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Non solo Berlinguer: una mostra per parlare di ieri e di oggi

di Stefano
Galieni

Per chi, come lo scrivente, non ha mai fatto parte per scelta e non per ragioni generazionali, della storia del PCI, varcare a Roma, negli spazi dell’ex mattatoio “I luoghi e le parole di Enrico Berlinguer”, mostra multimediale curata da Alessandro d’Onofrio, Alexander Höbel e Gregorio Sorgonà, l’impatto è forte.
Il progetto cha ha dato vita alla mostra, inaugurata il 15 dicembre ma che sarà aperta fino all’11 febbraio, è stato pensato nel 2022 in concomitanza con il centenario della nascita di Enrico Berlinguer ma finisce con il vedersi realizzato 40 anni dopo quei mesi che precedono la sua morte improvvisa, inaspettata e devastante per il Paese.

Inutile descrivere la mostra, va visitata con attenzione e tempo a disposizione, sia nei tanti manifesti, fotografie, lettere esposte che nel materiale audio e video di archivio messo a disposizione delle/gli utenti. Va affrontata non solo per guardare al passato ma con innumerevoli riferimenti al presente.
In un oggi che vede prevalere la guerra come dinamica “normale” e in cui i rigurgiti oscurantisti e patriarcali colpiscono nel profondo anche il sistema valoriale, quelle immagini, quei racconti, segnalano la possibilità che la politica possa svolgere un ruolo diverso. Laddove, soprattutto nel materiale fotografico, sono rappresentati decenni passati, in cui ai tavoli della politica sedevano quasi esclusivamente uomini – il quadro non è molto cambiato – irrompe nelle manifestazioni, nelle feste, nei comizi, una presenza femminile potente con una propria soggettività, spesso gioiosa altre volte in chiaro atteggiamento conflittuale. Donne che non si arrendono e che vogliono vivere una vita libera a cui, colui che dal 1972 al 1984 è stato il Segretario del più grande partito comunista d’occidente, mostra rispetto, ascolto, interesse e profonda sensibilità.
Del resto altro elemento che trapela dalla mostra, rappresentazione fedele dell’epoca, è la profonda, quasi fisica, connessione sentimentale fra il popolo delle comuniste e dei comunisti e quel piccolo sardo finito sulla scena mondiale. Non c’è in nessuna immagine, distanza, spazio fisico ed emotivo, fra le tante persone che gli si affollavano intorno e la sua esile figura. Non è il consenso, l’autorevolezza, la grande stima, che pure non gli mancavano, è qualcosa di più e di difficile traduzione per il XXI secolo, è la rottura delle barriere fra il palazzo e il popolo.
Sia ben chiaro, chi scrive non rimuove i tanti errori commessi in quegli anni dal PCI e dal suo segretario, le scelte che portarono il suo partito ad essere ritenuto affidabile anche dalle socialdemocrazie occidentali quanto inviso nei paesi del socialismo reale, i primi passi verso una compatibilità fra stato e libero mercato di cui ancora oggi paghiamo i danni. Ma quella era, con tutte le sue carenze, una classe politica in cui si credeva, cui ci si affidava non in maniera fideistica ma perché la “diversità comunista” era una sorta di codice genetico che riguardava tutte/i, dal segretario a chi militava e/o simpatizzava. E l’allora segretario del PCI era perfettamente e in questa maniera, radicato nel paese reale, vissuto come tale.

E rispecchiando il periodo in cui Berlinguer ha giocato un ruolo importante nella politica non solo italiana, il tema del disarmo, del contrasto alle guerre, a tutte le guerre, emerge con un’attualità micidiale. Le foto con Ho Chi Min, Fidel Castro, Arafat, lo ritraggono come attore in contesto internazionale complesso su cui si va facendo pessimo revisionismo storico, ma le immense manifestazioni pacifiste, per la pace in Vietnam, Palestina, contro la proliferazione nucleare, sono un altro volto dell’Italia di allora che, almeno in parte, spiega le radici della contrarietà alle guerre in corso di oggi, come se almeno quella radice, nata con la resistenza, non fosse mai stata totalmente recisa.

I due padiglioni in cui è strutturata la mostra si articolano in 5 sezioni: la dimensione privata, emotiva e familiare, quella del dirigente politico nel suo lungo percorso iniziato nel 1943, la crisi italiana attraversata nel periodo della sua segreteria: dall’austerity, alla strategia della tensione, all’irruzione dei movimenti sociali e alle conquiste che oggi si stanno erodendo, fino al fallimento di quello che è passato alla memoria come “compromesso storico”, la dimensione globale, in cui si articolano gli scenari internazionali più salienti, dal golpe cileno, i cambiamenti nei rapporti con il blocco sovietico, l’intuizione irrealizzata dell’eurocomunismo, ma anche la ricucitura dei rapporti con le esperienze socialiste dell’estremo oriente, Cina e Vietnam in primis.
L’ultima sezione è dedicata a quello che potrebbe essere il lascito politico, non solo di Berlinguer ma di quell’epoca, complessa e controversa, sia per chi l’ha vissuta dall’interno che per chi ne rifiutava le prospettive e anzi, forse scorgeva anche i limiti del tentativo, destinato alla sconfitta, di far convivere il libero mercato con un welfare universalistico e dignitoso. Ma almeno – e nella mostra si avverte – c’era ancora una visione di futuro, una ipotesi di miglioramento reale dello stato di cose esistenti, non la rivoluzione socialista ma condizioni di densità democratica che oggi ci appaiono lontane e irraggiungibili.
E anche se va evitata in ogni modo la possibilità di far prevalere uno sguardo nostalgico e per certi versi apologetico verso figure di innegabile statura politica e morale, non rimuovendo nella memoria i limiti e le contraddizioni, un dato è certo. Il sorriso del segretario, abbracciato da quelle tante e quei tanti che riconoscevano in lui e nel suo partito il legittimo e degno rappresentante di istanze di classe, svettano in maniera potente, ci fanno percepire in maniera ancora più forte le condizioni di fragilità e di oscurità in cui la nostra società e in questo, la nostra coscienza di classe è precipitata. Si avverte la mancanza tanto di quel sorriso affettuoso e vicino quanto e soprattutto di quella cultura diffusa, che permeava tanti ambiti della nostra vita, che si imponeva anche nei codici di comunicazione radiotelevisivi, che toglieva spazi a quella delle classi dominanti.
Un tema, questo, che dovrebbe farci riflettere tutti, sia chi ancora ricorda Enrico Berlinguer come parte della propria storia che chi considerava il PCI già totalmente assorbito dal moderatismo conformista. E se una mostra riesce, peraltro con un grande successo di pubblico e di critica, a smuovere animi, a portare giovani e anziani a guardare con rispetto e curiosità una parte di storia italiana, forse significa che non tutto è perduto.

Stefano Galieni

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