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Non lasciamo spazio alla rassegnazione

di Leopoldo
Tartaglia

* del Direttivo nazionale Cgil – 

Il riacutizzarsi della pandemia e le misure da semi-lockdown del Dpcm del 25 ottobre scorso, sembrano aver messo la sordina al surreale “dibattito” sul Mes.

Solo in Italia si discute di Mes. Negli altri Paesi europei non solo nessuno vi ricorre – diversamente dal Sure, già attivato da 12 Stati – ma in alcuni, ad esempio Spagna e Portogallo, si discute semmai sull’opportunità o meno di accedere alla parte prestiti del Next Generation Eu.

E’ inequivocabile che il nostro Paese debba aumentare la spesa sanitaria, dopo anni di pesanti tagli, riqualificandola su alcuni precisi assi: potenziamento delle strutture territoriali e di prevenzione, portando i medici di base all’interno del Ssn come dipendenti; integrazione socio-sanitaria; forte riequilibrio del settore pubblico riducendo progressivamente le prestazioni e i profitti del privato; forte piano di assunzioni di medici ed infermieri nel pubblico; ridisegno della rete ospedaliera e aumento dei posti letto, soprattutto nell’immediato per quanto riguarda le terapie intensive.

Così come è fuori di dubbio che sono stati sprecati mesi importanti per attrezzare il pubblico non già ad una “seconda ondata”, ma alla convivenza con la pandemia da Covid 19. L’allarme di questi giorni su tamponi, vaccinazioni antinfluenzali, carenza strutturale di terapie intensive – per non dire, su altro versante, della situazione del trasporto pubblico locale – dimostra ancora una volta la tragica inadeguatezza del sistema. Senza contare che la necessaria priorità ai malati Covid continua a scaricarsi – con tempi d’attesa insostenibili e “malasanità” – sulle persone affette da altre malattie e bisognose di cure o interventi chirurgici, a partire dagli anziani. I gravi ritardi accumulati hanno portato alle nuove, severe e discutibili, misure di semi-lockdown del Dpcm del 25 ottobre.

Ma c’è da domandarsi se tutto questo, oggi, dipende principalmente da una mancanza di risorse. Sono stati spesi e come i 5,4 miliardi che, nelle varie “manovre Covid”, il governo ha stanziato per far fronte all’emergenza sanitaria? Non c’è, prima di tutto, un problema di governance del sistema, con 19 sistemi regionali (più Bolzano e Trento) diversi tra loro che investono o spendono “a macchia di leopardo”? Non è ancora preminente lo sbilanciamento di risorse pubbliche verso il sistema privato? Non stiamo assistendo all’ennesimo scaricabarile – così come avvenuto durante il picco della pandemia in primavera – tra governo, commissario straordinario e Regioni? 

E siamo così certi che tanti degli appelli al Mes di politici e amministratori locali non servano come alibi per nascondere le proprie responsabilità? Come dire: “non ci avete dato i soldi”, per non dire se, come, quando hanno utilizzato quelli già stanziati!

L’obiettivo primo, allora, è quello di continuare a mobilitarsi, pur nelle oggettive difficoltà dovute alle doverose misure di distanziamento e sicurezza, per imporre al governo, da un lato, alle Regioni dall’altro, di produrre piani chiari e stringenti per investire nella sanità pubblica, in vista delle risorse del Recovery Fund e ora con la spesa ordinaria e corrente. Così come di mettere finalmente mano ad un potenziamento del sistema di trasporto pubblico locale, oggi tra i principali incubatori del contagio per le evidenti condizioni di sovraffollamento dei mezzi nelle ore di punta (e non solo).

A farne le spese, paradossalmente, sono gli studenti delle superiori ed il diritto all’istruzione – dopo i lunghi mesi estivi in cui tutti si stracciavano le vesti per il pericolo che le scuole non fossero pronte per la didattica in presenza – e, ancora una volta, i lavoratori dello spettacolo, dello sport amatoriale e del tempo libero, della ristorazione.

È evidente che il governo naviga a vista, incapace di rispondere efficacemente ad una “nuova” quanto prevedibile e prevista emergenza sanitaria e sottoposto alle forti pressioni di un padronato – capeggiato dalla Confindustria bonomiana – che già in primavera ha cinicamente dimostrato di non tener in alcuna considerazione la salute di cittadini e lavoratori.

Mentre annuncia le necessarie “compensazioni” per i settori più colpiti dalle misure restrittive, il governo sembra incapace di opporsi alle pretese padronali di porre fine al blocco dei licenziamenti e di dare mano libera al mercato sia nella fase “emergenziale” che in quella, speriamo più vicina possibile, della “ripresa” e della “resilienza”.

Sin che dura la condizione straordinaria di crisi sanitaria Cgil, Cisl e Uil chiedono che siano prorogati il blocco dei licenziamenti, la cassa integrazione Covid e le ulteriori indennità Covid e tutele in caso di disoccupazione. Non si deve trattare, anzi, di una necessaria misura difensiva, ma da subito – siamo già in ritardo – deve affermarsi un ruolo attivo e diretto del settore pubblico per la creazione di posti di lavoro, a partire dai settori della sanità e della scuola, ma per tutti i necessari investimenti pubblici che potranno essere finanziati dal Next Generation Eu, ma dovrebbero trovare avvio – col ricorso all’indebitamento, se necessario – già con la legge di bilancio. Si pensi, ad esempio, ad un più che mai necessario piano di riassetto idrogeologico del territorio, di messa in sicurezza ed efficientamento energetico degli edifici pubblici e privati, di interventi sulla mobilità con lo sviluppo-ristrutturazione delle reti ferroviarie secondarie, lo spostamento del traffico merci su rotaia e di quello automobilistico privato su una nuova mobilità collettiva.

Le grandi linee della prossima manovra economica e del suo legame con il “Recovery plan”, così come presentate dal governo, non erano adeguate già prima della nuova espansione dei contagi e delle nuove misure restrittive. Del tutto insufficienti sono le risorse previste per il rinnovo dei contratti pubblici e per le assunzioni indispensabili alla scuola e alla pubblica amministrazione.

Alla conferma del taglio del cuneo fiscale a favore dei lavoratori, così come chiesto da Cgil, Cisl, Uil e ottenuto lo scorso anno, e all’annuncio dell’istituzione dell’assegno unico a sostegno della famiglia, a decorrere dal primo luglio 2021, non corrisponde ancora la necessaria riforma del fisco, rinviata, dopo gli annunci, al 2022. È evidente, al contrario, che non è più sostenibile, tantopiù di fronte alla pandemia, una situazione in cui si allargano drammaticamente le già enormi diseguaglianze sociali, con una crescita esponenziale delle fasce di povertà, anche tra i lavoratori, da un lato, e un’accentuazione della concentrazione della ricchezza in patrimoni e redditi sempre più alti per una fascia sempre più ristretta della popolazione. Non basta potenziare la già poco efficace lotta all’evasione fiscale. Bisogna ridisegnare il sistema fiscale, portando tutti redditi (inclusi rendite e profitti) alla progressività dell’Irpef, rimodulando le aliquote con un abbassamento per i redditi da lavoro e da pensione e un innalzamento di quelle sui redditi più alti, introducendo – come già in altri paesi – una tassa ordinaria sulle grandi ricchezze, riportando a efficace tassazione le successioni superiori ad una determinata soglia, riducendo strutturalmente l’evasione dell’Iva anche attraverso il conflitto di interessi tra soggetti, cioè con la deducibilità delle spese soggette ad Iva.

La risposta alla pandemia non può consistere nella riproposizione dello stesso modello di sviluppo, insostenibile da un punto di vista sociale ed ambientale. All’ottimismo della prima fase – “nulla sarà come prima” – rischia di sostituirsi, da un lato, una sorta di rassegnato “realismo” alla precedente “normalità”, dall’altro, la rivolta di piazza – come abbiamo visto a Napoli – di chi si trova nella situazione reale del “tutto è peggio di prima”. Né possiamo cavarcela con la denuncia delle infiltrazioni camorristiche e della evidente – di sicuro a Roma – strumentalizzazione da parte di Forza Nuova e Casa Pound.

Servono scelte coraggiose e innovative: intervento pubblico diretto per creare lavoro stabile; politiche sociali che pongano fine alla dilagante precarietà, con la riduzione generalizzata degli orari di lavoro a parità di salario, l’istituzione di un reddito di base universale e incondizionato, politiche migratorie inclusive e pienamente rispettose dei diritti sociali e di cittadinanza, investimenti pubblici in innovazione tecnologica, riconversione ecologica, economia circolare, con le giuste tutele e i necessari percorsi di formazione per le lavoratrici e i lavoratori coinvolti. Tutto il contrario di un novo via libera ai licenziamenti.

In una fase oggettivamente molto complicata il sindacato è chiamato ad essere protagonista della proposta, della rivendicazione e della mobilitazione, facendosi strumento democratico della protesta di chi oggi si sente escluso e le cui energie devono essere canalizzate in un movimento di reale trasformazione.   

SSN
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