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Morire in una galera etnica chiamata Europa

di Stefano
Galieni

Quanto accaduto il 4 febbraio al ventiduenne Ousmane Sylla, cittadino guineano, morto suicida nel Centro Permanente per i Rimpatri di Ponte Galeria, una frazione di Roma a pochissimi chilometri dall’aeroporto di Fiumicino, non può essere derubricato a mero fatto di cronaca. Non si tratta soltanto – e già questo è gravissimo – dell’ennesimo suicidio in una struttura detentiva in cui lo Stato dovrebbe garantire la sicurezza di chi vi è rinchiuso. È qualcosa di più profondo, è la classica e tanto abusata, punta dell’iceberg, di un sistema da svelare in cui subentrano numerosi fattori. Proviamo a toccarne semplicemente alcuni, almeno per interrogarci. La detenzione amministrativa ha un impulso in UE con l’ingresso nella cosiddetta “area Schengen” che garantisce, salvo eccezioni – su cui pori torneremo – la libera circolazione in tale spazio dei cittadini dei Paesi che ne fanno parte ma che prevede invece un ferreo controllo per chi giunge da altri lidi. Si potevano usare e si potrebbero altri strumenti per attuare i cd controlli alla frontiera, si potrebbe utilizzare il trattamento / detenzione, al limite come estrema ratio, nei confronti di coloro che costituiscono reale problema per la sicurezza nazionale, invece non solo si è scelta in Europa la detenzione, ma ci si prepara ad estenderla in maniera sempre più vasta, istituzionalizzandola, anche ai richiedenti asilo. Le morti che si sono succedute in questi 25 anni nei Centri che via via hanno cambiato nome, tempi massimi di reclusione, ubicazione ed ente gestore, spesso in chiave peggiorativa, sono un tragico epifenomeno di quella che andrebbe definita detenzione su base etnica. Alle oltre 40 vittime accertate per suicidio, overdose, malori di varia natura, percosse mai punite, si vanno ad aggiungere le migliaia – questa è la dimensione – di persone che durante il trattenimento, in cui vengono dichiarati con misera ironia “ospiti”, si sono rese protagoniste di autolesionismo, rivolte, scioperi della fame, gesti eclatanti come quello di cucirsi la bocca, per far percepire al mondo esterno condizioni di vita altrimenti ignorate.

L’ingresso in queste strutture è quasi inibito ai mezzi di informazione, è garantito unicamente a chi siede in parlamento e ai consiglieri regionali eletti nel collegio in cui il suddetto Centro è ubicato. Se si eccettuano gli interventi di controllo del Garante dei detenuti e di alcune associazioni internazionali o che hanno stipulato accordi con le singole prefetture, per il resto della loro stessa esistenza si è poco o quasi a conoscenza. Eppure si tratta di luoghi, realizzati come se fossero penitenziari di massima sicurezza, in cui si può restare detenuti fino a 18 mesi, in cui entrano solo per la conferma del trattenimento i giudici di pace, avvocati, sovente d’ufficio, che neanche hanno il tempo di parlare con la persona difesa e in cui, solo con i tempi e le modalità prefettizie, si riesce ad avere un colloquio con un parente. Buchi neri insomma in cui può accadere di tutto, in cui accade di tutto. C’è voluto l’intervento della Guardia di finanza per commissariare il CPR di Milano, sito in Via Corelli, dopo le tante denunce portate avanti dal Naga, dalla rete “Mai più lager – No ai Cpr”, per svelare quello che era sotto gli occhi di tutti. Servizi pagati dallo Stato e mai offerti agli “ospiti”, invivibilità degli spazi, un vero e proprio business della detenzione del resto comprovata in molti altri Centri. Questo è reso possibile dal fatto che le vite di scarto, di coloro che vi sono rinchiusi, non hanno peso né ragione di essere protette. È in questa maniera che si muore lentamente nei CPR. Ousmane Sylla a detta di medici, era una persona vulnerabile il cui stato era incompatibile con il trattenimento. Proveniva da Trapani, dal CPR di Contrada Milo, dove le rivolte si susseguono ma il cui eco non esce dai confini di quelle pareti. Dopo un incendio era stato trasferito a Roma per assenza di spazi nella struttura siciliana, lì ha deciso di porre fine alla sua esistenza. Ma ha deciso o, in tali condizioni, è stata una morte annunciata come tante?

Nei CPR sono oggi rinchiuse circa 400 persone, di queste meno del 50% verrà effettivamente rimpatriato, per gli altri, non esistendo accordi bilaterali, scatterà il rilascio con l’invito a lasciare entro breve tempo il territorio nazionale. Ma per andare dove? Molti resteranno nell’invisibilità, magari verranno ripresi e ricondotti in un altro Centro, inutilmente, illegittimamente – perché non è offerta alternativa a tale condizione  – e con costi assurdi per lo Stato. Per queste macchine divoratrici di vite si spendono decine di milioni di euro, di cui beneficiano gli enti gestori, ormai spesso multinazionali della sicurezza, che garantiscono bassi stipendi ad operatori e mediatori, ma la cui utilità si percepisce unicamente durante la campagna elettorale. Servono – nelle intenzioni di chi li promuove – unicamente a dimostrare di avere un inesistente controllo del territorio. Da novembre scorso, si tenta di far fronte all’inconsistenza di tali strumenti con l’ennesima proposta di propaganda, l’apertura di Centri a gestione italiana in un Paese extra UE come l’Albania. Il costo stimato per tenere 3000 persone l’anno oscilla, a seconda delle valutazioni rispetto a voci di spesa non chiare, fra i 700 e i 900 milioni di euro per 5 anni. Come già scritto quei posti, da spendere nella campagna elettorale europea, saranno riservati a chi viene salvato in acque internazionali, non da navi delle Ong, che sarà sottoposto al controverso sistema di “procedura alla frontiera”, riservato a chi proviene da Paesi considerati sicuri tali da non dar luogo, se non raramente, ad un risultato positivo di fronte ad una richiesta di asilo o protezione. La delocalizzazione del trattenimento, oltre a dimostrarsi costosa e di difficile attuazione, corrisponde solo a logiche di propaganda proibizionista, non intaccherà minimamente l’ingresso “illegale” di persone in un continente in cui l’ingresso legale è praticamente negato.

Il tentativo già poi in atto di istituzionalizzare in chiave UE, il trattenimento dei richiedenti asilo, le politiche di rimpatrio – anche queste con scarsa possibilità di successo – ampliano ancora di più la platea di coloro che, compiendo la scelta di fuggire in Europa, in particolare in Italia, si ritroveranno rinchiusi fra sbarre, in attesa del pollice alzato o verso di una Commissione territoriale chiamata a decidere della vita di persone. Sembra quasi di assistere impotenti, ma si tratta di un percorso in atto da decenni che non ha incontrato che scarsa opposizione nelle istituzioni, alla realizzazione di una nuova grande piramide dell’esclusione. Questo è il nuovo iceberg di cui non vediamo unicamente la punta. In cima ci sono coloro che, nelle diverse condizioni, ci lasciano la vita, alle fondamenta le tante e i tanti che restano, non solo metaforicamente, sotto la superfice, a definire una gerarchia del ruolo sociale da ricoprire in cui accanto alle ormai consolidate “classe, genere e razza”, si aggiunge un criterio che le riassume e che si traduce nel diritto a potersi o meno muovere e fermarsi nel pianeta.

Si tratta di un’ideologia dominante, parte integrante delle logiche di mercato e del sistema di guerra globale con cui l’occidente difende i propri privilegi chiamandoli con ipocrisia “diritti”, da cui una moltitudine maggioritaria è esclusa, in quanto inutile ai processi produttivi e di accumulazione di profitto. Il suprematismo è in tal senso un termine che in Europa, assume forma e si sostanzia in maniera diversa da quanto accade negli Usa. È razzializzante escludendo solo apparentemente i dogmi del white power. È il frutto non di una inesistente guerra fra poveri, ma di una scientifica guerra “contro i poveri”, che porta a lasciare briciole per chi è indigente ma autoctono e niente per chi non ha il titolo per accedere a tali rimasugli. Una guerra che si combatte con infiniti strumenti: dal migranticidio nel Mediterraneo e sulle altre rotte migratorie terrestri, alla detenzione disumanizzante di chi deve, per sua natura, restare escluso. L’esclusione dai diritti è parte integrante di tale processo, permette di avere nella sola Italia, centinaia di migliaia di persone, nel lavoro domestico, nell’agricoltura, nelle altre nicchie economiche di basso profilo, perennemente ricattabili e rinchiuse in gabbie contigue a quelle dei CPR, quelle del lavoro nero o grigio, dello sfruttamento fino allo schiavismo, dell’assenza dei servizi essenziali alla persona. Ousmane Sylla e il suo suicidio (ma è giusto chiamarlo in questo modo?) sono il volto visibile di queste gabbie attraverso cui l’Europa ormai condannata a morire di vecchiaia, sceglie di suicidarsi realmente rinunciando al proprio futuro, in nome di una inesistente purezza occidentale mai dichiarata nei salotti buoni ma praticata nella quotidianità. Cominciare a far saltare le serrature di queste gabbie, abbatterne le sbarre e rifiutarne l’esistenza a prescindere, è forse il solo modo per ricominciare a pensare ad un continente intenzionato a vivere in pace.

Stefano Galieni

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