paziente lavoro delle volontarie che da pochi anni hanno dato vita a Sbarre di Zucchero, una rete per non lasciare soli i familiari dei detenuti morti in carcere durante il periodo di pena. All’inizio SdZ era un gruppo su Facebook creato dalle amiche di Donatella Hodo, morta suicida in carcere a 27 anni nella terribile estate del 2022. Ma ben presto è diventato molto di più: Sbarre di Zucchero è un megafono che riporta al centro il tema del carcere, soprattutto al femminile. “Quando il carcere è donna in un mondo di uomini”, un nome che esemplifica l’approccio: ex detenuti, familiari di detenuti, attivisti, avvocati, volontari, garanti, giornalisti e tutti quanti gravitano intorno al mondo del carcere, ancora troppo spesso relegato ai margini.
I partecipanti a incontri come questo, che si è tenuto davanti al ministero della Giustizia il 16 maggio nelle ore più calde, dalle 14 alle 16, hanno ricordato che le persone che stanno fra quelle mura non sono state parcheggiate là a mo’ di dimenticatoio, ma sono state date in custodia allo Stato. E lo Stato non ha fatto il suo dovere.
Numerosi sono i passaggi necessari, e sono ardui, per far comprendere la diversità del mondo della detenzione. Molte volte il cittadino che non ha mai avuto a che fare con reati che prevedono conseguenze penali, ha un’idea ridotta, forse spettacolarizzata della giustizia.
Si pensa ai tribunali dove vengono celebrati i grandi processi, quelli che possono interessare per l’efferatezza dei delitti, oppure per le ruberie ai danni del bene pubblico compiute dagli amministratori.
Il clima politico nel quale le associazioni legate alla Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia e i sindacati che si impegnano, la CGIL in primis, non è certo dei più inclini a rimettere in discussione le modalità di esecuzione penale.
Gli interventi vengono aperti con il ringraziamento all’impegno di tutti i presenti e di coloro che hanno legato con un filo di umanità ma anche e soprattutto di competenza i partecipanti. Trasformare l’assenza di cura subita dai reclusi e delle recluse in una volontà di organizzarsi e produrre proposte è una grande conquista, ed è la conquista di chi non vuole restare chiuso nel suo dolore, perché non vuole che avvenga più. Così avevano detto le donne all’indomani del ritrovamento del cadavere di Giulia Cecchettin. “Che sia l’ultima” “Se domani non torno voglio che sia l’ultima”. Queste parole devono essere forti, contagiose, come quelle dei presenti il 16 maggio, e dovrebbero essere nella mente anche di chi non è direttamente coinvolto.
Se lo Stato è mancato al suo compito, è interesse di tutti noi che torni ad essere lo Stato di tutti. Apre Denise Amerini della CGIL, impegnata e responsabile della Giustizia a livello nazionale, che oltre a descrivere la difficoltà a muoversi per chiunque, denuncia con precisione le inadempienze a livello sanitario dell’esecuzione penale e le carenze sanitarie, più volte evidenziate dagli operatori psichiatrici. Dopo di lei Roberta, madre di Matteo Concetti, morto suicida il 5 gennaio a Montacuto, Ancona, dopo avere minacciato di togliersi la vita se lo avessero rinchiuso in cella di isolamento. Il suo intervento ricorda le incurie penitenziarie di fronte alla documentazione che riguardava il figlio. Insisteranno con sofferenza sull’affidamento allo Stato i partecipanti, fra i quali la senatrice Ilaria Cucchi.
Essere riusciti a denunciare lo stato arretrato della salute e della custodia dei detenuti è stato un punto a favore di chi si è mobilitato, ed un altro tassello verso un bene comune dimenticato: il rispetto, la dignità.
Mobilitazioni come quelle contro le dichiarazioni di Dal Mastro sulla privatizzazione degli interventi nei confronti dei detenuti tossicodipendenti, che avevano visto assieme Antigone e CGIL, Società della Ragione e CNVG, fino al Coordinamento dei Garanti, sono stati altri esempi di unità nel rispetto delle differenze, come il momento veramente toccante di Madri fuori contro lo stigma della scorsa primavera.
La difficoltà trovata da tanti cittadini/operatori nello spiegare che la fine della prescrizione del reato è un atto antidemocratico chiunque se ne avvantaggi è comunque uno sforzo a buon fine per legare ciò che sembra lontano; così è per la separazione delle carriere che non è un totem ma è necessario capire se si vuole dare Giustizia partendo dalle ingiuste condizioni sociali, economiche, di istruzione, di genere.
Concludiamo ricordando che la mobilitazione a favore di Ilaria Salis non è solo perché cittadina italiana all’estero carcerata e processata per atti di antifascismo, quanto per denunciare che lo Stato di Ungheria ha un sistema giudiziario e penale inammissibile in un’Europa democratica (non è la sola carenza madornale, sia sufficiente l’omotransfobia di Stato) anche se non ancora dei popoli, e la tendenza di questo stato-nazione è l’unificazione dei poteri, a differenza di quanto è vigente tutt’ora in Italia, e pertanto va difeso.
Marcello Maria Pesarini
1 Commento. Nuovo commento
E’ troppo corretto il modo di affrontare un tema come la realtà carceraria, ed ancora prima le tante leggi liberticide, mirate a reprimere i diseredati costretti a delinquere per sopravvivere, invece di prevenire le disuguaglianze e l’entrata nei circoli viziosi delle droghe. Pretendere che poi in carcere vengano trattati come si dovrebbe trattare un essere umano, è più che opportuno, ma farlo nelle nostre sopraffolate prigioni è dura. Per la Salis è una condanna politica inaccettabile, bene hanno fatto i dirigenti di AVS a candidarla ed al padre di pagare la enorme cauzione per farla andare ai domiciliari e speriamo a casa e che Orban e quelli che la pensano come lui, lo mandino a casa invece di farlo continuare a Governare.