A metà degli anni ’90 L’appello di John Grisham (non un capolavoro della letteratura, va detto) mise alla prova la mia contrarietà alla pena di morte. La trama è nota soprattutto per il film che ne ha tratto James Foley e il condannato (convinto membro del Ku Klux Klan, responsabile per la morte dei due figli della vittima designata) è talmente odioso che per qualche momento mi venne da pensare che il mondo avrebbe potuto farne a meno senza soffrirne e perfino senza accorgersene. Quando le emozioni vengono sollecitate, infatti, anche le convinzioni profonde possono subire qualche sbandamento. È per questo motivo che in materia penale non bisognerebbe mai annunciare, e men che meno assumere, decisioni sull’onda delle emozioni suscitate (e spesso amplificate ad arte) dagli episodi di cronaca.
La libertà personale è, viene detto spesso, il bene supremo e, non troppo raramente, queste solenni enunciazioni si riferiscono alla propria libertà personale e/o a quella di persone specifiche. In questi giorni, per esempio, è stato scritto che le misure cautelari nei confronti di 52 agenti e funzionari di polizia penitenziaria che sarebbero responsabili dell’“orribile mattanza” (come è stata definita dal giudice delle indagini preliminari, che ha disposto per alcuni la detenzione in carcere e per altri gli arresti domiciliari) del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere costituiscono “un’assoluta anomalia”1 anche a causa della quantità di tempo trascorso dai fatti (14 mesi). Spiace dirlo, ma non si tratta affatto di un’anomalia. Prima che intervenga la prescrizione (i cui tempi sono stati allungati dalla sciagurata “riforma” Bonafede) possono essere, per legge, assunti tutti i provvedimenti ritenuti necessari, anche le misure cautelari in carcere. È in questo modo che si arriva a 8.500 detenuti in attesa di primo giudizio, secondo i dati del Ministero della giustizia aggiornati al 31 maggio di quest’anno, su un totale di 53.660 (oltre il 15,8%)2.
Quindi non è affatto un’anomalia (e men che meno assoluta) disporre la carcerazione preventiva. I fatti contestati sono gravissimi, ma la carcerazione preventiva viene ordinariamente disposta anche per reati molto meno gravi.
E qui torniamo alle mie convinzioni. Così come non mi sentita di festeggiare la condanna di Derek Chauvin, riconosciuto colpevole di aver provocato la morte di George Floyd, non gioisco del provvedimento per gli agenti di polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. Mandare qualcuno in carcere, soprattutto in assenza di una condanna, dovrebbe davvero essere la misura estrema. Dovrebbe, ma non è, come sa chiunque legga un quotidiano (non è necessario essere stati sottosegretari alla Giustizia). Non dovrebbe invece essere considerata nemmeno decente l’invocazione di una sorta di “diritto speciale” per gli appartenenti ai vari corpi statali incaricati dell’ordine e della sicurezza, con una presunzione non solo di innocenza (ché a quello ci pensa la Costituzione) ma di assoluta (questa sì) e aprioristica legalità e legittimità, come si fa troppo spesso quando sono carabinieri, polizia, vigili urbani e polizia penitenziaria a essere accusati di aver commesso dei reati nell’esercizio delle loro funzioni (si pensi per esempio all’ostinata “difesa d’ufficio” dei carabinieri da parte di Giovanardi per l’omicidio di Stefano Cucchi). Perché di questo si tratta in termini giuridici: della distinzione tra l’uso legittimo della forza e la violenza non giustificabile, fino alla tortura.
Non sono riuscita a guardare il video delle telecamere di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere ampiamente diffuso online, non ce l’ho fatta. Non mi sono nemmeno soffermata molto sulle descrizioni del contenuto. Sapevo già dallo scorso anno che in quel carcere era successa una cosa terribile, che non era la prima volta3, che non sarebbe stata l’ultima. Lo dico anche per conoscenza diretta. E lo sapevano, lo sanno, anche gli agenti di polizia penitenziaria che, pur consapevoli della presenza delle telecamere di sicurezza, non si sono travisati con il casco (a parte uno, da quello ho letto). Pensavano di non averne bisogno, che sarebbe stata loro garantita l’impunità perché tra detenuti e polizia penitenziaria sembra non esserci partita a livello di popolarità. È per questo che l’idea di un agente penitenziario in carcere scandalizza alcuni: mette in discussione la distinzione netta tra (supposti) buoni e (supposti) cattivi. Io vorrei che non fossero in carcere, ma vorrei che non ci fossero nemmeno gli altri 8.500.
Maria Pia Calemme
- Così Gennaro Migliore, “Quattordici mesi dopo, c’era bisogno di arrestarli?”, Il Riformista, 29/6/2021.[↩]
- Se agli 8.501 detenuti in attesa di primo giudizio si aggiunge il numero dei detenuti condannati ma non definitivamente (7.861), la percentuale sale a oltre il 30%. Da sottolineare che ci sono più detenuti in attesa di primo giudizio che detenuti condannati in almeno un grado processuale.[↩]
- Luigi Manconi, nell’articolo pubblicato ieri da La Stampa, ricorda altre vicende di pestaggi in carcere e la condanna per il reato di tortura a carico di agenti di polizia penitenziaria di San Gimignano. Riporta anche la risposta del sottosegretario alla Giustizia (ministro in carica Bonafede) all’interpellanza di Riccardo Magi su Santa Maria Capua Vetere: “[Una] doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto, alla quale ha concorso, oltre che il personale dell’istituto, anche un’aliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi”. Il “gruppo di supporto agli interventi” è l’equivalente regionale del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria (Gom), responsabile delle più cruente “azioni di ripristino di legalità” in carcere, nonché delle torture nella caserma di Bolzaneto a luglio 2001.[↩]