Tra pochi giorni si terrà in Egitto, in un paese senza la minima parvenza di democrazia e giustizia, la prossima COP 27, per discutere e decidere azioni per il contrasto ai cambiamenti climatici.
Nell’esprimere il massimo disappunto per la scelta di tenere in quel luogo l’incontro, e auspicando che i diversi paesi ed in particolare il nostro, che ha avuto recenti gravi questioni non risolte con le autorità egiziane (vedi il caso di Giulio Regeni o di Patrick Zaki), è necessario fare il punto sulla situazione ambientale.
I segnali che ci sono arrivati in questo ultimo anno sono inequivocabili; in tutto il Pianeta si moltiplicano gli effetti del riscaldamento globale, come siccità, inondazioni, incendi, scioglimento dei ghiacci. Nel contempo aumentano, nel mondo, i conflitti, le diseguaglianze e la fame.
A parte il breve periodo relativo alle chiusure di molte attività produttive a causa dell’epidemia di Covid, in cui si è misurata una riduzione delle emissioni, queste sono di nuovo aumentate, non solo a causa della guerra in Ucraina, ma, soprattutto a causa delle mancate scelte.
Siamo, quindi, ancora molto lontani dal raggiungere gli obiettivi fissati nel 2015 a Parigi per contrastare i cambiamenti climatici: non è partito alcun “percorso credibile” per limitare il riscaldamento del Pianeta alla soglia di 1,5 gradi. Anzi, anche a causa della guerra in Ucraina (ma non solo), si riaccendono le centrali a carbone per produrre energia.
Questa chiara bocciatura arriva dall’Emissions Gap Report 2022, pubblicato dal Programma ambiente delle Nazioni Unite (Unep). Il report misura la distanza tra le emissioni di gas serra previste al 2030 e gli obiettivi fissati per evitare i peggiori scenari dell’emergenza climatica.
Inger Andersen, direttore dell’Unep, ha infatti detto “Questo rapporto ci dice in termini scientifici ciò che la natura ci ha detto tutto l’anno attraverso inondazioni mortali, tempeste e incendi violenti: dobbiamo smettere di riempire la nostra atmosfera di gas serra e smettere velocemente”, aggiungendo: “Abbiamo avuto la nostra possibilità di fare cambiamenti progressivi, ma quel tempo è finito. Solo una trasformazione radicale delle nostre economie e delle nostre società può salvarci dall’accelerazione del disastro climatico”.
Una “TRASFORMAZIONE RADICALE”, questo è quello che ci serve!
Una messa in discussione dei modelli produttivi e dei modelli di consumo, una rivoluzione del modello di trasporto delle persone e delle merci. Tutto ciò non può naturalmente avvenire in un mondo governato dal modello liberista, in cui, il cosa produrre e il come e il costo dei vari beni (anche quelli essenziali alla vita delle persone) sono decisi dalle speculazioni finanziarie.
Ma quale è stata la storia dei vari vertici mondiale e dei diversi accordi prese da 30 anni ad oggi? È stato mai messo in discussione il modello socio economico che ci sta portando alla catastrofe? È utile un breve excursus storico.
Un momento cruciale da tenere come riferimento è quello di Rio de Janeiro, nel maggio, 1992, in cui 50 paesi firmarono il trattato di Rio (poi ratificato nel 1994). La storia delle COP (Conference of the parties), le conferenze sul clima dei paesi che hanno aderito alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici parte da qui. Già in quegli anni la discussione su come limitare le emissioni di gas ad effetto serra si fa subito accesa, con una netta divisione tra paesi industrializzati (i maggiori responsabili delle emissioni) e paesi in via di sviluppo, quelli che, peraltro, soffrono di più le conseguenze del riscaldamento globale.
Nel dicembre 1997, nel corso della terza conferenza sul clima, viene adottato il Protocollo di Kyoto. Per la prima volta viene imposto un obbligo di riduzione delle emissioni di CO2 in atmosfera ai paesi più ricchi e più responsabili. La riduzione globale media doveva essere pari al 5 % entro il periodo 2008-2012, rispetto ai livelli che si erano registrati del 1990.
Il protocollo entra in vigore nel febbraio 2005, dopo alla ratifica della Russia, fondamentale dopo l’addio degli Stati Uniti operato dal presidente George W. Bush all’inizio degli anni 2000.
In seguito nelle varie COP, tenutesi con esiti incerti (Bali nel 2007, Doha nel 2012) e talora fallimentari, (come quella tenutasi a nel 2009 a Copenaghen che avrebbe dovuto adottare un nuovo trattato) si arriva finalmente alla COP21 tenutasi a Parigi nel 2015 che dà vita a un accordo globale storico per contrastare i cambiamenti climatici. 196 paesi, quasi la totalità della comunità internazionale, decisero di impegnarsi per mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2 gradi centigradi (possibilmente 1,5). Ma, l’accordo su base volontaria, non mette in discussione il modello economico e non interviene abbastanza per “compensare” a sufficienza i paesi meno industrializzati e in via di sviluppo.
Da allora, dopo alcune conferenze che potrebbero essere definite poco significative o quasi fallimentari (ad esempio quelle di Bonn, di Madrid o l’ultima tenutasi a Glasgow nel 2021), siamo arrivati ad oggi. Ad esempio, a Glasgow, pur riconoscendo la necessità di arrivare ad emissioni 0 entro metà secolo per riuscire a raggiungere l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura media mondiale entro 1,5°, non si è arrivati a definire gli interventi da mettere in atto per raggiungere quegli obiettivi, e, soprattutto, non si sono risolti i problemi derivanti dal rapporto tra paesi ricchi che hanno dominato il mondo negli ultimi secoli e le nuove potenze mondiali, o quelli più poveri.
In sostanza non si affrontato seriamente il concetto di “responsabilità comune ma differenziata”. Non si è affrontato il fatto che i paesi che definiamo “occidentali” o industrializzati hanno sulle loro spalle la responsabilità pressoché totale della situazione odierna. Questi paesi che rappresentano solo il 12 per cento della popolazione globale, hanno causato circa la metà delle emissioni dal 1850 ad oggi, ciò grazie anche allo sfruttamento dei paesi più poveri. Tutto questo lo hanno fatto spesso anche con l’esportazione dell’inquinamento delle produzioni che a loro hanno necessitato. Per comprendere meglio la situazione, vale la pena di ricordare che, ancora oggi nel 2020, le emissioni pro-capite annue di un americano sono di 14,2 tonnellate di CO2, di un tedesco 7.7, di un italiano 5, e di un francese 4,3. Mentre quelle di un cinese (dove si producono un sacco di merci che compriamo anche noi) sono 7,4 tonnellate. E quelle dei tanto criticati indiani (che devono bruciare carbone) sono solo di 1,8 tonnellate di CO2. Va ricordato che gli indiani sono 1,5 miliardi di persone e un terzo di questi, cioè un numero di persone paragonabile all’intera popolazione dell’Europa, vive al di sotto della soglia di povertà. Vale la pena di ricordare, inoltre, che l’emissione pro-capite di paesi più poveri come quelli dell’Africa sub-sahariana è di circa 0,1 tonnellate all’anno!
Insomma c’è un presupposto di fondo e un nodo fondamentale per garantire una transizione ecologica ed efficace.
Il presupposto è quasi banale: c’è bisogno di giustizia e solidarietà. C’è bisogno che i paesi che si sono arricchiti sulle fonti fossili e sulle spalle del resto del mondo, oltre ad agire di più e prima degli altri, destinino una parte consistente dei profitti accumulati, proprio verso “quel” resto del mondo che per secoli è stato depredato delle risorse naturali e che ora soffre le conseguenze peggiori della crisi climatica. Questo trasferimento di soldi e tecnologie deve garantire una transizione equa, giusta, che non lasci indietro nessuno, come del resto, anche specificato formalmente nel testo dei vari patti siglati.
Naturalmente, il nodo rimane, come già detto all’inizio, quello del cambio del modello socio economico, mettendo in discussione i concetti di base che caratterizzano le nostre società, come ad esempio il modello di trasporto di persone e merci (non è con l’auto elettrica che si risolvono i problemi ambientali, quelli della mobilità e quelli del vivere in città), o quello del modello alimentare basato sull’agricoltura e l’allevamento industrializzato, o quello dell’uso del suolo, o più in generale il come produrre e il come.
Per questi motivi, oltre a disertare gli incontri ufficiali della COP27 che si terrà in Egitto, per i motivi citati in premessa, bisogna dar forza ad iniziative collaterali per far sì che da subito le discussioni e le azioni vadano nella giusta direzione. Ciò vale per la COP27 e per le COP future e per tutti i momenti di confronto politico, per cercare di condizionare le politiche nazionali e internazionali.
Riccardo Rifici