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Non accettare

di Giancarlo
Scotoni

“Non accettare la realtà così come ci si presenta vuol dire contribuire alla sua liberazione. La sfida, il paradosso, sono quelli di credere nell’indispensabilità della rivolta anche senza aver fiducia nella possibilità di vincere: perché lo si deve, perché è bene e giusto che non si accetti, del mondo, quel che non va accettato – che è sempre e comunque violenza. Spingendosi ciascuno fin dove riesce a spingersi. Il senso del dovere di “non accettare” è il primo e indispensabile passo, il primo gesto. Ed è solo in apparenza qualcosa di facile, perché la realtà ci si impone con un massimo di forza e aggressività, nella manipolazione che ne fanno i poteri – e questo, forse oggi più che mai, nella capacità di penetrazione che ha dimostrato il modello di gestione della società in cui viviamo, basato sul consumo e su una ossessiva pressione per il consenso. E’ da qui che occorre partire oggi, di nuovo e come sempre: dal rifiuto di accettare la realtà come ci dicono sia, l’idea del mondo quale ci viene imposta da chi comanda e presume di dirigere le sorti di tutti, dell’uomo e della natura.”

E’ stata una infelice coincidenza quella che mi ha riportato sotto gli occhi queste righe di Goffredo Fofi a pochi giorni di distanza dalla sua scomparsa mentre in un liceo del Regno un giovane liceale compiva un intelligente sabotaggio al proprio esame di maturità.

Trovo quel rifiuto della modalità di assegnazione del  voto un atto di ribellione che merita di essere considerato nella sua politicità, a partire dalla sua eticità. Trovo le parole di Fofi politiche sul piano morale oltreché cariche di senso umano.

Nella notizia del gesto reale della ribellione del maturando trovo -inevitabilmente- anche una dimensione di speranza concreta e di spinta all’azione che fanno difetto alla dimensione morale e vi ritrovo anche l’esperienza di ribellione, di dignità preservata e di diritti rivendicati a cui potrei sentire che le righe di Fofi fanno così bene eco.

Vorrei rapidamente riassumere alcune riflessioni che questa differenza di riverbero mi ha suscitato.

Mi sono informato sommariamente delle motivazioni dello studente, ma credo che la critica che ha espresso verso il sistema di valutazione e gli effetti sull’esasperata concorrenza presente nelle scolaresche siano sufficienti perché il nesso tra responsabilità personale e realtà sociale ricostruita sia stabilito.

Dice Fofi dell'”indispensabilità della rivolta anche senza aver fiducia nella possibilità di vincere” e dice bene, profondamente, radicandosi nell’esperienza di tante e tanti nella ormai secolare lotta contro il capitalismo. Ma l’indispensabilità di cui parla è a mio vedere un fatto politico oltre che morale e dunque reclama condivisione, solidarietà, assunzione in primo luogo da parte di coloro che sono, nella realtà, i propri pari e non i nemici più prossimi. Un punto di vista per così dire più elevato e in un certo senso più esterno consente di allargare la condizione di parità. Oltre o al di qua -sono espressioni intercambiabili a seconda del contesto- del principio umanistico di uguaglianza, c’è l’uguaglianza storica che a partire dalle differenze si costruisce nelle lotte. E se nella ribellione i confini del noi e del loro possono essere ampi o ristretti, per giungere all’elogio morale della ribellione occorre passare per le determinazioni concrete di quel noi, per la battaglia politica che qualifica e contende il noi all’avversario.

Tornando al caso concreto, forse lo studente non avrà preteso con il suo gesto di modificare immediatamente le cose, anzi -probabilmente, se non è affetto da paranoia- egli si è mosso prima di aver valutato -di aver finalizzato- l’azione a un risultato collettivo. Eppure la dimensione politico-progettuale, l’inserimento di essa in un contesto proiettato verso il futuro, era nei fatti presente, implicita, in nuce, allo stato potenziale, vedete voi.

Non ho idea delle opinioni dello studente sul mondo: Valditara si sarà certo preoccupato di accertarle e solerti funzionari si saranno affrettati a accontentarlo. Dal punto del suo gesto sono irrilevanti ma comunque preferirei che non avesse mai letto Marx e nemmeno Lenin. Preferisco pensarlo senza cause pregresse, vederlo come una specie di studente generico. Il ministro per altro si è mosso con la più pronta intelligenza fascista: è il rifiuto dell’autorità costituita quello da reprimere blindando i regolamenti, poi qualche altra iniezioncina di retorica patriottarda e di purghe cultural-ideologiche nel mondo della scuola non mancheranno.

Ma il bue è già scappato dalla stalla, ancora una volta. Anche a causa di una delle caratteristiche del sistema di potere che nell’ansia di prendersi tutto deve fare i conti con l’imprevedibilità oltre che alla dirompenza potenziale di ogni rottura soggettiva.

Se consideriamo questa potenzialità, la ribellione del maturando secondo me dovrebbe essere assunta come una denuncia politica, una delle attività principali del partito secondo il Lenin del Che fare. Non dovrebbe far scandalo pensare che uno studente normale (…rugbista) che trova uno spazio e lo occupa con la sua soggettività critica faccia in questo modo politica. Politica rivoluzionaria, mi permetto di aggiungere a freddo.

Altrimenti perché io e certo tante e tanti altri abbiamo gioito alla notizia e ci siamo sentiti un poco più liberi e un poco meno soli? Alcuni commentatori si sono presi la briga di dividere il numero totale dei maturandi per quello dei casi noti di insubordinazione, ottenendone decimillesimi e gongolando.

In contrapposizione a questi ragionieri del consenso (che, inutile ripeterlo, è e resta un consenso truccato) verrebbe da contrapporre la retorica rivoluzionaria, appunto, e parlare di studente ribelle. Ma subito dopo, date le crepe che la retorica apre, potremmo iniziare a dividerci sulla appropriatezza delle parole. E’ un compagno? Quanto? Quanto è consapevole? oppure Che posizione occupano gli studenti del liceo nella divisione capitalistica del lavoro? Tutti argomenti importanti ma che non dovrebbero, io credo, entrare a gamba tesa nella valutazione politica. Ovvero, come dice Fofi, “Spingendosi ciascuno fin dove riesce a spingersi” e senza escludere qualcuno perché non si è spinto abbastanza avanti, ma mantenendo il carattere inclusivo della propria parte.

Ha ragione, ancora, Fofi a scrivere “Non accettare la realtà così come ci si presenta vuol dire contribuire alla sua liberazione”, soprattutto perché evita di capitalizzare in modo arbitrario e indistinto l’antagonismo a un dopo, ma il quanto e il come di questo contributo va costruito, e un primo passaggio essenziale è quello di lasciare spazio alle potenzialità, di interpretarle e coglierle, di attendere gli esiti ma intanto a adoprarsi attivamente a lavorare con e per.

E il primo modo per adoprarsi sta, io credo, nel riconoscere, nel connettere e nel diffondere lo spirito e la prassi della ribellione.

Connettere ogni ribellione, riconoscerla nelle scuole, nelle famiglie, nelle fabbriche, negli ospedali, nelle menti e ovunque sorgano le reazioni, le diserzioni e i rifiuti che questo insostenibile sistema di asservimento, negazione e guerra non smette di provocare.

Nel linguaggio della classe dominante la ribellione ha una connotazione spregiativa: è gesto dell’oppresso e del deviato, del criminale e dell’apostata, sempre gesto sterile o criticabile e certo gli ufficiali della Potemkin giudicarono una ribellione l’insorgere dei marinai contro la qualità della mensa.

Ma l’ammutinamento della corazzata Potemkin, di lì a poche settimane era diventato uno degli episodi salienti della rivoluzione russa del 1905. Non poteva saperlo nessuno, nemmeno i marinai della Potemkin prima di ribellarsi.

Giancarlo Scotoni

 

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