Di epoche che abbiano vissuto una bassa intensità di conflitto, un’alterna belligeranza sociale in corrispondenza di altissime ingiustizie sociali ed economiche ce ne sono state, sia nei secoli che siamo abituati, erroneamente, a pensare come abitati da un popolo che non si configurava come tale, che in tempi più recenti.
Di quei secoli possediamo testimonianze di rivolte esemplari per organizzazione e ideali espressi, ma le testimonianze più complete e documentate affermano anche che furono represse nel sangue perché, pur essendo esperienze forti come quelle contadine descritte, magari con qualche licenza poetica, anche in Il nome della rosa di Umberto Eco erano restate isolate e nessuna delle varie comunità perdenti che popolava il mondo circostante ne era venuto a sapere.
Gli ultimi 40 anni vissuti dal mondo occidentale fanno pensare ad un progressivo avvicinamento al ciclo vitale dei lemmini, roditori dei paesi nordici noti anche come lemmings perché protagonisti di molte leggende che hanno ispirato sia Disney che il mondo del rock. In realtà la loro crescita come popolazione attraversa casuali esplosioni, per cui sono costretti a migrare in tutte le direzioni, con conseguenti incidenti che portano a numerose morti.
Un futuro distopico simile è ormai presente nei film e nelle graphic novels, presto lo sarà nell’immaginario collettivo benché quest’ultimo è a corto di rapporti umani, di scambi.
Dall’atomizzazione dei rapporti nasce, che ne siamo coscienti o no, una minore capacità di riprenderli, e viene generata una forma di senso di colpa, gettata sulle spalle di chi tenta di riprenderne il filo, come fosse un intruder, un disturbatore dell’equilibrio raggiunto o imposto.
Non è una frustrazione da mettere a lato, perché o fa rinchiudere in casa le persone o le allontana da qualsiasi forma di collettivismo.
Chi lo fa costruendo luoghi di convivenza, comunità dove vengono accolti esseri umani o animali bisognosi di ricostruire le proprie esistenze avendo subito razzie, pogrom, ma anche esclusione, bullismo, maschilismo, razzismo, trova molte più difficoltà che non nel passato negli anni del terzo settore, dell’iniziativa popolare e sociale.
Per ora abbiamo esaminato la cintura di sicurezza costruita attorno agli umani. Analizziamo il pericolo più subdolo, cioè la mutazione mentale.
Vorrei qui esaminare l’essere umano di fronte a uno dei provvedimenti più controversi seguiti alla Pandemia, cioè il Bonus edilizio 110%, forma di intervento neo-keynesiano i cui proventi offerti a noi proprietari ed inquilini di abitazioni, ed alle imprese costruttrici, prima o poi dovranno essere pagati da noi cittadini contribuenti.
In nome della legge della domanda e dell’offerta, a seguito della Pandemia non ancora conclusa, attorno al 2022 i prezzi delle materie prime erano saliti vigorosamente, mettendo in difficoltà o facendo fallire numerose imprese edili non sufficientemente solide.
L’aspetto che invece vorrei considerare con più rammarico è la perdita della capacità di ragionare ed agire collettivamente dei cittadini, utenti fra l’altro lavoratori, pensionati disoccupati e votanti.
Nei numerosi casi nei quali il proprietario di numerose abitazioni è l’ERAP (Ente Autonomo Abitazioni Popolari), che può scegliere a maggioranza nei confronti dei proprietari gli stabili da ristrutturare, ne lascia indietro alcuni veramente bisognosi, e accresce il valore di quelli già commerciabili. Siamo di fronte alla distrazione di beni pubblici, detto in slogan televisivi si ha la sensazione che ami “vincere facile” nel campo del mercato immobiliare.
A questo punto per persuadere ulteriormente i recalcitranti e costruirsi l’immagine di efficienza e rispettabilità, l’impresa costruttrice parla con un certo disprezzo delle aree verdi presenti fra stabile e stabile, e impone ad un caseggiato l’utilizzo, e pagamento, di una gru per spostare nuovi infissi da costruire, ed in alcuni casi le impalcature. Si ha l’impressione che si voglia imitare la sensazione di padroneggiare il grande e l’imponente, come nelle imprese faraoniche. L’effetto nell’immaginario collettivo è vincente.
Provate a lamentarvi dei disagi con gli amici, anche se di sinistra, molte volte di sinistra-sinistra?
Non c’è cognizione di causa, né delle irregolarità sanitarie in cui si incorre lasciando interi edifici con anziani, disabili, senza acqua calda per uno-due mesi, con la promessa che la nuova tubazione sarà in regola e la casa aumenterà di valore. Si escludono tubature parallele nel momento cruciale, troppo faticose e poco redditizie. Gli inquilini e i proprietari assentiranno, probabilmente, bypassando il sopruso che commetteranno nei confronti loro e degli altri, come avviene peraltro con gli ascensori a norma per le carrozzine dei disabili, da mesi in attesa di essere completati prima e collaudati poi, fuori dal tempo dichiarato.
Allora sì, se una persona non ne può più, si scrive attraverso l’avvocato, senza condividere con gli altri, o si chiamano i carabinieri. Partirà una raccolta di firme sulle condizioni sanitarie rivolta a Sindaco e Prefetto? Ancora non si sa, si teme sia inefficace.
La sensazione che ne ricavano i pochi che vorrebbero farne una questione pubblica, una campagna alla luce del sole, non è bella: si comincia ad odiare il prossimo tuo, non si sopporta il suo farsi vivere dal tempo, dalle convenzioni, non si sopportano i commenti di chi assiste da fuori.
Le esperienze di questo tipo sono numerose e distruttive.
Siamo gli sconfitti del collettivismo, della solidarietà, della costruzione di ponti umani.
Cresce il fastidio nei confronti di chi si ostina a acquistare casse su casse di acqua minerale. Non si tratta, come si potrebbe presupporre, di disponibilità economica, perché molto spesso sono gli strati popolari di qualsiasi provenienza a carreggiarle a piedi e in auto. Che fine ha fatto la battaglia e i referendum sull’acqua pubblica?
Ci vogliamo vedere chiaro per capire come una vittoria eclatante a seguito del referendum del 2011, quando 26 milioni di italiani decisero di abrogare parzialmente una norma relativa alla tariffa dell’acqua che prevedeva l’”adeguata remunerazione del capitale investito” concetto contrario al bene pubblico.
L’intergruppo parlamentare “Acqua Bene Comune” depositò presso la Camera dei Deputati il testo aggiornato della legge. Restò tutto fermo fino al 2018, quando la Camera attribuì carattere di urgenza alla proposta di legge, ciò malgrado l’iter fu rallentato l’anno successivo quando furono avanzati 230 emendamenti che ne avrebbero stravolto i contenuti della legge. La proposta di iniziativa popolare prevede di liquidare gli azionisti privati e di trasformare la natura di tutte le società, attualmente di diritto privato, in enti di diritto pubblico.
Due differenti stime sulla trasformazione necessaria per l’attuazione tecnica della riforma dimostrarono due chiavi di lettura contrapposte: per Utilitalia sarebbero stati necessari 15 miliardi di €, per i movimenti 1,5-2 miliardi.
Ad oggi, nonostante l’art.43 della Costituzione e proteste sui territori, non se n’è fatto nulla.
Sono sorti ovunque movimenti territoriali che denunciavano le violazioni dello spirito referendario.
Cos’ha di tanto appetibile allora il meccanismo della privatizzazione? Le società che gestiscono i servizi idrici italiani sono società per azioni miste. Gli utili sono divisi tra gli azionisti e non esiste obbligo di investimenti nella rete. Arera, che stabilisce le tariffe per i gestori, ha sostituito la “remunerazione del capitale investito” con gli “oneri finanziari del gestore”: in tariffa, cioè, confluiscono costi come i conguagli e la morosità che producono ricavi altissimi. Mentre le bollette aumentano, la qualità della gestione cala: le perdite di acqua, secondo i dati dell’Istat, si aggirano attorno al 42%, l’investimento nelle reti idriche cala, il 91% degli utili è distribuito tra gli azionisti. Proprio in avversione a questo sistema, quindi, gli italiani votarono per la gestione pubblica dell’acqua: lo scopo non era risparmiare, era soprattutto impedire che la tariffa comprendesse la remunerazione del capitale investito dal gestore, ovvero contrastare una ingiustizia etica.
Il referendum del 2011 è stato boicottato da tutti i governi che si sono succeduti. La proposta di legge depositata da Federica Daga, che eredita la proposta di iniziativa popolare di cui abbiamo parlato, giace da anni in commissione Ambiente: «Questa legge ha obiettivi etici: oltre che riportare le competenze sul servizio idrico al ministero dell’Ambiente, ad agire contro le perdite e il dissesto idrogeologico, questa legge vuole garantire il principio di solidarietà e di tutela delle fonti primarie.
Il Recovery Plan, poi reso ancora più stringente a livello finanziario dal PNRR, ha destinato alcuni fondi all’ammodernamento delle reti, ma in misura ampiamente inferiore al necessario.
Per il dissesto idrogeologico stanzia 3,6 miliardi contro i 26 quantificati come necessari dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). Inoltre conferma il modello delle società per azioni che producono utili, anzi allarga le competenze delle solite grandi aziende multiservizi quotate in borsa, che gestiscono servizi fondamentali come l’acqua, i rifiuti, la luce e il gas.
In ultimo, per confermare quanto sia diseducativa la comunicazione che la grande stampa passa come una velina ricevuta dalle grandi aziende, citiamo un esempio tipo.
Nel 2021 nelle Marche, in provincia di Pesaro, durante il periodo di massimo impatto dell’emergenza idrica, metà agosto, l’ATO 1 aveva deciso di costruire un invaso (il quinto della provincia) nel bacino del Candigliano per ovviare all’emergenza idrica.
Dipendedanoi, movimento politico regionale, aveva denunciato l’evidente danno ambientale, in contraddizione con la dispersione idrica del 35% delle acque, dovuta al cattivo stato di manutenzione delle condutture. Aveva poi scritto ai 49 sindaci dell’ATO 1 per invitarli ad esaminare meglio la situazione, e così aveva fatto con il presidente della provincia.
Cosa aveva ben pensato di fare l’Ente gestore dell’acqua pubblica, Marche Multiservizi, capitale pubblico e privato, costituito dal gruppo HERA, ora coinvolto nel tentativo di impiantare una discarica di RSA nella località Riceci, nei pressi di Urbino, a 10 anni dal vittorioso referendum sull’acqua?
Aveva denuncia per danno d’immagine, in piena logica di mercato, DDN, e chiesto loro un indennizzo di 50.000 euro.
Al di là della composizione legale del conflitto, resta la reazione comune a molti cittadini che, di fronte alle frequenti rotture dell’acquedotto, lasciano spesso i movimenti da soli e continuano a comperare acqua nelle bottiglie di plastica, anche in nome di una presunta igiene, che non sappiamo quanto l’acqua nella plastica, proveniente da chissà dove possa assicurare.
Eravamo partiti dalla tentazione di rinunciare a qualsiasi protesta, anche minima, e abbandonarsi al fastidio nei confronti del prossimo, ma di fronte a tanto analfabetismo di ritorno sentiamo sempre la voce di Rosa Luxemburg che ci ripete che la lotta di classe non la possiamo abbandonare, perché il capitalista la farà sempre.
Marcello Pesarini