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Non è un Paese per giovani

di Roberto
Musacchio

Un Paese, l’Italia, che ha una popolazione di età media alta, con più ultrasessantenni (oltre 18 milioni) che giovani fino a 19 anni (poco più di 10 milioni) riesce a combinare dati significativamente tra i peggiori in Europa sia per scolarizzazione ed occupazione giovanile, sia come pensioni medie  sia come medie salariali.

A dire che il tanto sventolato conflitto generazionale è stato abusato da trent’anni per togliere ai più grandi senza dare ai più giovani. Una vera e propria truffa cognitiva degna delle peggiori campagne di fake, gestita da buona parte della “intellighenzia” di regime e dei massmedia embedded. Volta a celare l’unico dato reale e cioè che si sono tolti reddito e diritti a chi meno ha e alla maggioranza per favorire gli arricchimenti dei già ricchi e l’accentramento del potere.

Veramente non è un Paese per giovani quello in cui si muore per “imparare” a lavorare in attesa di farlo sul lavoro “vero e proprio” e si viene manganellati se si protesta. Ma non sono i casi estremi che fanno scandalo quanto la normalità dello sfascio.

In Italia l’abbandono scolastico è tre punti più alto della media europea, l’11,5% per le donne e il 15,4% per i maschi. Ancora peggiore il gap sui laureati che è di 14 punti, tenendo conto che i laureati maschi sono addirittura solo il 21,6% mentre le donne il 33,8%.

Salvo poi avere un gender gap  con le donne più escluse dal mercato del lavoro e peggio pagate degli uomini sia per peggiori inquadramenti che per disparità retributive a parità di grado.

Decenni di aziendalizzazione e subalternità della scuola alle imprese hanno prodotto il tasso più basso di occupazione giovanile (tra i 25 e i 29 anni) d’Europa, il 56,3% a fronte del 76% di media continentale. Con la percentuale enorme del 29,7% che né studiano né lavorano a fronte di una media europea del 16,6%!

I NEET (neither in employed, education or training) sono il 28,2% tra i nati in Italia e il 38,2% tra i nati all’estero.

Tra il 2009 e il 2018 abbiamo avuto 330 mila giovani italiani emigrati all’estero, 235 mila considerando i rientri) passando da 20 mila all’anno ai 40 mila dopo il 2016.

Nel lavoro pubblico poi la presenza giovanile è infinetesimale, a livelli dell’uno per cento a fronte di numeri a due cifre ad esempio in Gran Bretagna. Infatti l’età media dei lavoratori pubblici in Italia è abbondantemente sopra la media europea a partire da settori chiave come la scuola e la sanità. Oltre ad essere sotto media occupazionale europea proprio l’intero comparto pubblico per non parlare del confronto con i Paesi nordici che hanno fino al doppio e più di lavoratori pubblici (la Svezia ne ha il 30%) con per altro tassi occupazionali complessivi anche di 25 punti superiori a quello italiano.

Questo è il combinato disposto che risulta da problemi storici, basso tasso di occupazione, divaricazioni tra Nord e Sud, esclusione femminile, su cui si sono abbattuti trent’anni di follie ideologiche che hanno precarizzato il lavoro, prolungato l’età lavorativa, legato il sistema pensionistico non alla crescita occupazionale ma a quella contributiva resa impossibile dalla precarizzazione e dai bassi salari, bloccato da quasi 50 anni il rimpiazzo nel lavoro pubblico, aziendalizzato tutto e concentrato tutti i finanziamenti e i poteri nelle aziende.

Risultato? Un sistema senza né capo né coda dove più si parla di relazione scuola lavoro e più si storpia sia la scuola che il lavoro. Una sorta di sistema di funzionalismo algoritmico che produce laureati rider, analfabetismo di ritorno, riduzione del lavoro ai suoi minimi valoriali.

In questo “paese delle meraviglie” si sono poi abbattute prima la crisi finanziaria e poi quella epidemica. Con i giovani chiusi in casa tra dad e hikikomori ( come sono detti coloro che non escono dalla abitazione e comunicano solo in rete) stimati già oltre i 100 mila.

Si è molto discusso sul termine rivolta dopo le esplosioni delle banlieue parigine. Certo è che una situazione come questa, ai limiti del genocidio antropologico, meriterebbe una solenne incazzatura.

Roberto Musacchio

 

 

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