articoli

Nel Regno Unito manca un Party

di Enrico
Sartor

Mentre la quinta ondata Covid-19 sta avendo il suo corso nel Regno Unito, forse con qualche anticipo sulla situazione del resto d’Europa, il governo di Boris Johnson e il partito conservatore sono entrati in una crisi politica che col passare dei giorni sembra irreversibile.

La crisi è iniziata a metà dicembre 2021, quando l’altissimo livello di contagiosità della variante Omicron ha costretto il governo ad imporre nuovamente severe restrizioni alla vita dei cittadini (quasi un ritorno ai primi tempi della pandemia). Questo ha generato nuove difficoltà in larghi settori di lavoratori, esacerbando una fase di generale impoverimento causato dall’inflazione sopra il 5%, dal drammatico aumento dei costi di gas ed elettricità, dalla riduzione o eliminazione dei sostegni e interventi sociali, dalla crisi generale dei servizi (quali il sistema sanitario e i trasporti pubblici a Londra).

In una sola settimana, il partito conservatore ha subito lo scavalcamento del Labour nelle intenzioni di voto di ben 5 punti (38% contro 33%, seconde le statistiche di politico.eu), ha perso un seggio sicuro (bastione elettorale da duecento anni, con uno spostamento elettorale del 34% a favore dei Lib-Dem) ed ha infine subito la rivolta di 99 parlamentari che – ai Commons – hanno votato contro le nuove misure del governo Johnson, liquefacendo la maggioranza parlamentare di 83 seggi.

La crisi è proseguita con le rivelazioni sui media che nella primavera del 2020 ci furono party praticamente giornalieri al numero 10 di Downing Street, con decine di partecipanti, mentre il Paese era in pieno rigido lockdown. Johnson con la tipica arroganza che gli costò la fine ignominiosa della sua carriera di sindaco di Londra, prima ha negato, poi parzialmente ammesso, pur mentendo ancora, e alla fine ha dovuto chiedere scusa al Paese, quando è emerso che ci fu un party pure alla vigilia del funerale del principe consorte Filippo, cui la regina partecipò sola e senza il supporto della famiglia a causa delle restrizioni sanitarie.

A Johnson non rimane neppure l’ultimo rifugio del patriottismo xenofobo, su cui gran parte del suo successo politico si è basato, dato il ritiro caotico e poco dignitoso dall’Afghanistan e la crescente coscienza dell’elettorato che la Brexit si sta rivelando poco più di un esperimento di autolesionismo sociale ed economico per fini ideologico-elettorali.

Al momento, sempre secondo Politico.eu, i Laburisti hanno un vantaggio di sei punti nei sondaggi elettorali e il 69% degli elettori disapprova johnson come primo ministro. Un sondaggio dell’Observer di domenica 16 gennaio, dà ai Laburisti un vantaggio del 10%, e la maggioranza di ogni componente demografica dell’elettorato pensa che Boris Johnson dovrebbe dimettersi. Starmer, il capo dei laburisti ha chiesto le sue dimissioni, assieme ad un crescente numero di parlamentari Tory.

Un eccesso di ottimismo per questa fase politica sarebbe però decisamente sbagliato, perché al momento sembra che la crisi del governo non comporti un cambio degli equilibri di classe, ma solo un riallineamento all’interno del campo ancora dominante del centro-destra neo-liberista.

Una delle ragioni è, per esempio, il fatto che la crisi potrebbe sboccare con l’attuale ministro del Tesoro come nuovo primo ministro. Rishi Sunak ha già strappato in passato con la politica interventista-populista di Johnson, in favore di una strategia nettamente neo-liberista e pro-austerità. Per esempio ha deciso il congelamento di fatto degli stipendi del settore pubblico, il taglio ai servizi e ha opposto la reintroduzione della cassa integrazione (furlough) quando le misure sanitarie per fronteggiare la quinta ondata del coronavirus, hanno di fatto posto in lockdown le attività commerciali nei centri delle grosse città, soprattutto Londra e Manchester.

Secondo, le crescenti fortune dell’opposizione laburista non sono basate su una politica socialista e di classe. Per esempio: quando il partito di Starmer ha salvato a metà dicembre scorso il governo di Johnson dal pericolo di finire in minoranza sulle nuove restrizioni sanitarie, ha motivando il voto di supporto (da cui si sono dissociati diversi parlamentari corbinisti) per ‘spirito patriottico’. Quest’amor di patria ha permesso ai laburisti di ignorare che il governo chiedeva a decine di migliaia di lavoratori di auto-isolarsi se positivi senza offrire un adeguato pagamento per la malattia e imponeva la semi-chiusura di fatto di centinaia di attività commerciali nei centri urbani senza l’introduzione di alcun armonizzatore sociale per i lavoratori afflitti. Il patriottismo di Starmer sta diventando il leitmotiv della retorica laburista, e non ha niente a che fare con un concetto gramsciano di partito national-popolare, date le sue scelte centriste e conservatrici che arrivano al punto di sdoganare e giustificare la privatizzazione di settori del sistema sanitario nazionale per far fronte alla pandemia. Starmer sta solo offrendo una gestione meno corrotta e disonesta di quella di Johnson a una politica sostanzialmente conservatrice.

È quindi comprensibile la decisione di UNITE, il più grosso sindacato inglese, di fermare le sue sovvenzioni al partito laburista, e di canalizzarle invece verso movimenti sociali alternativi.

Infatti sono le mobilitazioni indipendenti di piazza che in queste settimane costituiscono la vera opposizione a un governo che, nonostante l’apparente stato di crisi continua, senza una vera opposizione parlamentare, a perseguire riforme radicali che stanno stravolgendo lo stato democratico del Paese.

Il governo ha, infatti, presentato ai Lords (camera alta) una serie di emendamenti a un decreto di ordine pubblico che se passeranno renderanno in sostanza impossibile avere manifestazioni politiche in Inghilterra (per esempio: eccessivo rumore durante la manifestazione potrà essere considerato reato penale, la polizia potrà a sua completa discrezione vietare a specifici cittadini di prender parte a manifestazioni) ed estenderanno i poteri di polizia di fermare e perquisire cittadini senza che nessun reato sia stato commesso. Questo mentre il governo ha manifestato la sua chiara determinazione di ritirare l’adesione del Regno Unito alla Conferenza Europea dei Diritti dell’Uomo, così da poter cambiare radicalmente la legislazione nazionale che su di essa si basa.

È la strategia di un governo probabilmente più preoccupato dal crescente malcontento nel Paese che dall’opposizione parlamentare. Anche la crescente resistenza nel Paese a lavori logoranti e malpagati non riesce a trovare una rappresentanza nella politica corrente dei laburisti di Starmer, e si limita a forme spontanee di resistenza. Per esempio è dei giorni scorsi la notizia che una grossa catena commerciale di sandwich e cibo d’asporto è stata inondata da lamentele di clienti. Questa catena, Pret a Manger, aveva, infatti, lanciato una promozione che offriva bevande, calde e fredde a costi ridottissimi per un mese, facendo ricadere sul personale esistente, già spremuto dai normali ritmi di lavoro e pagato il salario minimo nazionale, l’aumento sostanziale di domanda e vendite. A questo i lavoratori hanno risposto spegnendo le macchine per frappe, succhi freschi ecc. nelle ore di punta e causando le lamentele dei clienti che si sono trovati spesso a non poter usufruire dell’offerta.

Il forte aumento del costo della vita e la crescente povertà dei lavoratori (i media riportano casi di famiglie che devono quotidianamente decidere se mangiare o tenere il riscaldamento acceso) saranno nei prossimi mesi il vero centro della battaglia politica in questo Paese, che ci sia Johnson o no alla guida del governo. E al momento non c’è ancora una rappresentanza politica di sinistra per questo scontro.

Enrico Sartor da Londra

conflitto sociale, Regno Unito
Articolo precedente
Un Network europeo antifascista
Articolo successivo
Quanto costerebbe non fare la transizione ecologica?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.