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Nessuno salva il Myanmar che va verso una guerra civile

di Alessandro
Scassellati

La già drammatica situazione in Myanmar potrebbe evolvere presto in una guerra civile con uno scenario di tipo siriano, con decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di profughi sulla scia di una micidiale repressione da parte della giunta militare golpista, che finora ha ucciso oltre 840 persone e ne ha arrestate oltre 5 mila, e una resistenza armata da parte di milizie etniche e popolari. La popolazione spera in un aiuto internazionale ma, per ragioni di competizioni geopolitiche e per la paralisi decisionale degli organismi internazionali, non è arrivato nessuno e molto probabilmente nessuno arriverà. Il resto del mondo assiste in silenzio alle continue crudeltà perpetrate contro la popolazione civile dall’esercito golpista, mentre l’economia nazionale sta collassando con almeno metà dei 54 milioni di birmani che sono ormai in estrema povertà. La prospettiva è quella che si vada verso uno “Stato fallito” nel cuore vitale dell’Asia, destabilizzando l’intera regione.

Colpo di stato, repressione e reazione popolare

Il 1º febbraio, poche ore prima dell’insediamento del nuovo Parlamento, il Tatmadaw – il termine locale usato per le forze armate composte da circa 400 mila uomini (il secondo esercito per dimensioni del Sud-Est Asiatico, dopo il Vietnam), per le quali si spende il 13-14% del bilancio dello Stato – agli ordini del generale Min Aung Hlaing ha realizzato un colpo di Stato, arrestato il premio Nobel per la Pace 1991 e di fatto capo del governo Aung San Suu Kyi, i componenti non militari del suo governo e i suoi più stretti collaboratori (compreso Sean Turnell, un consigliere economico australiano della Macquarie University di Sidney), e dichiarato lo stato di emergenza nazionale per un anno.

Centinaia di membri del nuovo Parlamento sono stati confinati all’interno delle loro abitazioni nella capitale Naypyidaw (città costruita in segreto dal Tatmadaw nel cuore della giungla negli anni della dittatura militare). La giunta militare (State Administrative Council), guidata dal generale Min Aung Hlaing1, ha mandato blindati e carri armati a pattugliare strade ed aeroporti, ha sostituito ministri, viceministri e governatori, e deciso il coprifuoco dalle 8 di sera alle 6 del mattino.

L’accusa ufficiale contro Aung San Suu Kyi era piuttosto ridicola: possesso di sei radio walkie-talkie importate illegalmente e usate senza autorizzazione dalla sua scorta (accusa che può comportare fino a due anni di reclusione). Il presidente del Paese (e membro del partito di Aung San Suu Kyi), Win Myint, invece è stato accusato di aver violato i protocolli sul coronavirus per aver incontrato una folla di sostenitori durante la campagna elettorale. Da allora, Aung San Suu Kyi è stata tenuta agli arresti domiciliari ed è riapparsa di persona per la prima volta, insieme al deposto presidente Win Myint, in un’audizione del tribunale il 24 maggio. Alle prime accuse contro di lei è stata aggiunta quella per la violazione di una legge sui segreti statali punibile in 14 anni di carcere. Seppure a livello internazionale la figura di Aung San Suu Kyi si era clamorosamente offuscata negli ultimi anni, passando da essere icona della pace a difensore del genocidio Rohingya, tra la popolazione dell’etnia maggioritaria Bamar è rimasta ancora una figura molto popolare2.

La causa scatenante del colpo di Stato dei militari è stata la schiacciante vittoria alle elezioni politiche nazionali dell’8 novembre del partito di Aung San Suu Kyi, la Lega Nazionale per la Democrazia (LND), che ha vinto l’82% dei seggi – 920 su 1.117 -, mentre il partito sostenuto dai militari (Union Solidarity and Development Party – USDP), con loro grande sorpresa e rabbia, è riuscito a vincerne solo 77 (6,4%, 117 in meno di 5 anni prima). I militari avevano denunciato (senza fornire prove) una diffusa frode elettorale, anche se gli osservatori internazionali hanno certificato le elezioni come pienamente regolari. Ancora il 18 maggio, l’Asian Network for Free Elections, che aveva osservatori in oltre 400 seggi durante il voto di novembre, ha ribadito nel suo rapporto che il risultato del voto è stato “in linea di massima rappresentativo della volontà popolare” e che è “indifendibile” la decisione di ignorare il risultato elettorale3.

Il fatto è che, come la mobilitazione di massa contro la giuta militare ha dimostrato, il risultato ha espresso fin troppo bene il punto di vista dell’opinione pubblica e questo ha portato alla fine dell’esperimento decennale di condivisione del potere tra militari e civili. Presumibilmente, i generali si sono resi conto che il tentativo di applicare il “modello Thailandia” era fallito. Non sarebbe stato possibile riciclare il potere militare nell’autorità politica tramite un partito politico di copertura (USDP), come invece ha fatto finora l’esercito nella vicina Thailandia dopo il golpe del 2014.

Da quando i militari hanno preso il potere, un iniziale senso di shock ha lasciato il posto a vivaci proteste di massa contro la giunta militare: centinaia di migliaia di persone in paesi e città dalle pendici dell’Himalaya all’estremo confine meridionale ai margini del Mare delle Andamane hanno marciato contro le forze armate note per la loro spietatezza e crudeltà. Protagonisti delle proteste sono state soprattutto le giovani generazioni che nell’ultimo decennio hanno vissuto un’esperienza di democratizzazione, seppure molto incompleta4. Sono loro che hanno riempito le strade di manifestazioni creative e hanno bombardato i social media con messaggi carichi di meme.

Da parte sua, anche i militari non hanno accennato a fare marcia indietro. Gli alti ufficiali hanno indottrinato o forzato i membri delle forze armate a credere nel proprio status privilegiato all’interno della società, per cui le forze armate appaiono impermeabili alla ragione e alla persuasione. Non c’è spazio per la cooptazione dell’esercito da parte di altre forze. La disciplina interna storicamente forte del Tatmadaw rende altamente improbabile una scissione all’interno dei suoi ranghi. Gli alti ufficiali golpisti ricorrono all’unica strategia che sembrano conoscere molto bene: l’uso impunito della violenza, senza alcuna considerazione per le vittime civili, anzi considerano deliberatamente i civili come obiettivi in quanto parte di una brutale strategia di contro-insurrezione. Per decenni il Tatmadaw ha inflitto distruzione alle aree delle minoranze etniche nelle terre di confine del Paese, in quella che costituisce la guerra civile più lunga del mondo. I risultati della carneficina attuata dal 1º febbraio sono già chiari: devastazione economica e sociale, profonde fratture interne, morti, feriti, vaste sofferenze umane e flussi di rifugiati fuori dal Paese.

Come ha scritto lucidamente Derek J. Mitchell (ex ambasciatore degli Stati Uniti in Myanmar dal 2012 al 2016) su Foreign Policy a metà aprile l’epilogo possibile di questo scontro sembra essere simile a quello vissuto dalla Siria nell’ultimo decennio: “L’attuale incendio in Myanmar porterà a una desolazione ancora maggiore. I militari continueranno a uccidere e imprigionare decine di cittadini. I servizi di base, inclusi servizi bancari, sanitari e governativi, si atrofizzeranno. L’economia del Myanmar, già martoriata dal CoVid-19, crollerà. I principali investitori stranieri, di fronte a gravi rischi reputazionali e finanziari, fuggiranno o eviteranno il Paese5. Cina, India, Thailandia e altri Paesi confinanti sentiranno ancora una volta la pressione per accettare frotte di migranti e rifugiati e fare i conti con la crescente illegalità, violenza e disperazione lungo i loro porosi confini con il Myanmar. L’intera regione diventerà meno stabile.

Oltre 5.500 persone sono state arrestate dal colpo di Stato e in maggioranza rimangono in detenzione, spesso in luoghi sconosciuti. Almeno 841 persone, compresi 52 bambini, sono state uccise da polizia e forze armate durante le manifestazioni o nel corso di torture e raids notturni nelle case che hanno terrorizzato interi quartieri urbani e villaggi rurali. La giunta afferma che almeno due dozzine di membri delle forze di sicurezza sono stati uccisi durante le manifestazioni di protesta.

I militari hanno cercato di schiacciare ogni forma di dissenso negli ultimi mesi, arrestando o assassinando oltre 30 scrittori (4 poeti sono stati uccisi brutalmente) e celebrità le cui parole avevano il potere di ispirare speranza e ribellione. Più di 70 giornalisti (almeno 4 stranieri) sono stati arrestati dai militari negli ultimi mesi nel tentativo di eliminare la copertura mediatica delle proteste anti-golpe e del terrore imposto dalle forze di sicurezza sulle comunità. I militari hanno revocato le licenze di alcune pubblicazioni, hanno fatto irruzione negli uffici di giornalisti e hanno annunciato mandati di cattura contro i giornalisti. Molte testate hanno continuato la loro copertura indipendentemente dal fatto che i giornalisti operano ormai nella clandestinità.

Una comunità internazionale per ora impotente

Il colpo di mano dei militari ha provocato una diffusa condanna internazionale, con il neo presidente americano, Joe Biden, che ha imposto sanzioni e tagli agli aiuti economici, e ha chiesto agli altri governi di premere affinché i militari rilascino i detenuti, rinuncino al potere, ripristino un governo democraticamente eletto, revochino tutte le restrizioni alle telecomunicazioni e si astengano dalla violenza.

La Nuova Zelanda ha dichiarato di sospendere tutti i contatti politici e militari di alto livello con il Myanmar, e che assicurerà che gli aiuti non giovino ai militari e imporrà un divieto di viaggio ai suoi leader.

Anche Papa Francesco si è schierato con chiarezza contro i leader militari, esprimendo la sua “solidarietà alla popolazione” e chiedendo a tutte le parti in causa di servire il bene comune e cercare l’armonia “democratica“.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha affermato che il colpo di stato, arrivato un decennio dopo che il Myanmar ha iniziato la sua transizione dalla dittatura militare verso un sistema democratico rappresentativo, è “un grave colpo alle riforme democratiche“.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si è riunito prontamente per discutere la questione, ma Cina e Russia (con l’aggiunta anche di India e Vietnam), entrambi con poteri di veto, hanno protetto il Myanmar da conseguenze significative, bloccando un tentativo guidato dai britannici di arrivare ad una dichiarazione di condanna del colpo di stato, anche se nella dichiarazione congiunta il Consiglio di Sicurezza aveva chiesto la liberazione di Aung San Suu Kyi e di altri detenuti. Cina e Russia avevano minato anche i tentativi di esercitare pressioni significative sul Myanmar per le atrocità commesse contro i Rohingya nel 2016-17.

A caldo, alcuni analisti internazionali hanno ritenuto che dietro al colpo di stato ci fosse la Cina. Una ipotesi alquanto improbabile, perché il regime, inclusa Aung San Suu Kyi, aveva chiarito di essere in sintonia con la Cina. Un anno fa, Xi Jinping ha incontrato Aung San Suu Kyi a Naypyidaw per la settima volta dal 2015 e ha firmato 33 accordi relativi a infrastrutture, commercio e investimenti produttivi. Il Myanmar partecipa pienamente all’iniziativa cinese Belt and Road (BRI) 6. Il 12 gennaio il governo di Aung San Suu Kyi aveva incontrato il ministro degli esteri cinese Wang Yi (incontrato anche dal generale Min Aung Hlaing), il quale aveva promesso sia il sostegno della Cina al regime sulla questione dei Rohingya sia 300 mila dosi di vaccino contro il coronavirus. In cambio il presidente Win Myint aveva promesso che il Myanmar avrebbe continuato a sostenere la posizione della Cina sulle questioni relative a Taiwan, Tibet e Xinjiang.

Gli enormi investimenti cinesi in Myanmar richiedono stabilità, non un ritorno all’agitazione per la democrazia pre-2011 e all’eventuale riattivazione dei conflitti etnici armati nel Paese. D’altra parte, negli ultimi anni la Cina ha sempre esercitato una certa influenza moderatrice sui gruppi etnici – Shan (10% della popolazione), Kachin (1,5%), Wa, Han cinesi (3%) – che vivono nelle regioni vicine al confine cinese7. L’ultima vera frizione fra Cina e Myanmar si è verificata nel 2011, quando U Thein Sein, un ex membro della giunta a capo di un governo di transizione, ha sospeso la costruzione di una grande diga da 3,6 miliardi di dollari a Myitsone nello Stato Kachin sostenuta dalla Cina che avrebbe allagato un luogo sacro e sarebbe servita per inviare quasi tutta l’elettricità generata in Cina.

Con i Paesi occidentali che sono tornati ad imporre sanzioni punitive contro il Myanmar, la Cina avrà molto da guadagnare, perché queste rendono i generali non solo più odiati in patria e ostracizzati all’estero, ma anche più che mai dipendenti dalla Cina. In ogni caso, gli aiuti degli Stati Uniti al Myanmar sono stati pari a solo 180 milioni di dollari nell’anno fiscale 2020 (circa la metà di questi aiuti sono stati umanitari o di assistenza sanitaria), per cui il taglio di questi aiuti e l’imposizione di nuove sanzioni non influenzerà certo il comportamento dei generali. Più di 100 mila cinesi lavorano attualmente in Myanmar, ma prima della pandemia erano 300 mila8. Il commercio con la Cina – il suo principale partner commerciale – attraverso il confine terrestre ha superato i 17 miliardi di dollari nel 2019, secondo i dati ufficiali locali (mentre quello con gli Stati Uniti è arrivato solo a circa 1,4 miliardi).

Inoltre, c’è da considerare il ruolo della Russia. La lotta per l’influenza in Myanmar ha una dimensione geopolitica e dal 2015, a seguito della firma di un accordo di cooperazione militare, la presenza russa è aumentata e, soprattutto, coincide con la crescente presenza russa nell’Oceano Indiano. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha visitato l’India e il Pakistan ad inizio aprile e la Russia ha fatto da mediatore nella risoluzione della disputa di confine tra India e Cina, oltre ad un suo crescente ruolo nel processo di pace afghano. Soprattutto, negli ultimi anni la Russia è diventata uno dei principali partner militari del Myanmar e gestisce un centro di assistenza in Myanmar. In gennaio, il viceministro della Difesa russo Alexander Fomin ha detto ai media che il Myanmar svolge “un ruolo chiave nel mantenimento della pace e della sicurezza nella regione“. È del tutto concepibile che la Russia, che ha una grande esperienza nel contrastare le rivoluzioni democratiche, condivida l’intelligence con l’esercito del Myanmar. Attualmente, oltre seicento ufficiali militari del Myanmar stanno studiando nelle accademie militari russe. Il capo militare del Myanmar Min Aung Hlaing ha viaggiato in Russia sei volte negli ultimi anni, più che in qualsiasi altro Paese.

Durante la visita del ministro della Difesa Sergei Shoigu a Naypyidaw in gennaio, i media russi hanno citato il generale Hlaing che ha detto: “Proprio come un amico fedele, la Russia ha sempre sostenuto il Myanmar nei momenti difficili, soprattutto negli ultimi quattro anni“. È stato firmato un accordo per la fornitura di un lotto di sistemi missilistici per la difesa aerea e un lotto di artiglieria Pantsir-S1. L’agenzia di informazione Tass ha riferito che “il comando delle forze armate del Myanmar ha mostrato interesse per altri sistemi d’arma avanzati di fabbricazione russa“. Secondo quanto riferito, Shoigu ha espresso interesse a stabilire un accordo che consenta la sosta di navi da guerra russe nei porti del Myanmar.

La presenza del viceministro della Difesa russo Fomin, che ha definito il Myanmar “un alleato affidabile”, alla parata per la giornata della Giornata delle forze armate birmane a Naypyidaw il 27 marzo (che commemora l’inizio della resistenza dei militari all’occupazione giapponese nel 1945) – lo stesso giorno in cui l’esercito ha ucciso 114 civili (ma la cifra reale è probabilmente più alta) – ha inviato un messaggio chiaro: Mosca sta dalla parte dei militari e vuole essere protagonista nella regione, anche se soprattutto come venditrice di armi. Anche tutti i Paesi vicini del Myanmar – Cina, India, Pakistan, Bangladesh, Vietnam, Laos e Thailandia – hanno partecipato alla parata militare.

Infine, la giunta ha inviato a Mosca a metà maggio una delegazione militare guidata dal capo dell’aeronautica generale Maung Maung Kyaw per trattare 20 megaprogetti e l’approvvigionamento di armi e attrezzature militari che dovrebbe consentire di aggirare un eventuale embargo mondiale sulla vendita di armi al Myanmar.

Considerando tutto ciò, è possibile aspettarsi che Cina e Russia (sempre più alleate tra loro sul piano politico, economico e militare) continueranno a fornire una protezione al Myanmar per scongiurare la pressione diplomatica ed economica occidentale, come sta accadendo in Asia centrale. La Russia condivide la percezione cinese del QUAD – il Quadrilateral Security Dialogue che fa leva su USA, Giappone, Australia e India, e che potrebbe diventare una sorta di NATO dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico – come fattore destabilizzante nella sicurezza nella regione.

La repressione dei militari è continuata anche dopo la partecipazione del generale Min Aung Hlaing ad una riunione dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) a Jakarta il 24 aprile nel corso della quale era stato raggiunto un “consenso in cinque punti” sui passi per porre fine alla violenza e promuovere il dialogo costruttivo tra le parti in Myanmar. L’incontro ha segnato il primo sforzo internazionale concertato per trovare una soluzione alla crisi. Erano presenti i leader di Indonesia, Vietnam, Singapore, Malesia, Cambogia e Brunei, insieme ai ministri degli Esteri di Laos, Thailandia e Filippine. Apparentemente, Hlaing si era impegnato ad attuare le misure raccomandate dall’ASEAN per porre fine alla crisi, ma poi la giunta ha rifiutato di accettare le proposte dell’ASEAN, dicendo che le avrebbe prese in considerazione solo “quando la situazione tornerà alla stabilità” e a condizione che le raccomandazioni facilitino la roadmap dell’esercito.

I manifestanti in Myanmar hanno chiesto alle Nazioni Unite di invocare la “responsabilità di proteggere” (R2P). Adottato nel 2005 al Summit mondiale dell’ONU, un incontro di due giorni di circa 200 leader mondiali, R2P è un insieme di principi che cerca di prevenire crimini di massa di genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità. Creati dal desiderio di prevenire il ripetersi dei genocidi in Ruanda e nei Balcani negli anni ’90, i principi si basano su tre pilastri di responsabilità: che ogni Stato deve proteggere il proprio popolo; che il mondo deve aiutare gli Stati a proteggere le loro popolazioni; e che la comunità internazionale deve proteggere le persone quando i loro Stati non lo fanno.

Ma, la risposta della comunità internazionale finora è stata di tipo tradizionale, guidata dalle considerazioni geopolitiche dei vari Stati, dalla Cina agli Stati Uniti, dalla Russia all’Unione Europea9. La comunità internazionale si trova di fronte a un catch-22 in Myanmar: la situazione attuale richiede giustizia retributiva, ma ci sono poche possibilità che la giustizia retributiva funzioni con il Tatmadaw.

L’ambasciatore del Myanmar all’ONU per il governo pre-golpe, Kyaw Moe Tun, che continua a opporsi alla giunta dall’estero, ha chiesto al Consiglio di Sicurezza per far rispettare una no-fly zone sul Paese10 per impedire all’esercito del Myanmar di utilizzare i suoi aerei ed elicotteri d’attacco contro le milizie etniche, i villaggi rurali delle minoranze etniche, e i gruppi locali noti come forze di difesa civile che stanno sorgendo in varie parti del Paese, e imporre un embargo globale delle armi al Myanmar. Anche oltre 200 ONG, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno esortato il Consiglio di Sicurezza a imporre un embargo sulle armi.

Misure che incontrano l’opposizione di Cina e Russia nel Consiglio di Sicurezza, anche perché i maggiori fornitori di armi e attrezzature militari avanzate dell’esercito birmano sono Cina, Russia, Israele e Ucraina. In ogni caso, da molti anni l’esercito del Myanmar produce la maggior parte delle sue armi leggere e delle sue attrezzature in fabbriche gestite dai militari.

D’altra parte, nove nazioni del sud-est asiatico (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam), membri dell’ASEAN, hanno proposto di annacquare la bozza di risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU sul Myanmar, inclusa la rimozione della richiesta di embargo sulle armi, nel tentativo di ottenere il sostegno unanime del corpo di 193 Stati membri.

L’Unione Europea e gli USA hanno prima imposto e poi inasprito sanzioni contro il Myanmar per forzare la mano dei militari, ma assai limitate rimangono le opzioni di influenza ed intervento sia della UE sia degli Stati Uniti nella crisi birmana, che comunque certamente non investe i rispettivi “interessi vitali” e non richiede di intraprendere azioni drammatiche (come, ad esempio, un’invasione militare del Paese).

UE e Stati Uniti dovrebbero continuare a esercitare una leadership internazionale imponendo sanzioni mirate al Tatmadaw, sostenendo gli attori politici e civili che affrontano l’oppressione e costringendo la comunità internazionale, compresi gli alleati, a seguirne l’esempio. Potrebbero anche sottolineare l’urgenza e l’importanza della crisi in Myanmar assegnando degli inviati speciali per coordinare la politica con le capitali della regione a cominciare dai Paesi dell’ASEAN. Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore e Thailandia, insieme all’attuale presidente dell’ASEAN, Brunei, hanno tutti espresso pubblicamente una preoccupazione per gli sviluppi in Myanmar e dovrebbero coordinarsi tra loro e con UE, USA e altri Paesi per intraprendere un’azione indipendente di pressione sul Tatmadaw.

La prima fase: la disobbedienza civile di massa

Fin dall’annuncio del colpo di stato è iniziata una coraggiosa campagna di protesta e di disobbedienza civile di massa. La popolazione era frustrata e furiosa. La giunta militare ha rapidamente bloccato Facebook (utilizzato da metà dei 54 milioni di abitanti del Myanmar) e le altre reti social in modo da bloccare la mobilitazione online degli attivisti pro-democrazia.

Gli abitanti di Yangon (la ex capitale Rangoon, il centro industriale e commerciale del Paese con oltre 5 milioni di abitanti) e di altre città hanno picchiato su pentole e padelle e hanno suonato il clacson durante le notti per protestare contro il colpo di stato e le immagini di queste proteste sono circolate ampiamente su Facebook. Il social network è stato utilizzato anche per condividere le immagini di una campagna di disobbedienza civile da parte del personale sanitario degli ospedali governativi di tutto il Paese, che hanno accusato l’esercito di mettere i propri interessi al di sopra di un’epidemia di coronavirus che ha ucciso quasi 3.200 persone e ne ha contagiate oltre 141 mila, i numeri più alti del Sud-Est Asiatico. I medici hanno, però, continuato a curare i pazienti nelle loro case e presso cliniche no-profit.

La più grande federazione sindacale del lavoro del Paese, gli insegnanti e le organizzazioni degli studenti hanno esortato le persone a non collaborare con il governo militare e un gruppo Facebook intitolato “movimento di disobbedienza civile” ha ottenuto 180 mila like in poche ore. “Attualmente le persone che stanno turbando la stabilità del paese … stanno diffondendo notizie false e disinformazione e causando incomprensioni tra le persone utilizzando Facebook“, ha fatto sapere il Ministero delle Comunicazioni in un comunicato. Il principale operatore di rete mobile del Myanmar, la norvegese Telenor Asa, pur prendendo le distanze, ha dichiarato di non avere altra scelta che conformarsi alla direttiva11.

In molti si sono precipitati a scaricare l’app di messaggistica offline Bridgefy, che è stata utilizzata durante le proteste a favore della democrazia ad Hong Kong nel 2020, dopo che i servizi di telefonia e Internet sono stati interrotti. L’azienda ha detto che la sua app è stata scaricata più di 1 milione di volte in Myanmar in una settimana.

La prima protesta di strada contro il colpo di stato ha avuto luogo nella città di Mandalay (capitale culturale del Paese e sede della monarchia precoloniale del Myanmar), dove un piccolo gruppo ha cantato: “I nostri leader arrestati, rilasciateli ora, rilasciateli ora“. Il gruppo è stato rapidamente disperso dalla polizia antisommossa e quattro persone sono state arrestate. Piccole manifestazioni simboliche e “volanti” (per evitare gli arresti da parte della polizia) di protesta sono avvenute in diverse città.

La prima manifestazione di massa è arrivata cinque giorni dopo a Yangon. “Dittatore militare, fallisci, fallisci; Democrazia, vinci, vinci“, hanno gridato i manifestanti, invitando i militari a liberare Aung San Suu Kyi. Decine di migliaia di persone hanno manifestato anche il giorno successivo in diverse città. In centianaia di migliaia hanno marciato lunedì 8 febbraio nelle città di tutto il Myanmar – dalla città himalayana di Putao alle città sulle rive del Mare delle Andamane -, il terzo giorno di manifestazioni di piazza contro un colpo di stato. La maggior parte delle manifestazioni sono state pacifiche, ma nella capitale Naypyidaw la polizia ha usato cannoni ad acqua sulle migliaia di manifestanti.

Ai tre giorni di grandi proteste, la giunta militare ha reagito imponendo il coprifuoco e vietando raduni di più di quattro persone in buona parte delle circoscrizioni delle due città più grandi del Paese, Yangon e Mandalay. È stato vietato alle persone di lasciare le loro case tra le 8 di sera e le 4 del mattino (di fatto, imponendo la legge marziale). Ma, decine di migliaia di oppositori hanno sfidato i divieti e si sono radunati pacificamente anche per il quarto giorno, anche se nella capitale Naypyidaw la polizia ha usato cannoni ad acqua e idranti, ha sparato lacrimogeni, proiettili di gomma e proiettili veri contro i manifestanti (diverse persone sono state gravemente ferite da proiettili veri e una giovane donna è morta), mentre oltre due dozzine di persone sono state arrestate a Mandalay. La polizia ha anche fatto irruzione e distrutto il quartier generale del partito LND a Yangon durante le ore del coprifuoco imposto dai militari. Inoltre, i militari hanno messo sotto controllo una clinica che ha curato i manifestanti feriti nelle manifestazioni a Naypyitaw.

La giunta ha anche liberato 23 mila detenuti comuni (12 febbraio), una mossa che i militari fecero anche durante la rivolta popolare dell’agosto 1988, quando i criminali rilasciati terrorizzarono l’opinione pubblica, fornendo alle forze armate un pretesto per intervenire violentemente ed uccidere tra le 4 mila e le 5 mila persone. Altri 23 mila detenuti sono stati graziati e liberati successivamente, in occasione della tradizionale festa del capodanno di Thingyan (17 aprile).

Alla violenza della polizia i manifestanti hanno cominciato a rispondere lanciando sassi e mattoni. Inoltre, hanno alzato anche il tiro delle loro richieste per andare oltre la revoca del colpo di stato e la liberazione dei detenuti politici, arrivando a chiedere l’abolizione della costituzione del 2008 redatta sotto la supervisione militare e per un sistema federale in un Paese etnicamente molto diversificato – richieste del Comitato di sciopero generale delle nazionalità GSCN.

Nei giorni successivi, il regime militare ha deciso di cominciare ad utilizzare le maniere forti, con una ben maggiore brutale violenza repressiva contro coloro che manifestavano pacificamente per la democrazia nelle strade, come già avvenuto nel 1988 e 2007 (durante la cosiddetta “rivoluzione dello zafferano” guidata dai monaci buddisti). “Occorre agire secondo la legge con misure efficaci contro i reati che disturbano, impediscono e distruggono la stabilità dello Stato, la sicurezza pubblica e la legge“, ha dichiarato la TV di Stato, avvertendo che i militari consideravano illegale qualsiasi opposizione alla giunta ed erano pronti ad arrestare tutti coloro che avessero trasgredito le nuove direttive sull’ordine pubblico. Il 25 febbraio, a Naypyidaw e Yangon, a fianco alla polizia, si sono cominciati a vedere soldati armati e i loro mezzi blindati. Alle folle festanti si sono sostituiti gruppi organizzati di manifestanti, con caschi, occhiali protettivi e scudi improvvisati per proteggersi dai lacrimogeni.

La repressione militare è stata violenta e spietata. Scuole e ospedali sono stati trasformati in presidi militari. Dai cannoni ad acqua e proiettili di gomma si è passati alle munizioni vere. Internet è stato bloccato, le case private dei manifestanti sono state assaltate, le persone sono state arrestate arbitrariamente, pestate e torturate. A metà marzo i morti accertati erano 150, oltre 710 al 15 aprile, molti dei quali colpiti da proiettili alla testa o al petto. In alcuni casi si è trattato di veri e propri massacri, come l’uccisione di 82 persone nell’antica capitale Bago in un solo giorno (10 aprile). Almeno 5 mila persone sono state arrestate. Buona parte della violenza è stata mostrata in diretta streaming da una popolazione al tempo stesso terrorizzata e arrabbiata.

La seconda fase: la resistenza armata

L’inesorabile opposizione all’esercito ha riunito persone di classi, età e, soprattutto, gruppi etnici e religiosi diversi, molti dei quali sono stati emarginati e brutalizzati dai militari, alcuni per l’intera vita del Paese (dal 1948).

La coalizione che si è formata contro il Tatmadaw ha anche costretto il Paese a fare i conti con ciò che dovrebbe, o potrebbe, sostituirlo. In un primo momento, i manifestanti hanno chiesto il rilascio dei detenuti politici e il ripristino della democrazia. Ora vogliono qualcosa di radicalmente diverso.

Vogliono vedere la caduta della dittatura militare; vogliono vedere la costituzione del 2008 – che ha inaugurato il governo civile del Myanmar, ma ha mantenuto l’ultima autorità nelle mani dei militari – abolita per sempre. Vogliono stabilire una “unione democratica federale” con pari diritti e parità di trattamento per tutti.

Una presa di coscienza che è avvenuta nel giro di pochi mesi tra i giovani manifestanti dell’etnia maggioritaria Bamar, che con la repressione brutale e sfrenata dei militari hanno vissuto sulla loro pelle la violenza e le ingiustizie inflitte ai Rohingya e agli altri gruppi etnici minoritari per decenni.

Il Myanmar è uno Stato etnicamente diversificato, ma i gruppi etnici minoritari sono stati a lungo emarginati e, come i Rohingya, hanno dovuto affrontare discriminazioni, razzismo strutturale e spesso violenza. I militari, nel corso della loro storia, hanno usato questo a loro vantaggio, inquadrando questi gruppi come una minaccia per Paese che necessitava di una forte risposta militare. L’esercito ha basato il suo potere e i suoi profitti sul perpetuare l’eterno conflitto etnico nel Paese, perché questa era la sua vera e unica ragione di esistenza.

Quando l’esercito ha intensificato la repressione in città come Yangon, manifestanti, attivisti e membri del Movimento di Disobbedienza Civile di etnia Bamar sono fuggiti in aree controllate o difese da organizzazioni etniche armate. Questi gruppi hanno dato e danno loro rifugio, forniscono loro cibo. Stanno anche, in alcuni casi, fornendo addestramento militare, per prepararli a combattere la giunta. Questi gruppi stanno fornendo questo aiuto mentre l’esercito del Myanmar continua a prendere di mira queste aree con attacchi aerei e di artiglieria pesante, sfollando civili e costringendo alcuni a fuggire, come migliaia di persone di etnia Karen che cercano di fuggire in Thailandia.

La grande domanda è quanto sarà profonda questa spinta alla responsabilità e alla riconciliazione e se si tratta di un cambiamento duraturo o guidato solo dalla necessità contro un nemico oggi comune. Se c’è una vera speranza per le riforme e la fede in un nuovo Myanmar e nella riconciliazione, ci sono anche 60 anni di divisione e 60 anni di odio razziale ed etnico che non se ne vanno via dall’oggi al domani. I gruppi etnici minoritari temono di poter essere strumentalizzati da questi giovani Bamar dissidenti, senza che poi nulla cambi. Da un lato, c’è una lunga storia di sfiducia da superare. Dall’altro, tutti condividono il comune nemico Tatmadaw.

Il Myanmar ha molti gruppi etnici e organizzazioni etniche armate, e alcuni hanno sostenuto molto più apertamente il movimento di protesta rispetto ad altri. All’inizio, alcuni manifestanti hanno criticato i gruppi etnici armati per non essere intervenuti prima in difesa del movimento, una recriminazione che aveva echi sia di sciovinismo che di ipocrisia. Ciò è cambiato poiché i gruppi etnici hanno dato rifugio, nutrito e offerto assistenza ai manifestanti – e quel sostegno è condiviso e celebrato tra le reti sociali dei manifestanti, cosa che non è avvenuta durante il movimento per la democrazia alla fine degli anni ’80 e ’90. Tale visibilità ha creato un cambiamento sia in termini di rendersi conto di quanto siano pessime le forze armate, ma anche che i gruppi etnici armati stanno davvero facendo qualcosa per il cambiamento politico – e stanno effettivamente cercando di combattere la dittatura. D’altra parte, i gruppi etnici armati sono in una posizione di relativa forza. Sono quelli con le armi e l’esperienza nel combattere il Tatmadaw. E ciò per cui hanno combattuto, una democrazia federale, è finalmente una richiesta condivisa degli stessi manifestanti Bamar.

Nei sette Stati dove sono prevalenti le minoranze etniche del Myanmar (rispetto alla maggioranza nazionale Bamar) – Chin, Kachin, Kayah, Kayin, Mon, Rakhine e Shan – sono presenti e attive organizzazioni armate etniche anti-giunta che hanno combattuto a lungo il governo centrale. L’esercito birmano ha subito gravi perdite negli ultimi due anni nella lotta contro milizie etniche come l’Esercito Arakan, l’Esercito di Indipendenza Kachin e l’Esercito di Liberazione Nazionale Karen.

Nessuno ha ancora le risposte su come arrivare ad uno Stato federale, su quanto sarebbe davvero inclusivo e su come potrebbe avvenire la vittoria sul Tatmadaw. La recente unità delle forze in opposizione ai militari golpisti non si estende ad un consenso su quale forma di governo si dovrebbe instaurare dopo la destituzione della giunta militare. Inizialmente, la proposta di un “governo di unità nazionale” annunciata dal Comitato di Rappresentanza di Pyidaungsu Hluttaw (CRPH – Pyidaungsu Hluttaw è il nome della legislatura del Myanmar), un piccolo gruppo di politici in gran parte della Lega Nazionale per la Democrazia che avrebbero dovuto diventare membri della legislatura prima che l’esercito ribaltasse i risultati delle elezioni, ha ricevuto un tiepido sostegno dai principali gruppi etnici e dalle organizzazioni della società civile che sostengono il Movimento di Disobbedienza Civile.

Dal 16 aprile il CRPH ha formato un governo di unità nazionale parallelo – il NUG – che include alcuni membri del movimento di protesta e delle organizzazioni etniche. Il NUG ha promesso di creare una nuova costituzione costruita sull’idea del Myanmar come una “unione federale democratica“, che potrebbe mantenere la promessa di dare una partecipazione a minoranze etniche e gruppi religiosi. L’intenzione espressa è di istituire un Esercito dell’Unione Federale che includa gli eserciti delle organizzazioni etniche preesistenti. Ma, per ora, il NUG non garantisce che i Rohingya perseguitati non saranno esclusi da un futuro Stato nazionale, né offre alcun impegno per lo smantellamento del Tatmadaw.

Il CRPH, con il NUG, è l’organismo che sostiene il movimento democratico del Myanmar con la comunità internazionale che finora ha evitato di riconoscere il NUG come governo legittimo al posto della giunta militare. Ma. i membri del Movimento per la Disobbedienza Civile e altri attivisti più giovani hanno espresso un certo scetticismo sul fatto che il NUG sia davvero impegnato nell’idea di una democrazia federale inclusiva. Allo stesso tempo, in un movimento altrimenti senza leader e diversificato, CRPH e NUG sono saliti in cima.

Molti vedono il CRPH e il NUG usare la giusta retorica, ma ritengono che non riescano a dare un vero potere decisionale ai gruppi etnici, o almeno alle parti interessate in quelle comunità che hanno molta influenza. Altri criticano l’organismo per non aver condannato completamente il trattamento riservato alle minoranze etniche in passato, compresi i Rohingya. Un ministro del governo ombra si è scusato pubblicamente con i Rohingya, ma i funzionari del NUG non hanno ancora adottato una politica ufficiale sui Rohingya. Solo negli ultimi giorni il NUG ha fatto sapere di essere disponibile a dare carte d’identità per la minoranza espulsa quasi completamente dal Paese e di aver deciso si conferire a Maung Zarni – attivista della causa Rohingya – la nomina a consulente del ministro della Cooperazione Internazionale.

Altri, come GSCN, stanno lavorando per cercare di fare pressione sul CRPH e sul NUG affinché siano più inclusivi anche nei confronti della classe operaia e non siano solo espressione delle classi benestanti liberali e del ceto medio. Molti vedono il NUG come una versione rimescolata della NLD, solo con persone che non avevano potere durante la guida del partito da parte di Aung San Suu Kyi. Alcuni attivisti temono anche che il NUG ad un certo punto stipuli una sorta di accordo con i militari che li manterrebbe al potere.

La prospettiva rimane del tutto incerta e la popolazione si sta preparando per ulteriori spargimenti di sangue. Molti attivisti sono orgogliosi delle origini nonviolente del movimento, ma riconoscono di essere in una condizione di debolezza di fronte al Tatmadaw. Il Movimento per la Disobbedienza Civile dura da mesi, ma c’è preoccupazione riguardo a quanto tempo le persone possono continuare a resistere, in particolare i dipendenti pubblici e altri lavoratori che non hanno soldi risparmiati. Per questo una parte degli attivisti stanno spingendo per trasformare la rivolta in qualcos’altro, in una resistenza armata e in una ribellione armata di massa.

La costante minaccia di incursioni militari, arresti, torture e uccisioni ha spinto le comunità locali a imbracciare le armi anche nei territori Bamar. Sono state formate tante piccole unità di difesa popolare (almeno 58) in tutto il Paese, nelle città, quartieri, comunità locali e villaggi. Sono ormai quotidiane le notizie di azioni di sabatoggaio, bombe casalinghe e guerriglia urbana che testimoniano un salto di qualità nella resistenza al golpe. La giunta ha reagito intensificando la repressione e imponendo il coprifuoco dalle 20 alle 4 del mattino in 30 città, mentre a Yangon e Mandalay, epicentri della ribellione, il coprifuoco inizia due ore prima.

Molti degli attivisti di etnia Bamar che erano fuggiti nelle enclaves territoriali periferiche controllate dalle milizie etniche sono stati addestrati alle tecniche della guerriglia e stanno facendo ritorno nei centri urbani. Ci sono stati attentati e una serie di piccole esplosioni nelle ultime settimane, alcune in uffici governativi, strutture militari e imprese collegate all’esercito, mentre diversi amministratori nominati dalla giunta sono stati accoltellati mortalmente e persone ritenute essere degli informatori sono state vittime di attentati. Un gruppo che si autodefinisce Forza di Difesa Popolare a Tamu, nella regione centrale di Sagaing, ha dichiarato di aver ucciso 15 membri del personale di sicurezza in scontri separati ai primi di maggio. Nel Myanmar occidentale, una nuova forza di difesa Chin ha dichiarato di aver conquistato un campo militare, uccidendo 30 soldati. C’è stata anche un’imboscata che ha ucciso tre soldati, rivendicata da un’altra milizia a Sagaing, pochi giorni dopo che il NUG ha annunciato la formazione di una Forza di Difesa Popolare per combattere i militari.

La giunta militare, che aveva precedentemente accusato i suoi oppositori di tradimento, ha immediatamente bollato il NUG come gruppo terroristico e lo ha accusato di attentati, incendi dolosi e uccisioni come parte di una campagna di propaganda nei media controllati dallo Stato. La legge antiterrorismo vieta non solo l’appartenenza ai gruppi, ma anche qualsiasi contatto con essi. A sua volta, il NUG ha definito l’esercito una forza terroristica.

È la solidarietà interetnica che può offrire le basi per una pace e una riconciliazione durature. Questa rimane la sfida decisiva per il Paese. La comunità internazionale dovrebbe cogliere questo momento di opportunità compiendo sforzi extra per far cedere i militari e creare spazio per un dialogo interetnico più solido sul futuro del Paese.

Questione nazionale, gruppi etnici minoritari e Tatmadaw

La grande questione aperta del Myanmar è quella nazionale che investe direttamente il ruolo delle 135 minoranze etniche e religiose riconosciute da una legge nazionale sulla cittadinanza del 1982. Si tratta della conseguenza più controversa e sanguinosa del passato coloniale e di decenni di dittatura militare.

Sotto l’amministrazione britannica, la gerarchia sociale vedeva gli europei in cima, indiani, cinesi e minoranze cristianizzate al centro e buddisti birmani in fondo.

Con l’indipendenza del 1948, come ha sostenuto il giornalista Carlos Sardiña Galache nel libro The Burmese Labyrinth: A History of the Rohingya Tragedy (Verso, London, 2020), in Myanmar l’ideologia egemonica è stata costruita sul concetto di “razze nazionali” (taingyintha) e il suo corollario, che sostiene che solo i membri di quei gruppi appartengono al Paese.

Questo insieme di credenze si fonda su una comprensione della razza che divide le comunità etniche in gruppi separati – con al vertice il maggiore gruppo etnico dei Bamar o birmani che rappresentano il 68% della popolazione -, connessi ad un particolare territorio e dotati di tratti culturali e spesso psicologici considerati più o meno inalterabili.

La stessa struttura istituzionale e amministrativa dello Stato riflette il rapporto di forze tra i gruppi etnici. Il Myanmar, infatti, è diviso in sette Stati e sette regioni. Le regioni sono prevalentemente Bamar, mentre gli Stati, in sostanza, sono regioni che ospitano particolari minoranze etniche (Kachin, Kayan, Kayin, Chin, Mon, Rakhine, Shan).

In base alla costituzione del 2008, il governo centrale possiede tutta la terra e le risorse naturali in Myanmar e ha l’autorità di approvare leggi che ne regolano l’uso e lo sfruttamento minerario. Le questioni fondiarie sono importanti in un Paese che rimane ancora fondamentalmente agricolo e povero. Il presidente nomina i ministri principali di tutti e sette gli Stati etnici, escludendo le minoranze dalle decisioni politiche che interessano i loro Stati e rendendole vulnerabili all’accaparramento di terre e risorse.

Le minoranze etniche si sono battute dal 1947 per un vero federalismo che ponesse rimedio alle iniquità di trattamento rispetto alla maggioranza Bamar, mettendo il potere nelle mani dei residenti locali. Undici mesi prima che il Myanmar guadagnasse l’indipendenza dal Regno Unito, il generale Aung San, il padre di Aung San SuuKyi, convinse i leader etnici ad aderire all’Unione della Birmania con la promessa di un percorso di autonomia federale. Aung San fu assassinato nel luglio 1947 e tale promessa non fu mai realizzata. Invece, le organizzazioni armate etniche hanno iniziato a lottare per i diritti federali subito dopo l’indipendenza e non si sono fermate. I conflitti hanno provocato lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone mentre l’esercito ha commesso violazioni dei diritti umani contro le popolazioni civili.

La legge del 1982 ha creato tre categorie di cittadinanza: cittadinanza piena, cittadinanza associata e cittadinanza naturalizzata. La cittadinanza piena è data a coloro che appartengono a una delle “razze nazionali” come Bamar, Kachin, Kayan (Karenni), Karen, Chin, Mon, Rakhine, Shan, Kaman o Zerbadee. La cittadinanza associata viene concessa a coloro che non possono provare che i loro antenati si siano stabiliti in Myanmar prima del 1823 (ossia antecedentemente alla Guerra Anglo-Birmana del 1824-1826, la prima di tre guerre combattute tra l’impero britannico e quello birmano nel XIX secolo), ma possono dimostrare di avere un nonno, o antenato nato prima del 1823, che era cittadino di un altro Paese, nonché le persone che hanno richiesto la cittadinanza nel 1948 (al momento dell’indipendenza del Paese). La cittadinanza naturalizzata viene concessa solo a coloro che hanno almeno un genitore con uno di questi due tipi di cittadinanza o possono fornire “prove conclusive” che i loro genitori sono entrati e risiedevano in Birmania prima del 1948.

Sin dall’indipendenza dagli inglesi nel 1948, il Tatmadaw (composto da volontari reclutati per lo più tra la maggioranza buddista Bamar) è stato investito della missione storica di preservare l’unità nazionale, “difendere lo Stato”, in un Paese assediato da conflitti etnici armati (guerriglie degli Shan, Karen, Kachin, Mon, Lahu, Rakhine, etc.). Le forze armate si sono assunte il compito della difesa “delle politiche nazionali, della sasana [la dottrina buddista], delle tradizioni, dei costumi e della cultura”, ha affermato il generale Min Aung Hlaing.

Il buddismo è una sorta di religione di Stato. Lo Stato provvede alla salute e al benessere della comunità monastica, fornisce risorse economiche, aiuta a sorvegliare i conflitti all’interno del sangha (comunità di monaci) e, in cambio, il sangha fornisce forme di legittimità morale, potere spirituale e legittimità religiosa allo Stato. Nell’ottobre 2017, il monaco buddista anziano Sitagu Sayadaw ha predicato un sermone davanti a un pubblico di ufficiali militari in cui ha affermato che la violenza era consentita contro la minoranza Rohingya perché, in quanto musulmani, non sono completamente umani.

Il rapporto tra nazionalisti buddisti e Tatmadaw è quindi simbiotico: i militari promuovono gli obiettivi dei nazionalisti buddisti, proteggendo il buddismo dalla minaccia musulmana, e i nazionalisti buddisti forniscono al Tatmadaw la benedizione religiosa e culturale per le sue atrocità.

Anche dopo il colpo di Stato alcuni monaci, soprattutto di vecchia generazione, si sono schierati con i militari, credendo davvero che questi siano i protettori del Paese. Ma, a metà marzo 2021 l’influente associazione di monaci buddisti nominata dallo Stato, il Comitato di Stato Sangha Maha Nayaka ha invitato i militari a porre fine alle violenze contro i manifestanti, prefigurando una possibile rottura con il regime.

Il colpo di Stato del Tatmadaw nel 1962 (allora con un orientamento ideologico filo-sovietico) fu in larga parte frutto della reazione dei militari alla spinta dei gruppi etnici non Bamar per l’autonomia o il federalismo a scapito di un governo centrale civile considerato debole. Sebbene la Costituzione del 1947 prevedesse autonomia e federalismo, i militari interpretavano l’uso del termine “federalismo” come antinazionale, anti-unità e pro-disintegrazione dello Stato.

Di recente, a fare le spese in modo drammatico e disastroso di questa ideologia e missione storica che il Tatmadaw si è autoassegnato, sono stati i 2-3 milioni di persone di etnia Rohingya, non inclusa tra le 135 etnie riconosciute dalla legge del 1982, popolazione musulmana al tempo stesso arakanese e bengali per cultura e lingua del nord dell’Arakan/Rakhine, Stato al confine tra Myanmar (Paese a maggioranza buddista) e Bangladesh (Paese musulmano). Governo e Tatmadaw hanno cercato di espellere con la forza i Rohingya e di sostituirli, portando nell’Arakan/Rakhine popolazioni non Rohingya. Questa politica di “pulizia etnica” ha portato all’espulsione e alla fuga a piedi o via mare di circa 800 mila Rohingya, scappati per sfuggire alle violenze del Tatmadaw nel 2016-17.

L’Arakan è un territorio povero caratterizzato da divisioni etniche e religiose dove le forze dell’esercito nazionale si sono scontrati e si scontrano sia con i ribelli Rohingya dell’Arakan Rohingya Salvation Army sia con i combattenti buddisti Rakhine dell’Arakan Army che rivendicano una maggiore autonomia (rivendicata sul piano politico dall’Arakan National Party), provocando ondate di esuli Rohingiya, ma anche di appartenenti alle antiche tribù Rakhine che considerano i Bamar e il governo centrale che questo gruppo etnico di maggioranza domina come degli invasori. Il governo di Aung San Suu Kyi ha deciso di non far svolgere le elezioni dell’8 novembre 2020 in questo Stato, motivando questa decisione con le tensioni esistenti, nonostante l’Arakan Army avesse concordato – anche con la mediazione di un inviato speciale giapponese – un cessate il fuoco con il Tatmadaw. Il governo sapeva che la LND sarebbe stata battuta dall’Arakan National Party.

I Rohingya, che un movimento ultranazionalista guidato da monaci buddisti ha ritratto come l’avanguardia di una jihad internazionale per islamizzare il Paese, sono stati considerati immigrati bangladesi illegali dal governo. A loro viene negata sia la cittadinanza (dopo avergliela tolta con la legge del 1982) sia il diritto alla proprietà privata. Sono diventati apolidi e in molti casi sono totalmente privi di documenti. Sono fuggiti in massa – in quasi 1 milione di persone – nel vicino Bangladesh dopo che quasi 300 villaggi sono stati distrutti dai militari e dagli estremisti buddisti tra l’ottobre 2016 e l’agosto 2017 (con almeno 7 mila persone uccise e migliaia di donne e bambini stuprati). Sono alloggiati in condizioni anguste e squallide in 34 campi nel distretto di Cox’s Bazar, vicino al confine con il Myanmar, ma il Bangladesh ha iniziato a trasferire diverse migliaia di famiglie Rohingya (oltre 13 mila persone) sono stati trasferiti in un insediamento su un’isola remota soggetta a inondazioni e che si trova sul percorso dei cicloni mortali, nonostante le preoccupazioni per la sicurezza e il mancato consenso dei rifugiati. Nel marzo 2021, un enorme incendio ha devastato un grande campo profughi Rohingya in Bangladesh e ha costretto almeno 50 mila persone a fuggire (7 i morti).

Dei 2-3 milioni di Rohingya che vivevano nel Myanmar nel 2012 ne sono rimasti ormai solo 500-600 mila. I villaggi Rohingya sono stati isolati, i movimenti delle persone limitati, non possono essere proprietari di terra, le famiglie non possono avere più di due figli, i bambini non possono frequentare le scuole, mentre circa 150 mila Rohingya sono rimasti nella periferia di Sittwe, la capitale del Rakhine, confinati e segregati in piccoli insediamenti controllati dalla polizia che l’ONU ha definito dei “campi di concentramento e dei ghetti urbani simili a quelli in cui vivevano gli ebrei sotto l’occupazione nazista dell’Europa”.

Decine di migliaia di Rohingya hanno cercato rifugio in Malaysia (Paese musulmano) e circa 40 mila vivono in India in campi profughi distribuiti in tutto il Paese, compresa Nuova Delhi, ma il governo del nazionalista indù Narendra Modi li sta rimpatriando in Myanmar. Una parte della comunità Rohingya ha le proprie origini nella manodopera agricola, forzata o indotta, a seconda dei casi, a stabilirsi nell’Arakan prima dagli stessi sovrani locali (dal XV secolo alla fine del XVII), poi dagli inglesi, quando l’ex regno fu unito amministrativamente all’India sotto il dominio britannico (1824-1937). Durante il periodo dell’occupazione giapponese dell’allora Birmania nella Seconda Guerra Mondiale, gli inglesi si allearono con i Rohingya nella guerra contro il governo fantoccio, composto principalmente da Bamar filo-giapponesi (come l’eroe nazionale Aung San, padre di Aung San Suu Kyi) che poi contribuirono fondare l’organizzazione militare Tatmadaw.

Oggi, l’Arakan è di fatto divenuto anche un’enclave cinese in territorio birmano in quanto terminale sia dell’oleodotto e gasdotto della China National Petroleum Corporation (CNPC) sia del Corridoio Economico Cina-Myanmar (dotato di un collegamento stradale e ferroviario in fase di completamento) ai porti con acque profonde di Sittwe e Kyaukpyu sul Golfo del Bengala, con annessa una “Zona economica speciale“. Un’operazione strategica per la Cina, perché ha l’obiettivo di consentire al commercio cinese di accedere direttamente all’Oceano Indiano, aggirando lo Stretto di Malacca, controllato dalla marina militare statunitense, attorno alla Malesia, indebolendo significativamente l’influenza USA nella regione.

L’esercito nazionale non ha combattuto e combatte solo contro Rohingya e Rakhine, ma anche contro una quindicina di altri gruppi etnici che si oppongono ad una “bamarizzazione” e da decenni sono attivi con guerriglie autonomiste sempre sull’orlo – oltreché di un conflitto armato (si calcola che dal 2011 almeno 3 mila soldati siano morti sul campo) – di spinte centrifughe secessioniste. Tra questi ci sono: l’Esercito Nazionale di Liberazione Karen (KNLA), il più antico gruppo armato etnico del Myanmar; la Kachin Independence Army (KIA) nelle aspre montagne dello Stato di Kachin nel nord del Paese (a prevalenza religiosa cristiana); il Consiglio per la Restaurazione dello Stato Shan (RCSS), anch’esso dotato di un esercito “ribelle”; il Karenni National Progressive Party (KNPP) che ha passato anni a combattere militari e governo centrale nelle giungle orientali. Nel 2018, il Tatmadaw ha lanciato attacchi aerei nello Stato di Kachin e il governo ha bloccato gli sfollati dal passaggio sicuro o dall’accesso all’assistenza umanitaria, nel tentativo di combattere la KIA.

Ai responsabili delle diverse entità etniche del Paese organizzate anche in forma militare, il colpo di Stato dei militari non è piaciuto perché interrompe il tentativo di Aung San Suu Kyi di avviare un processo di pace che avrebbe dovuto condurre alla costituzione di una federazione birmana (che però avrebbe richiesto l’emendamento della costituzione del 2008) e che già aveva ottenuto, non solo l’adesione di quasi tutte le parti in conflitto (non l’Arakan Army che il governo ha designato come un’organizzazione terroristica nel marzo 2020) ad un Accordo Nazionale per il Cessate il Fuoco che ha fatto tacere le armi in gran parte del Paese.

Il colpo di Stato militare ha fatto riavviare una nuova ondata di scontri tra i gruppi etnici guerriglieri e il Tatmadaw. Ha fatto ripartire le azioni militari per un’autonomia federalista o secessionista, innescando conflitti militari interni che potrebbero avere rilevanti ripercussioni sulla stabilità regionale del Sud-Est Asiatico sotto il confine meridionale cinese.

I rappresentanti di due delle più grandi organizzazioni etniche del Paese, l’Organizzazione per l’Indipendenza Kachin (KIO) e l’Unione Nazionale Karen (KNU), che hanno entrambe delle organizzazioni militari per la guerriglia, si sono dichiarati favorevoli alla proposta del NGU di un esercito federale. Durante le manifestazioni, attivisti di etnia Bamar hanno manifestato insieme ad attivisti di etnia Kachin con cartelli con la scritta “Supportiamo KIO/KIA“. Il 29 marzo, due giorni dopo che il Tatmadaw ha lanciato attacchi aerei nello Stato di Karen, il GSCN ha invitato le organizzazioni armate etniche a proteggere collettivamente i civili disarmati.

Nello stato sud-orientale di Karen, uno dei gruppi più forti – il KNLA – ha iniziato a rispondere agli appelli di aiuto degli oppositori del golpe, inviando combattenti per proteggere i manifestanti. Le sue truppe hanno attaccato le posizioni del Tatmadaw, interrompendo le vie di rifornimento, in quella che il gruppo ha affermato essere una risposta all’invasione del suo territorio. Aerei da combattimento militari hanno sganciato bombe il 27 marzo sul territorio montuoso controllato dal KNLA nella regione etnica Karen, per la prima volta in più di 20 anni, uccidendo più di una dozzina di civili, facendo scappare nella giungla e nelle caverne sulle montagne 20 mila persone e spingendone almeno 3 mila verso la Thailandia (ma almeno 2 mila sono stati respinti). Gli attacchi aerei sono iniziati diverse ore dopo che una brigata KNLA ha attaccato una base militare, uccidendo 10 soldati e prendendo almeno otto prigionieri, con anche un guerrigliero Karen che è morto. Altri scontri si sono verificati nel mese di aprile e migliaia di civili sono scappati nella foresta verso la Thailandia.

Nel nord, il Kachin Independence Army (KIA) ha organizzato attacchi simili a quelli del KNLA. A fine marzo, altre tre forze etniche impegnate nella guerriglia, incluso il potente Esercito dell’Arakan nello Stato del Rakhine occidentale, hanno promesso di unirsi a quella che hanno chiamato la “rivoluzione della primavera” se le uccisioni dei manifestanti da parte dei militari non sarebbero cessate. L’Esercito dell’Arakan, il KIA, l’Esercito Nazionale dell’Alleanza Democratica del Myanmar (MNDAA) e l’Esercito di Liberazione Nazionale del Taang (TNLA) formano l’Alleanza del Nord e fanno anche uso di armi cinesi e mantengono legami relativamente stretti con la Cina. Se tutte le forze militari etniche – forti di 75-100 mila uomini – decidessero di combattere insieme, potrebbero seriamente mettere in difficoltà il Tatmadaw che ha circa 400 mila uomini. Se i ribelli Kachin, Karen, Shan e anche Rakhine dovessero impegnarsi in operazioni militari diffuse, ma in qualche modo coordinate, e allo stesso tempo c’è un aumento della violenza nei territori centrali dove vive la maggioranza Bamar, il Tatmadaw dovrebbe affrontare un problema enorme.

Intanto, mentre la violenta e sanguinosa repressione del movimento di protesta da parte dei militari è proseguita senza sosta, la crisi politica del Myanmar si è diffusa attraverso i suoi confini. Migliaia di persone hanno cercato un rifugio sicuro in India e Thailandia, come era avvenuto dal 2017 con centinaia di migliaia di persone di etnia Rohingya. Le autorità di entrambi i Paesi hanno cercato di bloccare i nuovi arrivi, temendo che un flusso costante potesse diventare un’alluvione, se i disordini fossero peggiorati in Myanmar, trasformandosi in una guerra civile.

Lavoratori, sindacati e movimento di opposizione alla giunta militare

Lavoratori e sindacati hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione di un movimento di massa di opposizione alla giunta militare. Medici, insegnati, dipendenti della pubblica amministrazione, operatori del trasporto ferroviario, operai tessili, bancari sono state tra le prime categorie di lavoratori che sono entrate in sciopero nelle prime settimane dopo il colpo di Stato militare. La generazione di attivisti formatasi durante le proteste represse nel sangue nel 1988 (con migliaia di morti) ha chiesto la continuazione dello sciopero da parte dei lavoratori del settore pubblico per tre settimane.

Nelle settimane successive si è creato un Movimento di Disobbedienza Civile con una mobilitazione di massa contro il regime militare che ha messo insieme lavoratori dei settori industriale, edile, agricolo, energetico e logistico, ferrovieri, dipendenti pubblici, medici, insegnanti, studenti, monaci buddisti e altre componenti della società civile. Un fronte ampio di protesta e disobbedienza civile che è stato in grado di fronteggiare la repressione violenta che la giunta militare ha attivato. I leader sindacali hanno avuto un ruolo chiave nella nascita ed organizzazione di questo movimento di massa. Daw Myo Aye, direttore del Solidarity Trade Union of Myanmar (STUM), uno dei più grandi sindacati indipendenti, una figura centrale nel movimento per i diritti dei lavoratori, è stata arrestata il 15 aprile. Myo Aye è stata una delle più importanti leader sindacali nel Movimento di Disobbedienza Civile che ha organizzato scioperi e proteste nazionali da febbraio. È stata trascinata fuori dal suo ufficio dall’esercito e portata in una stazione di polizia dove è stata accusata e poi trasferita in una prigione a Yangon. Con molti leader sindacali già in clandestinità o in esilio, l’arresto di Myo Aye da parte dell’esercito è stato un duro colpo al ruolo vitale del movimento sindacale nella lotta per ripristinare la democrazia.

Da oltre quattro mesi decine di migliaia di lavoratori – impiegati pubblici, medici del sistema sanitario pubblico, bancari, insegnanti, ferrovieri e autisti del sistema di trasporto pubblico e lavoratrici del settore abbigliamento – sono in sciopero nella speranza che la paralisi economica costringa i militari a fare marcia indietro. Il blocco del sistema bancario ha lasciato i cittadini senza stipendio e con i bancomat vuoti, mentre le piccole imprese cercano di navigare in un’economia che si sta rapidamente sgretolando (importatori di merci, grossisti e negozi vogliono essere pagati in contanti), con un contrazione del PIL prevista del 20% per il 2021, anche a seguito del crollo del turismo, uno dei settori che era in più rapida crescita, e del collasso del settore tessile/abbigliamento.

La produzione di abbigliamento rappresenta il principale export del Myanmar, insieme con le materie prime minerali (giada12, ambra, rubini, zaffiri, nikel, rame, etc.) e la forza lavoro13. Ha subito gli effetti della pandemia CoVid-19, delle conseguenti restrizioni agli assembramenti sociali. Nel 2020, la pandemia ha fatto contrarre gli ordini alle fabbriche e ha causato licenziamenti. Diversi sindacati hanno affermato che le imprese hanno utilizzato il Covid-19 come pretesto per tagliare i salari, colpire i sindacati e minacciare leader locali. Il settore dell’abbigliamento è cresciuto a seguito di un decennio di investimenti cinesi e ad inizio 2020 impiegava circa 700 mila lavoratori, per il 90% donne per la maggior parte provenienti da piccole città e villaggi rurali che si trasferivano a Yangon per avere un’opportunità di lavoro14. Lavoravano fino a 11 ore al giorno, sei giorni alla settimana, e la maggior parte viveva in dormitori con altre lavoratrici e inviava parte del proprio stipendio a casa alle proprie famiglie. Le lavoratrici del settore abbigliamento sono state al centro dello sciopero generale nazionale del 22 febbraio e poi sono rimaste una delle componenti più attive della mobilitazione contro la giunta militare. Hanno messo a frutto l’esperienza di mobilitazione acquisita negli ultimi anni attraverso gli scioperi e la creazione di organizzazioni sindacali militanti.

Tutto questo mentre i prezzi dei prodotti alimentari, dal riso all’olio di palma, ma anche quelli dei carburanti, sono aumentati vertiginosamente dopo il colpo di Stato. Prima della pandemia, 6 famiglie su 10 non potevano permettersi una dieta nutriente. La povertà è aumentata ulteriormente a causa del Covid-19 e nella seconda metà del 2020 quattro famiglie su cinque in tutto il Myanmar hanno riferito di aver perso quasi il 50% del proprio reddito. Mentre i generi alimentari sono disponibili nei mercati e nei negozi, c’è il timore che gli agricoltori non avranno accesso ai semi o al credito per acquistarli prima della stagione della semina dei monsoni. In un’analisi pubblicata ad aprile, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite prevede che milioni di persone soffriranno la fame nei prossimi mesi.

Molti lavoratori in sciopero sono stati arrestati e/o hanno subito delle punizioni dal regime: migliaia delle famiglie dei 20 mila ferrovieri che operano gli 8 mila km della rete ferroviaria sono state sfrattate dagli alloggi di proprietà pubblica. Anche altre decine di migliaia di lavoratori dei settori controllati dallo Stato sono stati sfrattati dai loro alloggi e hanno perso il lavoro. Quasi 126 mila insegnanti delle scuola pubbliche, su un totale di 430 mila, sono stati sospesi dal lavoro per essersi uniti al movimento di disobbedienza civile per opporsi al colpo di stato militare, secondo la Federazione degli insegnanti del Myanmar. Le sospensioni sono arrivate a fine maggio, a pochi giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico, che alcuni insegnanti e genitori stanno boicottando nell’ambito di una campagna che ha paralizzato il Paese da quando i militari hanno preso il potere. Più della metà degli insegnanti delle scuole statali è attualmente in sciopero. Secondo la Federazione, anche 19.500 dipendenti del sistema universitario sono stati sospesi dal lavoro. Gli studenti sono stati in prima linea nelle proteste quotidiane in cui centinaia di persone sono state uccise dalle forze di sicurezza e in molti hanno deciso di boicottare le lezioni. Anche sotto il governo di Aung San Suu Kyi il sistema di istruzione disponeva di scarse risorse e la spesa era inferiore al 2% del PIL, uno dei tassi più bassi al mondo, secondo i dati della Banca Mondiale.

La situazione nel sistema dell’istruzione fa eco al fatto che nel settore sanitario, nella pubblica amministrazione e nelle imprese private il Paese è precipitato nel caos. Tredici medici sono stati uccisi, secondo i dati dell’OMS che mostrano 179 attacchi a operatori sanitari, strutture e trasporti – quasi la metà di tutti gli attacchi registrati in tutto il mondo quest’anno, ha affermato il rappresentante dell’OMS per il Myanmar Stephan Paul Jost. Circa 150 operatori sanitari sono stati arrestati. Altre centinaia di medici e infermieri sono ricercati con l’accusa di istigazione alla disobbedienza e all’ammutinamento nelle forze armate.

I medici hanno avvertito che il Paese non sarebbe in grado di far fronte a un grave focolaio di CoVid-19 (nel 2020 sono morte oltre 3 mila persone per la pandemia), poiché gli ospedali e le strutture mediche faticano a funzionare dal colpo di stato militare per gli scioperi dei medici e del restante personale sanitario (in molti sono stati anche arrestati). In mancanza di una vera campagna di test e vaccinazioni15, crescono i timori per il potenziale impatto di una seconda ondata di contagi con una possibile variante altamente trasmissibile come quelle dei Paesi vicini, principalmente India, ma anche Thailandia e Laos.

  1. Il generale Min Aung Hlaing, comandante delle forze armate dal 2011 e ora leader di fatto del Paese, avrebbe dovuto ritirarsi a luglio, al raggiungimento dell’età di pensionamento obbligatorio. Ma, il generale che ha supervisionato la pulizia etnica dei Rohingya (e per questo è sotto sanzioni da parte sia degli Stati Uniti sia del Regno Unito) non aveva mostrato alcun desiderio di abbandonare un potere che ha anche permesso a lui e alla sua famiglia di accumulare notevoli ricchezze. L’eventuale autorizzazione ad estendere il suo mandato avrebbe dovuto essere concessa da Aung San Suu Kyi. Pertanto, alcuni osservatori hanno ipotizzato che il colpo di Stato sia stato avviato dal generale Min Aung Hlaing più come mezzo per proteggere il proprio potere personale e la propria posizione, piuttosto che perché i militari avessero perso la pazienza di non essere da soli al comando o a causa di reali presunte “preoccupazioni” riguardo a brogli alle elezioni di novembre.[]
  2. Il rapporto tra i militari e Aung San Suu Kyi non è stato mai facile e lineare. Figlia di Aung San – eroe nazionale che più di tutti si oppose all’occupazione britannica tra il 1938 e il 1943 e padre della nazione (fu lui, in quanto leader dell’etnia Bamar, a negoziare l’accordo di Panglong nel 1947 con i leader degli altri gruppi etnici che ha garantito l’indipendenza del Myanmar come Stato unificato), generale, fondatore del Tatmadaw (ma anche dei partiti comunista e socialista birmani) e primo ministro della Colonia Reale della Birmania (assassinato sei mesi prima dell’indipendenza del 1948) -, per Aung San Suu Kyi (nata nel 1945, con studi ad Oxford) il rapporto con i militari è stato un matrimonio di necessità e una sorta di “patto faustiano”. Collaborando con i militari e chiudendo più di un occhio sulle loro atrocità in materia di diritti umani, Aung San Suu Kyi ha potuto mantenere l’incarico che aveva aspettato di ricoprire per decenni, con 15 anni (tra il 1989 e il 2010) passati agli arresti domiciliari, e rimanere la maggiore speranza di transizione democratica per il Myanmar, per quanto fosse fragile e poco entusiasmante. Per i militari, i cui membri erano consapevoli che non avrebbero mai vinto delle elezioni democratiche a causa della loro impopolarità, Aung San Suu Kyi al potere ha significato la possibilità di presentare una figura presentabile davanti alla comunità internazionale per ottenere la revoca delle sanzioni e far arrivare un flusso di aiuti e investimenti in Myanmar. Il tutto mentre il loro potere de facto è rimasto intatto. In sostanza, i militari hanno avallato l’apparente transizione democratica per rafforzare il loro potere. Il loro budget è aumentato fino a 100 milioni di dollari all’anno e sono aumentati i loro interessi commerciali in hotel, bevande, reti di telefonia mobile, progetti minerari e infrastrutturali, oltre al tradizionale business legato alla produzione e al traffico di oppio (va ricordato che il Myanmar, con Laos e Thailandia, fa parte del cosiddetto “Triangolo d’oro”, la seconda regione asiatica nella produzione mondiale di oppio dopo Afghanistan, Pakistan e, in parte Nepal e India, che costituiscono la cosiddetta “Mezzaluna d’oro”). Hanno continuato le loro operazioni militari senza freni contro le minoranze etniche in tutto il Paese, mentre l’impegno di Aung San Suu Kyi di supervisionare un processo di pace per porre fine a questi brutali conflitti di lunga durata non ha portato ad alcun risultato significativo. Una settimana prima del colpo di stato il Fondo Monetario Internazionale ha inviato 350 milioni di dollari al governo del Myanmar, parte di un pacchetto di aiuti di emergenza senza vincoli per aiutare il Paese a combattere la pandemia da coronavirus. In effetti, Aung San Suu Kyi, sebbene sia ancora ampiamente venerata e amata in Myanmar, ha largamente compromesso la sua reputazione internazionale come autorità morale e icona di pace. Nella comunità internazionale ormai viene vista come un premio Nobel per la Pace (1991) che ha professato di avere come riferimenti culturali Martin Luther King e Mahatma Gandhi, ma che davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha personalmente difeso la campagna genocida contro la minoranza musulmana Rohingya nel dicembre 2019, sostenendo che le operazioni militari erano una risposta legittima contro il terrorismo e difendendo la totale impunità concessa ai militari per ogni possibile eccesso commesso nel corso di una campagna che non è stata eseguita in base ai suoi ordini, ma è pur sempre avvenuta sotto i suoi occhi. La sua testimonianza davanti alla Corte ha segnato il punto in cui è passata definitivamente da icona dei diritti umani a complice disprezzata di un genocidio agli occhi di molti nel mondo, ma ha aumentato la sua popolarità in patria, dove i Rohingya hanno pochi amici, e il suo intervento è stato falsamente presentato dalla propaganda ufficiale come una eroica difesa della nazione nel suo insieme, piuttosto che dello Stato. Inoltre, lo stile di governo di Aung San Suu Kyi non si è sempre dimostrato molto diverso da quello dei militari. Durante il suo governo c’è stata una repressione autoritaria della libertà di parola e del dissenso simile agli anni sotto il governo militare. I diritti umani si sono deteriorati e il numero dei prigionieri politici è aumentato vertiginosamente negli ultimi due anni. Non ha permesso a una nuova generazione di leader politici di emergere e crescere. La vita dei poveri (almeno il 30% della popolazione) ha visto pochi miglioramenti. Il violento conflitto etnico si è intensificato e 1,5 milioni di cittadini delle minoranze etniche (oltre ai Rohingya che sono senza diritto di voto e apolidi) sono stati esclusi dalle elezioni di novembre, apparentemente a causa di problemi di sicurezza.[]
  3. Il nuovo organo elettorale nominato dal Tatmadaw ha dichiarato a metà maggio che scioglierà la Lega Nazionale per la Democrazia per frode elettorale e agirà contro i traditori che hanno truccato il voto di novembre, da cui la LND è uscita vincitrice come mai prima.[]
  4. Dalla sua elezione a leader de facto del Myanmar nel 2015 (dopo una massiccia vittoria del LND alle elezioni: 255 seggi su 285 disponibili), la posizione di Aung San Suu Kyi è sempre stata precaria. Nonostante la celebrazione internazionale della transizione del Myanmar alla democrazia dopo mezzo secolo di governo militare (dal 1962), in realtà il potere dei militari era solo apparentemente diminuito. Il Paese ha vissuto sotto la costante minaccia di un colpo di stato. Negli ultimi cinque anni, Aung San Suu Kyi ha governato il Myanmar sulla base di una costituzione antidemocratica (come suggerisce l’uso dell’etichetta “democrazia disciplinata“), redatta dagli stessi militari e fatta approvare con un referendum fittizio nel 2008. Una costituzione che ha garantito il potere ai militari in perpetuo perché consente loro di avere il pieno controllo su tre ministeri chiave – quelli della Difesa, degli Affari Interni e del Controllo delle Frontiere; di nominare il 25% dei parlamentari statali e nazionali; di dichiarare lo stato di emergenza quando essi decidono che vi sia il pericolo che si possa “disintegrare l’Unione o disintegrare la solidarietà nazionale“; di preservare i loro interessi dal momento che tutti gli emendamenti costituzionali devono raccogliere il sostegno di almeno il 75% dei deputati (praticamente impossibile, dato il 25% di seggi assegnati all’esercito) e poi essere approvati da più della metà degli aventi diritto al voto in un referendum. Inoltre, la costituzione assegna al Tatmadaw il potere totale sui propri affari (compresa la gestione di conglomerati economici), così come l’immunità totale contro qualsiasi procedimento giudiziario per i crimini regolarmente commessi nelle diverse guerre contro gruppi armati etnici nella periferia del Paese. Stabilisce anche che i poteri di governo della leader democratica eletta sono limitati. Infatti, è anche una costituzione che ha impedito ad Aung San Suu Kyi di governare come presidente, a causa di una clausola – rivolta specificamente a lei – che non permette a nessuno con parenti stranieri di ricoprire cariche presidenziali (i suoi figli hanno cittadinanza britannica e il suo defunto marito, Micheal Aris, era inglese). Nel 2016, le era stato dato il titolo di “consigliere di Stato” (e aveva tenuto per sé il ministero degli Esteri), uno status istituzionale debole che aveva lo scopo di ricordarle costantemente che non era lei ad esercitare l’effettivo potere nel Paese. Al tempo stesso, Aung San Suu Kyi e il suo partito hanno fatto poco o nulla per mettere in discussione non solo il potere dei militari, ma anche per innescare un reale cambiamento del Paese sul piano sociale, giuridico e politico. In Parlamento, il LND ha lasciato intatte le leggi più oppressive approvate durante la dittatura militare, nonostante avesse la maggioranza, e il governo le ha usate a profusione per incarcerare giornalisti e attivisti critici sia del governo sia dei militari.[]
  5. In effetti, pochi giorni dopo il colpo di Stato il gigante giapponese delle bevande Kirin Holdings ha deciso di abbandonare la sua partnership stabilita nel 2015 con due birrifici del Myanmar in parte di proprietà di Myanmar Economic Holdings (MEHL), società controllata dal Tatmadaw (secondo un’indagine dell’ONU del 2019) che, insieme ad un altro conglomerato (Myanmar Economic Corporation) sempre controllato dai generali, ha esteso la sua influenza a quasi tutti i settori economici del Paese (dalla birra al tabacco, dallo sfruttamento minerario alla manifattura tessile, dal settore bancario al turismo). Per anni Kirin è stato sollecitato a tagliare i legami con le sue operazioni commerciali in Myanmar. Le organizzazioni per i diritti umani hanno sostenuto che la sua proprietà parziale dei due birrifici ha di fatto reso Kirin complice dei crimini di guerra commessi dai militari. Anche l’importante uomo d’affari di Singapore Lim Kaling ha manifestato l’intenzione di uscire dal suo investimento in una società di tabacco (Virginia Tobacco Company) controllata dal MEHL. Le partnership commerciali con multinazionali euro-nippo-sino-americane (come i giganti petroliferi Chevron e Total, Unilever, Prudential, Access Asia Mining) e uomini di affari di Singapore, Hong Kong, Cina continentale, India, Thailandia e Corea del Sud non hanno fornito solo valuta estera tanto necessaria per un esercito e un Paese isolato – soggetto a embarghi globali sulle armi -, ma anche una cruciale fonte di legittimità internazionale. Un rapporto di una missione conoscitiva dell’ONU nel 2018 ha affermato che “qualsiasi impegno in qualsiasi forma” con l’esercito del Myanmar era “indifendibile“. La australiana Woodside Petroleum (alla ricerca di gas) ha deciso di abbandonare/bloccare i suoi progetti nel Myanmar. La compagnia petrolifera e di gas statale della Malesia, Petronas, ha interrotto la produzione dal suo giacimento Yetagun il 2 aprile “a seguito di problematiche nella consegnabilità dei pozzi che hanno portato il tasso di produzione a scendere al di sotto della soglia tecnica dell’impianto di trattamento del gas offshore“.[]
  6. I grandi progetti cinesi riguardano il corridoio economico Cina-Myanmar da 2.800 km per il gas e il petrolio (il gasdotto trasporta 6 miliardi di metri cubi di gas naturale e 10 milioni di tonnellate di greggio all’anno). Il colosso statale cinese CCCC sta costruendo una nuova città di 1.500 chilometri quadrati fuori Yangon, oltre a progetti autostradali che collegano le principali città del Myanmar. Poi, ci sono la diga Yeywa RCC, non lontano da Mandalay, che produce il 25% dell’energia elettrica del Paese, una miniera di nikel e una miniera di rame. Nel 2011, i contadini della provincia occidentale di Monywa sono stati sgomberati con la forza per far posto alla miniera di rame di Letpadaung, una joint venture tra l’esercito e la compagnia cinese Wanbao. Quando nel 2012 Suu Kyi ha visitato il sito come capo della Commissione Investigativa Letpadaung del governo, ha detto a coloro che protestavano che avrebbero dovuto rispettare lo stato di diritto e “sacrificare le loro terre” per il bene dello sviluppo del Paese. Per la Cina il Myanmar rappresenta soprattutto una delle piattaforme strategiche per realizzare la “via marittima” della Belt and Road Initiative. La Maritime Silk Road cinese, infatti, comprende due corridoi: il corridoio economico Cina-penisola indocinese – dalla Cina a Singapore, passando per Vietnam, Laos, Cambogia, Thailandia, Myanmar e Malesia – e il corridoio economico Cina-Bangladesh-India-Myanmar. Negli ultimi 40 anni, la Cina è diventata il più grande importatore di materie prime al mondo e il più grande esportatore di prodotti finiti, aumentando la sua esposizione alla cosiddetta “trappola della Malacca”, per cui il suo commercio dipende dal collo di bottiglia rappresentato dallo stretto della Malacca, tra Singapore e Indonesia, su cui la Cina non ha alcun controllo. Le sue manovre aggressive nel Mar Cinese Meridionale ed Orientale vanno interpretate come un tentativo di proteggere almeno le acque sul lato orientale dello stretto, dal momento che non può controllare l’Oceano Indiano. Molti dei progetti infrastrutturali della BRI in Myanmar, Bangladesh e Pakistan sono pensati per consentire il trasporto via terra proprio per garantirsi un accesso all’Oceano Indiano. Il commercio cinese si espande rapidamente con l’Unione Europea (con cui la Cina scambia merci per 500 miliardi di dollari in più all’anno rispetto agli Stati Uniti) e il mondo arabo (da cui importa petrolio e gas), per cui è logico che la Cina cerchi di creare dei corridoi terrestri verso l’Europa e la regione del Golfo. La Cina è riuscita ad arrivare alla firma (15 novembre 2020), dopo 8 anni di trattative, della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), uno schema free trade (che non copre però il settore dei servizi) al quale partecipano 15 Paesi, i 10 dell’ASEAN (Singapore, Filippine, Thailandia, Vietnam, Myanmar, Laos, Cambogia, Indonesia, Brunei, Malaysia) oltre a Cina, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Australia, e forse in futuro anche l’India (che si è tirata indietro all’ultimo momento), escludendo gli USA. Il RCEP rappresenta il più grande blocco di libero scambio del mondo con il 30% dell’economia globale e il 30% della popolazione mondiale (2,2 miliardi di consumatori). La posizione di preminenza economico-politica degli USA nell’area Indo-Pacifica, comprendente il Sud-Est Asiatico, è ormai apertamente minacciata dal “socialismo di mercato” cinese, soprattutto in Paesi asiatici come Singapore, Malaysia, Indonesia, Filippine, Myanmar, Cambogia e Vietnam (ma anche India), fortemente interessati ai crescenti flussi commerciali e di investimento finanziario ed industriale cinese. Se nel 2019 gli USA assorbivano circa il 18% dei beni cinesi, l’Eurozona il 15%, il Giappone meno del 6%, il 34% aveva come sbocco il bacino delle nazioni asiatiche di nuova industrializzazione. Il RCEP dovrebbe aiutare Pechino a ridurre la sua dipendenza da mercati, filiere produttive di fornitura e tecnologie occidentali. Si tratta di un accordo che consente di definire regole commerciali e standard tecnici, ma con regole molto lasche sull’origine dei componenti dei prodotti (incoraggiando la dispersione territoriale delle value chains) e senza clausole sui sussidi di Stato, protezione ambientale, proprietà intellettuale e diritti del lavoro, tutti vincoli del sistema multilaterale non graditi alla Cina.[]
  7. La Cina è stata per decenni un importante fornitore di assistenza e addestramento militare sia per l’esercito del Myanmar sia per alcuni dei principali gruppi etnici armati. Uno dei gruppi armati più potenti – l’Esercito unito dello Stato Wa (Uwsa), una delle emanazioni dei ribelli comunisti, forte di 30 mila combattenti – sono nel nord e sono legati alla Cina, che vuole una soluzione negoziata che eviti qualsiasi scontro armato transfrontaliero o l’arrivo di profughi.[]
  8. Dal punto di vista geografico, il Myanmar è il più grande Stato del Sud-Est Asiatico ed è strategicamente delimitato da Bangladesh, India, Thailandia, Laos e Cina. La sua economia è stata una di quelle della regione che è maggiormente cresciuta negli ultimi anni (del 6,8% nel 2019) grazie ad una miriade di aziende cinesi – della Cina continentale, di Singapore (il principale investitore in Myanmar) e di Hong Kong – che hanno investito localmente, soprattutto nell’area di Yangon. Il 14 marzo 2021 i cinesi sono rimasti choccati dal saccheggio e danneggiamento di 32 aziende a capitale cinese all’interno del parco industriale di Hlaing Tharyar, a Yangon, dove ci sono oltre 300 fabbriche, da parte di gruppi di lavoratori manifestanti contro il regime militare (circa 40 milioni di dollari di danni ad aziende prevalentemente del settore tessile/abbigliamento). La battaglia di Hlaing Tharyar è stata una resa dei conti di quattro giorni di lavoratori e studenti contro le forze armate che non hanno esitato a sparare sulle operaie e gli operai, causando la morte di almeno 60 manifestanti nel quartiere operaio di Yangon.[]
  9. La comunità internazionale – in particolare Banca Mondiale, Unione Europea e USA – ha una parte di responsabilità per gli eventi che hanno portato al colpo di stato. Dopo una visita dell’allora segretario di Stato americano, Hillary Clinton nel 2011, la Banca Mondiale ha cominciato ad impegnarsi nuovamente con il Myanmar all’inizio del 2012, prestando fondi ad agenzie governative e fornendo consulenza tecnica sulla “gestione del debito” e sulla legge sugli investimenti esteri. Nel 2013, spinta dal primo ministro britannico David Cameron e accecata dalla promessa di un “progresso politico” e dalla liberazione di Aung San Suu Kyi dagli arresti domiciliari, l’UE si è affrettata a revocare decenni di debilitanti sanzioni economiche contro il Myanmar, senza ottenere in cambio significative concessioni dai militari e nessuna vincolante garanzia sulla riscrittura della costituzione del 2008. Poi, nel novembre 2014 Barack Obama è stato il primo presidente americano a visitare il Paese (un segno di apprezzamento per le “riforme”) e nel 2016 gli Stati Uniti si sono adeguati, perché l’amministrazione Obama desiderava avere un Myanmar democratico al centro della sua politica del “pivot verso l’Asia“. Le critiche di attivisti e organizzazioni per i diritti umani che affermavano che questa apertura di credito verso i militari fosse “prematura e deplorevole” sono state ignorate. Venuta a mancare la pressione sulle forze armate dopo che l’UE ha revocato le sanzioni e gli Stati Uniti si sono preparati a fare lo stesso, Aung San Suu Kyi, che nel 2011 aveva detto che non avrebbe mai governato il Myanmar con la costituzione militare del 2008, ha pensato di non avere altra scelta che andare al governo. Con il 25% dei seggi parlamentari designati dai militari, era evidente che il governo di Aung San Suu Kyi non avrebbe mai avuto il 75% dei voti necessari per modificare la costituzione. Avrebbe dovuto accettare una “democrazia simulata”, piuttosto che spingere con decisione il Paese verso la conquista di una democrazia sostanziale.[]
  10. Una delle principali difficoltà di questa proposta sarebbe stabilire e mantenere il supporto logistico per sostenere la no-fly zone. Una portaerei americana al largo della costa del Myanmar, nel Golfo del Bengala, potrebbe anche essere sufficiente per fornire la copertura aerea, ma sarebbe necessaria anche una qualche forma di sistema di rifornimento terrestre, soprattutto se la no-fly zone diventasse uno sforzo sostenuto. Ma, sarebbe difficile trovare uno Stato vicino disposto a consentire agli Stati Uniti di allestire un tale centro di supporto logistico. L’India non è un candidato probabile; nemmeno la Thailandia. L’Australia e il Giappone sono probabilmente troppo lontani per essere alternative pratiche.[]
  11. Successivamente, a Telenor e all’altro operatore privato (qatarino) della rete mobile è stato consentito il ripristino dei servizi, ma da allora ci sono state richieste intermittenti di chiusura e Internet mobile è stato chiuso dal 15 marzo. L’azienda statale norvegese, uno dei maggiori investitori stranieri in Myanmar, sta ora decidendo se superare le turbolenze o ritirarsi da un mercato che nel 2020 ha contribuito al 7% dei suoi guadagni. Ad inizio di maggio la filiale birmana ha comportato ad una perdita di 783 milioni di dollari.[]
  12. Secondo il Financial Times, le sole operazioni di estrazione della giada generano un fatturato stimato di 31 miliardi di dollari ogni anno.[]
  13. Si stima che attualmente ci siano almeno 5 milioni di lavoratori migranti del Myanmar che lavorano per lo più nei Paesi vicini come Thailandia (almeno 3 milioni), Cina, Malesia, ecc., ma alcuni anche in Paesi lontani come Qatar, Corea del Sud e Giordania. Le rimesse, di conseguenza, hanno un peso molto rilevante nell’economia birmana, soprattutto nelle aree rurali.[]
  14. L’industria dell’abbigliamento è cresciuta rapidamente nel Paese dall’abolizione delle sanzioni internazionali nel 2016. Secondo la Camera di Commercio Europea in Myanmar, gli indumenti hanno rappresentato il 31% di tutte le esportazioni nel 2018, per un valore di 4,59 miliardi di dollari. Paesi asiatici come la Cina o la Corea del Sud, sempre più paesi occidentali sono diventati mercati importanti poiché aziende come H&M, Inditex (che possiede i marchi Zara e BSK), Primark, Bestseller, Adidas e l’italiana OVS hanno iniziato a rifornirsi dalle fabbriche in Myanmar. I marchi globali sono tutti firmatari di ACT, ovvero Azione, Collaborazione, Trasformazione, un accordo tra i marchi e il sindacato mondiale IndustriALL che intende garantire che i lavoratori che utilizzano la contrattazione collettiva e la libertà di associazione possano negoziare salari dignitosi. Ai primi di marzo 2021, H&M è stato il primo grande rivenditore a confermare che avrebbe cessato di effettuare ulteriori ordini ai suoi 45 fornitori in Myanmar[]
  15. Nella settimana prima del golpe, i test CoVid-19 erano in media più di 17 mila al giorno a livello nazionale, ora sono scesi sotto i 1.200 al giorno.[]
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