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Neoliberismo urbanistico alla milanese

di Sergio
Brenna

Ha suscitato grandi aspettative nel mondo dell’imprenditorialità finanziario-immobiliare (vedi articolo su Il Sole24ore del 13/11 scorso) e grandi preoccupazioni in chi si oppone all’uso speculativo-immobiliare dell’assetto delle città, la notizia dell’attivismo legislativo del Governo Draghi in campo urbanistico.

La Legge Urbanistica del ’42, la cui approvazione fu caldeggiata dal segretario nazionale del Sindacato Fascista Architetti Calza Bini, era di impronta tipicamente “corporativa” e quindi affidava interamente al “sapere” tecnico-professionale di architetti e ingegneri stabilire le giuste e opportune proporzioni tra quantità edificatorie e spazi pubblici di una città ben ordinata.

Nel dopoguerra e per tutti gli anni ’50 e ’60 di nuovo le “convenzioni privatistiche” in assenza dei PRG si basarono su proposte edificatorie elaborate per conto dei promotori immobiliari privsti da parte di progettisti la cui deontologia professionale consentiva di prevedere spazi pubblici minimi o nulli.

Occorse la “frana di Agrigento” del 1966 (migliaia di metri cubi malamente accatastati sul fianco di una collina franosa) e l’indignazione dell’opinione pubblica susseguitane per indurre le forze politiche in Parlamento ad approvare un’integrazione alla legge del ’42 che prevedeva per i Comuni l’obbligo di dotarsi di un PRG che – oltre ai luoghi dove poter edificare e dove no – imponesse ai progettisti dei privati un minimo di decenza nella quantità di spazi pubblici previsti (18 mq/abitante di quartiere + 17,5 mq/abitante di parchi territoriali e grandi servizi urbani = 35,5 mq/abitante totali).

Già dagli anni ’90 con la surrettizia introduzione dei Programmi Integrati di Intervento (PII) con un emendamento bipartisan di due sconosciuti “peones” (Botta-DC e Ferrarini-PdS) ad una legge di rifinanziamento dell’edilizia economico-popolare e di nuovo ripetutamente negli anni 2000 con disegni di legge congiunti o autonomi da parte dei deputati milanesi Maurizio Lupi (allora Partito delle libertà, oggi Noi con l’Italia) e Mantini (allora DS, oggi Italia Viva), ben più addentrati negli interessi potere degli interessi finanziario-immobiliari, più volte si tentò invano di sopprimere l’obbligo per legge a quel minimo di decenza, affidandolo nuovamente solo alla succube coscienza deontologica manifestata della categoria professionale.

In certo modo fu un’anticipazione ante litteram di quel Modello Milano che ha caratterizzato il susseguirsi di Giunte di cementodestra e cementosinistra da Albertini a Letizia Moratti a Pisapia a Sala e che oggi è decantato dal “dominus” dell’immobiliarismo finanziario milanese Catella e che oggi viene indicato dalle iniziative legislative del Governo Draghi come modello da estendere alla strategia di “rigenerazione urbana” per l’intero Paese.

L’instaurato clima bipartisan del Governo Draghi, nel voler affidare totalmente al mercato l’appalto dei servizi pubblici, ripropone di affiancarvi la scelta di appaltare totalmente ai privati e loro tecnici anche l’assetto pubblico delle città, estendendo a tutte le città italiane l’esperienza del cosiddetto Modello Milano.

Sorge legittimamente il dubbio che anche oggi la coscienza deontologica della corporazione progettante non sia poi così meno succube ai prevalenti interessi speculativo-finanziario-immobiliari dei promotori delle trasformazioni/rigenerazione urbane così decantato per l’accattivante ingannevole modernità di un uso tutto ludico-consumistico delle città e dei loro (pochi) spazi pubblici proposti.

Lo dimostrano le esperienze di trasformazione urbana cui i cittadini più volte hanno cercato di opporsi con ricorsi giudiziari per la carenza di spazi pubblici ed eccessive altezze nelle trasformazioni urbane prima di ex Fiera-Citylife ed ex Centro Direzionale-Porta Nuova e più recentemente nell’accordo di Programma FS-Comune di Milano sul riuso edificatorio degli ex scali ferroviari, per il quale la sentenza è attesa nelle prossime settimane.

Se il Consiglio di Stato accogliesse l’argomentazione che la pretesa totale disapplicabilità di un minimo inderogabile di spazi pubblici in ogni strumento urbanistico comunque pseudo-innovativamente denominato (rigenerazione urbana, piano integrato di intervento Accordo di Programma o quant’altro) è un diritto costituzionalmente tutelato, l’assalto neoliberista insito nella scelta dei membri della Commissione interministeriale preposta allo sradicamento dei contenuti pubblicistici del Decreto Ministeriale del ’68, subirebbe una sostanziale autorevolissima smentita.

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