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Meditazioni Keynesiane II sez. “Escalation” (Quinta Meditazione)

di Giuseppe
Nicolosi

Questa quinta meditazione keynesiana non ha l’ambizione di fornire d’un sol colpo una risposta diretta al dilemma posto dalle “Possibilità” di Keynes. Mira piuttosto a considerare un aspetto relativamente trascurato nel dibattito aperto da quel testo. Come si ricorderà, David Graeber ha posto la questione in questi termini:

Come mai l’utopia promessa da Keynes – attesa con impazienza ancora negli anni Sessanta, non si è mai concretizzata ? La spiegazione più comune, oggi, è che lui non aveva calcolato l’enorme crescita del consumismo.

Partendo da quella che Graeber ha definito “l’enorme crescita del consumismo”, cercheremo di capire se, agli aumenti di produttività segnalati dagli economisti a più riprese dalla seconda metà del Novecento ad oggi, sia in qualche modo riconducibile la progettazione e la costruzione di quelli che, per adesso, possiamo iniziare a definire come dei “superconsumatori”. Detto in altri termini, qui ci si chiederà se, e fino a che punto, sia possibile produrre il consumo attraverso i suoi attori protagonisti. Ogni scolaretto sa che il principale dispositivo volto a favorire il consumo è la pubblicità. Tuttavia, il nostro scopo principale non è quello di demonizzare la pubblicità, ma quello di mostrare come la dimensione del consumo oggi si  spinga oltre l’atto d’acquisto, fino a trasformarsi in una specie di condizione esistenziale di massa.

Come si è discusso nelle meditazioni precedenti, David Graeber ha respinto l‘ipotesi secondo la quale abbiamo preferito avere più giocattoli e divertimenti alla riduzione dell’orario di lavoro. E lo ha fatto sulla base della sua teoria dei lavori inutili: non siamo noi occidentali a produrre la maggior parte dei gadget che ci appassionano. Da cui segue che il nostro lavorare a lungo non dipende dall’esigenza di realizzare i gadget. Non si può quindi attribuire alla passione bruciante per i giocattoli (e alla loro produzione), la mancata riduzione dell’orario di lavoro. Peraltro, giocare richiede del tempo, che può facilmente venir sottratto dal tempo di lavoro. Cosa che faceva arrabbiare molto i puritani che ritenevano il gioco un’attività peccaminosa.

Restando in questo ambito di ragionamento, si deve quindi riconoscere che i superconsumatori non sono necessariamente dei superlavoratori, al contrario, possono appartenere (e spesso appartengono) a gruppi sociali emarginati o a rischio di esclusione. Basti qui ricordare che sebbene gli obesi, i tossicomani e i ludopati (giocatori d’azzardo compulsivi), per ragioni diverse, possano essere considerati dei superconsumatori, non capita spesso di incontrare all’interno di queste categorie dei superlavoratori. Se, come sosteneva Graeber, non si lavora realmente per costruire giocattoli con cui trastullarsi, è altrettanto evidente che non consumiamo per lavorare.

Interrogarsi su come si costruiscono i superconsumatori e quale sia il loro ruolo, significa avvicinarsi all’enigma dell’ utopia fallita di Keynes da una porta laterale, che non mancherà di riservare qualche illuminante sorpresa. L’enorme crescita del consumismo merita, nel dibattito sul testo di Keynes, un’attenzione paragonabile a quella dedicata alle dinamiche di trasformazione del lavoro. Tralasciamo quindi momentaneamente ratti da laboratorio e teorie sperimentali sulla depressione, per rivisitare alcuni momenti del recente dibattito sul consumo, sia da un’angolatura marxiana sia dal punto di vista di alcuni economisti e filosofi contemporanei di ispirazione liberale.

La produzione del consumatore

Il celebre studioso marxista André Gorz, in una delle ultime interviste rilasciate prima della sua dipartita, tirava un bilancio dei più importanti temi intellettuali affrontati nel suo itinerario di ricerca. Tra questi, emergeva quello della manipolazione e del controllo della soggettività:

«Che noi siamo dominati dal nostro lavoro è un’evidenza da centosettanta anni. Ma non lo è il fatto che noi siamo dominati nei nostri bisogni e desideri, nei nostri pensieri e nell’immagine che abbiamo di noi stessi. (…) Il mio punto di partenza è stato un articolo apparso in un settimanale americano nel 1954. Esso spiegava che la valorizzazione della capacità di produzione americana esigeva che il consumo crescesse almeno del 50% negli otto anni a seguire, ma che la gente era del tutto incapace di definire di cosa si sarebbe composto il 50% di consumo supplementare. Spettava agli esperti di pubblicità e di marketing suscitare bisogni, desideri, nuovi fantasmi presso i consumatori, caricare le merci, perfino le più triviali, di simboli che ne avrebbero aumentato la domanda.». 1

Gorz non specificava in quell’intervista quale fosse l’articolo che aveva inciso così profondamente sulla sua prospettiva, ma non ritengo si tratti di un riferimento indispensabile. Che l’aumento della produttività invochi un aumento dei consumi è una considerazione piuttosto ovvia, quale che sia la fonte che la enuncia. Come effettivamente avvenga quella che Gorz chiamava la “produzione del consumatore”, per molti versi è ancora un mistero. Ma Gorz pensava dovesse trattarsi di un processo coercitivo, tanto che, in quell’intervista, poche righe sopra, aveva affermato:

«Chi agisce non è “io”, ma è la logica automatizzata delle disposizioni sociali che agisce attraverso di me in quanto Altro, mi fa concorrere alla produzione e riproduzione della megamacchina sociale. Essa è il vero soggetto». (ivi)

A queste parole di Gorz i due studiosi inglesi Robert ed Edward Skidelsky (padre e figlio, grande economista inglese il primo e giovane filosofo il secondo), avrebbero mosso, qualche anno dopo, una critica incisiva cui Gorz, morto nel 2008, non ebbe l’opportunità di replicare. Secondo gli Skidelsky:

«La spiegazione marxista del comportamento dei consumatori è meno plausibile. Pur potendo divergere dalle necessità reali, le preferenze dei consumatori non possono essere del tutto indipendenti da quelle necessità, non possono essere solo ‘instillate’ in noi dall’ ‘apparato produttivo’ o da qualche altro mostro analogo. Asserirlo equivale a negare ogni potere agli individui, riducendoli a formiche o parassiti. Il sociologo marxista André Gorz sembra fare proprio questo quando scrive a proposito del singolo individuo sotto il capitalismo (qui gli Skidelsky citano il passo di Gorz riportato sopra).  La pubblicità può plasmare i desideri, ma non può crearli dal nulla (non può, per esempio, persuaderci ad acquistare escrementi di cane, salvo forse associandovi un qualche oggetto del desiderio già esistente). È necessario che vi sia nella natura umana una qualche tendenza precedente su cui la pubblicità possa far presa; in caso contrario il suo impero su di noi sarebbe misterioso». 2

Per ora evitiamo di entrare nel fitto dibattito tra economisti e psicologi intorno a bisogni e desideri (needs e wants), per concentrarci sul problema della manipolazione pubblicitaria: gli Skidelsky sostengono che Gorz avrebbe esagerato nell’attribuire all’apparato di produzione del consumatore un potere talmente forte da eliminare ogni residuo di soggettività. Obiezione che contiene “in nuce” la critica che viene solitamente rivolta al marxismo volgare, cui si rimprovera di abbandonarsi al determinismo storico e al determinismo economico, senza lasciare alcuno spazio alla soggettività.

In realtà, la posizione espressa da Gorz non implica necessariamente la conclusione cui giungono gli Skidelsky. Per esempio, si potrebbe fare l’ipotesi che vi sia una base biologica comune, una sorta di hardware, che la pubblicità riesce a mettere al lavoro fino a raggiungere un potere quasi coercitivo sul nostro comportamento. Da questo non segue necessariamente che venga cancellato in noi ogni residuo di soggettività.

Se, a scopo puramente speculativo, decidessimo di prendere sul serio la famosa metafora proposta da Platone nel Fedro 3, secondo la quale siamo nella posizione dell’auriga, tirato da due cavalli, uno nero, che rappresenta “l’anima concupiscibile” e uno bianco che rappresenta l’anima razionale, potremmo immaginare la pubblicità come un dispositivo che elargisce biada e zuccherini al solo cavallo nero, facendo prevalere in tal modo la sua energia su quella del cavallo bianco. Dal fatto che in queste condizioni il cavallo nero tiri di più e riesca a prevalere, non deriva che l’auriga sia per questo un automa o un insetto.
Se pure i pubblicitari, restando nella metafora di Platone, ci spingessero a “concupire” fino a perdere del tutto il controllo della biga, da questo non seguirebbe la conclusione che l’auriga è, in tutto e per tutto, uno zombie. Giocatori d’azzardo, tossicodipendenti, semplici fumatori come il sottoscritto e tante altre varietà di compulsati, non perdono tutte le loro qualità umane per la condizione di dipendenza in cui versano. Il soggetto in tali circostanze è ben vivo, anche se di solito se ne resta in un angolino a brontolare, senza riuscire a tirarsi fuori dal tunnel in cui s’è andato a cacciare.

Del resto, quando Gorz afferma che «chi agisce non è “Io”», tutto lascia pensare che si riferisca a fenomeni temporanei, non ad una sorta di possessione permanente.

Tuttavia, si deve riconoscere che, nel passo in cui argomentano in merito all’esistenza di una “natura umana” e alle sue tendenze, gli Skidelsky colpiscono nel segno, rivelando un nervo scoperto non solo in Gorz, ma in gran parte della sinistra marxiana, particolarmente in quella cresciuta nella cornice dell’idealismo filosofico. Escluderei del tutto l’ipotesi che Gorz si sarebbe difeso dalle obiezioni degli Skidelsky con l’argomento platonico dell’auriga che ho suggerito sopra. Probabilmente, come studioso dotato di attitudine e sensibilità sociologica, avrebbe insistito sulla forza della componente sociale del condizionamento, sui bisogni di status e di ruolo, forse avrebbe fatto riferimento al condizionamento culturale e religioso, a riti e miti, ma avrebbe sicuramente evitato ogni riferimento a qualsivoglia driver biologico del comportamento quali quelli che si studiano nei laboratori di psicologia sperimentale. Del resto, nel seguito di quell’intervista, Gorz non fornisce altre spiegazioni sulla questione del condizionamento e della produzione del consumatore, che pure aveva sostenuto essere stata così decisiva nell’evoluzione del suo pensiero. Racconta, invece, di come Sartre lo abbia illuminato nel suo percorso di ricerca e si sofferma a lungo sul come, questa sua consapevolezza dell’esigenza da parte del capitale di una crescita continua dei consumi, lo abbia reso un “ecologista ante-litteram”.
Inizialmente, mi sembrava singolare che Gorz potesse essere così fermamente convinto dell’esistenza di processi di manipolazione del comportamento e, allo stesso tempo, preferisse sorvolare su qualsiasi indagine empirica in grado di cogliere la natura di tali fenomeni. Nel tempo, mi sono reso conto che questo atteggiamento non è un’esclusiva di André Gorz. Al contrario, si tratta di uno dei segni distintivi del classico intellettuale marxiano mittleuropeo con formazione storico-filosofica. Il quale, occorre dirlo apertamente, non è esageratamente materialista come si è soliti sostenere ma, come vedremo, lo è troppo poco. La figura più rappresentativa di questo singolare modo di affrontare il problema della manipolazione della soggettività è proprio Jean Paul Sartre. Nella celebre introduzione al pensiero di Sartre scritta da Sergio Moravia nel 1979, c’è un paragrafo illuminante a tale riguardo, intitolato “Psicoanalisi esistenziale ed ermeneutica dell’uomo come soggetto libero”. Moravia chiarisce in quelle pagine come, per Sartre, la libertà umana avesse una tale rilevanza da spingerlo a rifiutare la teoria dell’inconscio 4.
Secondo la prospettiva di  Sartre, la psicoanalisi deresponsabilizza pericolosamente l’individuo:  negando il completo dominio della coscienza sul comportamento, la teoria dell’inconscio priva il soggetto della propria autonomia e della propria responsabilità. Si tratta, a ben guardare, di una posizione etica, una sorta di imperativo morale mosso dalla preoccupazione di tutelare il libero arbitrio come principio di responsabilità. Non si tratta di un concetto nuovo ma di quella che potremmo definire la concezione classica del soggetto. Un soggetto inteso come una struttura in cui l’autocoscienza e l’organizzazione della personalità coincidono perfettamente. Dopo Schopenhauer, Nietzsche e Freud, la si può considerare una concezione molto ingenua e oramai obsoleta.

Del resto m’è sempre parso vi fosse, in Sartre, una sorta di paternalismo intellettuale, di cui diede una prova clamorosa quando, durante il XX° congresso del Partito comunista dell’URSS (1956), vennero denunciati da Nikita Chruščëv i crimini di Stalin. Sartre, di fronte a evidenze che stavano ribaltando l’immagine idilliaca dell’ URSS che avevano gli operai, venne fuori con la famosa esclamazione “Il ne fat pas désesperer Billancour”. Per lui, non si sarebbero dovute rivelare agli operai della Renault (che aveva la sua sede più grande a Boulogne-Billancour) le nefandezze di Stalin, per evitare loro una cocente delusione. La posizione di Sartre su Billancour è stata considerata da molti una delle manifestazioni più eclatanti delle “doppie verità” tipiche dei partiti comunisti novecenteschi: una verità per i capi, e un’altra per la base. Una concezione che oggi, fatta salva una ristretta cerchia di cretini, è considerata la via maestra per arrivare rapidamente a nuovi Gulag e a nuovi Pogrom. Personalmente sono dell’idea che Sartre, in questo caso come in quello del suo rifiuto della teoria dell’inconscio, si preoccupasse meno di tutelare verità segrete che della stabilità psicologica di militanti che secondo lui, per svolgere i loro compiti politici, avrebbero dovuto conservare una salda integrità psicologica e morale.

In ogni caso, il fermo rifiuto da parte di Sartre della teoria dell’inconscio spiega perché Gorz abbia evidenziato così bene il problema della “produzione del  consumatore” senza tentare mai di approfondirlo adeguatamente. Oggi che sappiamo, con un ampio margine di certezza, che gran parte della manipolazione pubblicitaria avviene a livello inconscio, diviene indispensabile assumere una posizione del tutto inversa rispetto a quella del suo amico e maestro Sartre: lasciare le persone nell’illusione di essere invulnerabili alla persuasione, equivale ad arrecare loro un danno psicologico ben più grave di quello che deriva dal doloroso riconoscimento dei molti limiti dei nostri stati di (presunta) consapevolezza.

Del resto, gli Skidelsky hanno potuto muovere quella critica a Gorz perché la sua ipotesi della “logica automatizzata delle disposizioni sociali che agisce attraverso di me” non prevede alcun riferimento alla biologia del comportamento. Gorz, analogamente al suo maestro e amico Sartre, si muoveva nel solco dell’idealismo filosofico, secondo il quale non esiste natura umana. Di qui il paradosso che gli Skidelsky gli rimproverano: sostenere un controllo assoluto sull’individuo senza riconoscere che vi sia qualcosa, nell’individuo, che contribuisce allo stabilirsi di questo controllo esterno.

Quando gli Skidelsky scrivono che:  “è necessario che vi sia nella natura umana una qualche tendenza precedente su cui la pubblicità possa far presa” colgono nel segno. La persuasione o, se si preferisce, la manipolazione, non vengono dal nulla e non sono soltanto conseguenza di dinamiche sociali. Ma anche se si riconosce un’ importanza centrale a quella che Giovanni Jervis chiamava “l’imbarazzante presenza della materia nella nostra mente”, ciò non rende i manipolatori meno pericolosi. Né, sia chiaro, la presenza di meccanismi biologici innati costituisce una prova a favore della libertà e della completa autonomia dell’individuo come pare sostengano gli Skidelsky.  Al contrario, ci sono buone ragioni per sostenere che queste forme di controllo legate all’hardware biologico umano siano ben più coercitive ed elusive di quelle che hanno spiegazioni di carattere sociale. Il fatto che nella natura umana vi sia qualcosa su cui la pubblicità riesce a far presa non costituisce un argomento decisivo per la legittimazione della pubblicità. Contrariamente a quel che sembrano pensare gli Skidelsky, l’esistenza di meccanismi biologici di regolazione interna dei bisogni, non implica un automatico “affrancamento” dalla manipolazione e non rende il potere della pubblicità meno “misterioso”. Hanno ragione, dunque, gli Skidelsky a criticare l’approccio idealistico di Gorz, che interpreta ogni fenomeno in termini culturali, ma sbagliano nel pensare che l’esistenza di qualcosa di interno alla nostra specie che risponde in modo positivo alla pubblicità garantisca in qualche modo la nostra autonomia di scelta. È vero il contrario: la conoscenza approfondita di questi dispositivi biologici costituisce una delle ragioni per cui il potere della pubblicità è aumentato vistosamente negli ultimi cinquant’anni. In tal senso, questo testo è un modesto tentativo di ridurre l’ asimmetria informativa tra gli specialisti, che conoscono le evoluzioni di queste ricerche, e quanti invece, ignorandone del tutto l’esistenza, si espongono al rischio di cadere vittime di un gioco che sta diventando sempre più pericoloso.

Ancora una nota a questo riguardo: tutti gli argomenti discussi in questa “meditazione” meriterebbe degli approfondimenti sul piano filosofico. A partire dal principio del libero arbitrio e dalla sua funzione di regolazione sociale. Oppure, si potrebbe discutere all’infinito, in ambito marxiano, su quanto il filosofo di Treviri sia debitore di Feuerbach o di quanto si sia ispirato a Darwin. Ma questo è un testo divulgativo. Piuttosto che tediare chi legge con infinite diatribe teoriche, trovo preferibile fornire al lettore degli spunti che, se vuole, avrà occasione di approfondire personalmente. In tale spirito divulgativo va letto il capitolo seguente, che è una rassegna del tutto estemporanea di una serie di spettacolari ricerche sul controllo del comportamento, realizzate nella seconda metà del Novecento, colorata con qualche suggestione proveniente dal mondo della musica e del fumetto.

This species has amused itself to death

Nell’estate del 1963 a Cordova il neurologo spagnolo José Delgado si esibì in una spettacolare performance che, se fosse stato ancora vivo,  avrebbe fatto saltare sulla sedia Ernest Hemingway. Vestito da torero, Delgado affrontò un toro da corrida a cui aveva precedentemente impiantato un microelettrodo nel cervello. Mentre sventolava il drappo rosso, con un semplice click su un telecomando, respinse tutti i tentativi del possente animale di caricarlo. Alla notizia, il mondo restò con il fiato sospeso: la scienza stava iniziando ad indagare la possibilità di controllare a distanza il comportamento di un animale. Al di là  delle polemiche in cui Delgado venne coinvolto negli anni successivi per essersi fatto paladino, con i suoi impianti cerebrali, di una psichiatria da mattatoio, l’episodio ebbe una notevole presa sull’immaginario collettivo.

Un paio di decenni dopo, l’artista italiano Milo Manara diede alle stampe “Il gioco” un fumetto considerato all’unanimità un capolavoro dell’erotismo.  Ad una giovane donna era stato impiantato un dispositivo elettrico intracranico, ma questa volta, invece di paralizzare i suoi movimenti, il telecomando scatenava in lei incontenibili tempeste di desiderio erotico.

“Il gioco” suggeriva che, allo stesso modo in cui si poteva inibire un comportamento di un animale attraverso degli impulsi elettrici nel cervello, si sarebbe potuto ottenere l’effetto opposto e dunque scatenare voracità, rabbia irrefrenabile o, come nel celebre fumetto, imperiosi impulsi sessuali. Cosa che, del resto, era nota agli specialisti ben prima della performance spagnola di Delgado. In realtà, il più importante esperimento in questo settore avvenne in Canada nel 1954, lo stesso anno in cui Gorz leggeva quel famoso articolo sull’esigenza di aumentare i consumi a fronte degli aumenti della produttività.

Tra l’altro, si tratta di un esperimento noto per essere stato un caso esemplare di “serendipity” scientifica. Con questa espressione ci si riferisce alla capacità di trovare nuovi percorsi di ricerca, nuovi “insight” grazie a errori di laboratorio o a fatti del tutto accidentali. James Olds e Peter Milner stavano lavorando ad alcuni esperimenti sull’apprendimento nei ratti alla McGill University di Montreal sotto la guida scientifica di Donald Hebb. Agli animali da esperimento veniva impiantato un elettrodo intracranico nel tronco dell’encefalo. Lo scopo era quello di capire se la stimolazione elettrica della sostanza reticolare, un insieme di gruppi di neuroni che presiede agli stati di vigilanza, migliorasse o meno le prestazioni nell’apprendimento. Olds e Milner si accorsero che i ratti che avevano ricevuto la stimolazione elettrica tendevano a tornare nel punto in cui avevano ricevuto la piccola scarica. Questo, per i due esperti studiosi del comportamento animale, era un chiaro indicatore del fatto che la stimolazione aveva provocato delle sensazioni piacevoli nei roditori. Incuriositi da questo risultato inatteso, i due sperimentalisti scoprirono che l’elettrodo, per  errore, era stato impiantato a ben quattro millimetri di distanza dal punto in cui  sarebbe dovuto cadere. Il centro nervoso che era stato stimolato non apparteneva alla sostanza reticolare, ma a una regione ipotalamica, quella del setto pellucido. Le conseguenze del fortunato errore di Olds e Milner saranno incalcolabili. I due sperimentalisti avevano individuato accidentalmente quello che oggi chiamiamo il circuito cerebrale della gratificazione, la pietra angolare dell’indagine scientifica contemporanea su bisogni e motivazioni umane e animali.

In una serie di esperimenti successivi Olds e Milner dimostrarono che un ratto, messo nella condizione di autostimolare attraverso un dispositivo elettrico quell’area, sarebbe stato disposto a sottoporsi a qualsiasi tortura pur di poter ripetere ad libitum l’operazione di autostimolazione. Se questi ratti, cui viene data la possibilità di autostimolarsi i centri della gratificazione premendo una leva, vengono separati dal dispositivo di autostimolazione attraverso una griglia elettificata, una specie di pavimento attraversato da corrente a elevato voltaggio, sono sempre disposti ad attraversarla, sottoponendosi a scariche elettriche violentissime, pur di ottenere il controllo del dispositivo. Scariche di un’intensità tale che, come è stato dimostrato, in altre circostanze non sarebbero disposti a subire, neanche per raggiungere un delizioso pezzo di formaggio dopo giorni interi di completo digiuno. Non di rado, nel corso di questi esperimenti, gli animali spendono ogni energia nella pressione della leva, fino a morirne: “Heroes”. Strano che Seligman non abbia scelto questo esperimento per la sua indagine sui soggetti resilienti che non si arrendono mai. Ma è evidente che ci troviamo, anche questa volta, alle prese con il problema dell’ipereccitazione, della ricerca di una prestazione sfrenata da  parte di un animale da  esperimento. La differenza è che qui non abbiamo a che fare con un oggetto del desiderio, con un qualche tipo di stimolo imperioso e  coercitivo, ma con il desiderio allo stato puro, ridotto a un circuito chiuso, catturato dagli scienziati nel loop della sua dinamica di produzione e consumo e collocato, per così dire, in “provetta”. Da quel lontano 1954, le ricerche su quest’area cerebrale non si sono mai interrotte. Si tratta  di una delle parti del cervello più indagate dalle neuroscienze negli ultimi quarant’anni.

Pensando al ratto che si autostimola fino a morirne, tornano alla mente le parole di una splendida canzone di Roger Waters,  “Amused to death”, (che tra l’altro dà il titolo al terzo album da solista dell’ex Pink Floyd), dove Waters descrive la sconsolata diagnosi di un gruppo di antropologi alieni in visita alla terra dopo l’estinzione del genere umano:

and then the alien anthropologist
(e poi, gli alieni antropologi)
admitted they were still perplexed
(ammisero di essere ancora perplessi)
but on eliminating every other reason
(ma dopo aver eliminato ogni altra ragione)
for our sad demise
(per la nostra triste dipartita)
they logged the only explanation left
(sostennero l’unica spiegazione rimasta)
this species has amused itself to death
(questa specie si è divertita a morte)

 

Giuseppe Nicolosi

  1. André Gorz, Ecologica, Jaca Book, 2009.[]
  2. Robert Skydelsky, Edward Skidelsky, Quanto è abbastanza, Mondadori, 2013.[]
  3. Platone, Dialoghi, Giulio Einaudi Editore, 1970.[]
  4. Sergio  Moravia, Introduzione a Sartre, Laterza, 2004.[]
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