articoli

L’Unione in rotta balcanica

di Tommaso
Chiti

Da sempre i Balcani sono il tasto dolente del quadro geopolitico europeo.

Non occorre tornare ai fatti di sangue che prestarono il fianco al primo conflitto mondiale, anzi, rispetto alla retorica dell’Unione Europea come ‘potenza di pace’, spesso la stessa reputazione si infrange proprio ai confini orientali, con le guerre di spartizione, che hanno dilaniato l’area negli anni ’90.
Soltanto la nascita della Yugoslavia dalla Resistenza alle occupazioni nazifasciste ha infatti garantito una convivenza pacifica e plurale apparentemente duratura.

Oggi alla cortina di ferro che separava il blocco atlantico da quello filo-sovietico, si sono sostituite tante frontiere nazionaliste altrettanto armate, per respingere i flussi migratori prevalentemente asiatici lungo la “rotta balcanica” appunto.

Con l’allargamento europeo deciso alla conferenza di Salonicco del 2003, che aveva aperto la strada all’integrazione di Slovenia, Slovacchia e Croazia, oltre a Romania e Bulgaria, le prospettive per l’intera regione sembravano quelle di avvicinamento all’alveo continentale dell’Unione.
In realtà, nell’ultimo decennio il tentativo più degno di nota per l’integrazione dei paesi balcanici all’Unione Europea è stato il cosiddetto “processo di Berlino”, la cui prima conferenza si è tenuta nella capitale tedesca nell’agosto 2014, senza che da allora i negoziati abbiano di fatto poi apportato progressi significativi.

Lo scorso 10 maggio il Consiglio Europeo dei Ministri degli Esteri ha discusso la situazione dei Balcani Occidentali sulle prospettive di rafforzamento della cooperazione nella regione, aggravata da nazionalismi persistenti, debole sviluppo economico e ampio disappunto sulla dissolvenza delle prospettive di adesione all’UE.
Quello della cooperazione regionale è un obiettivo ambizioso, a cui è stato dato molto rilievo soprattutto a causa dello stallo politico in cui è finito il processo di allargamento, soprattutto dopo che dal 2008 la povertà diffusa – ad eccezione forse della Serbia – barriere non-tariffarie e scarsa logistica e connettività hanno minimizzato i vantaggi dell’integrazione regionale.

In questi vent’anni è stata lanciata una moltitudine di iniziative che riguardano il commercio estero, gli investimenti e le infrastrutture, come gli accordi bilaterali di libero scambio (FTA) sottoscritti a partire dal 2002 tra paesi dei Balcani occidentali per l’incremento del commercio regionale, fino ad appena il 14%. Un risultato anche inferiore a quello del commercio intra-regionale, incrementato del 37% circa, dopo l’introduzione del Central European Free Trade Agreement (CEFTA) nel 2007, senz’altro più incisivo nel tentativo di aumentare la competitività, la ricostruzione del mercato regionale e l’aumento del flusso di merci.
Sotto il profilo economico, al netto delle ricadute della pandemia da Covid19, gli Accordi di Stabilizzazione e Associazione (ASA) hanno garantito un aumento delle esportazioni verso l’UE del 24,6%, mentre la quantità di investimenti diretti esteri (IDE) dall’Unione in questi paesi è aumentato del 46,2%, in parte soddisfacente, sebbene non paragonabile agli investimenti diretti esteri recepiti invece dai paesi di ‘Visegrad‘.
Le lacune aumentano sul piano delle infrastrutture, per cui l’inclusione di molti stati balcanici alle reti europee TEN-T e TEN-E per i collegamenti viari e l’approvvigionamento energetico, non hanno di fatto inciso sulle basse densità autostradali e ferroviarie, peraltro di scarsa qualità; o sulle interruzioni della fornitura di energia elettrica e sulla scarsa efficienza della rete in alcuni paesi; così come sulle infrastrutture digitali ancora poco sviluppate.

La convinzione che la sicurezza dell’Unione passi dalla stabilità nell’area balcanica e dal processo di adesione degli stati all’UE sembra una posizione condivisa ma aleatoria.
In generale le aspettative di integrazione sono ostacolate da lungaggini procedurali e condizioni ritenute eccessivamente stringenti sullo stato di diritto, che rischiano di suscitare l’effetto opposto, rinfocolando pulsioni nazionaliste. Secondo la posizione del Consiglio Europeo “la percezione diffusa di carenze nel processo di integrazione all’UE, che garantirebbe spazio di coesistenza alla pluralità di identità, rischia appunto di scatenare nuove derive”.

Uno dei casi critici è dovuto all’insistenza della Bulgaria di bloccare le negoziazioni per l’accesso della Macedonia del Nord dallo scorso autunno, con pretesti di tipo linguistico e culturale. Lo scorso novembre Sofia ha posto il veto all’avvio dei negoziati di adesione di Skopje sulla base di controversie culturali e di interpretazioni giudicate “lesive e distorte” di alcune vicende storiche, accusando inoltre la classe dirigente macedone di bloccare progetti sulle infrastrutture, relativi ad accordi bilaterali sul buon vicinato, firmati nel 2017.

In questo senso va anche l’appello a Serbia e Kosovo – l’ex-provincia che dal 2008 ha dichiarato l’indipendenza – ad accelerare gli sforzi per un accordo generale sulla normalizzazione delle relazioni, dato che entrambi i paesi sembrano avere un solido consenso nelle rispettive maggioranze politiche.
La Serbia è entrata nel processo di adesione all’Unione in modo efficace. Ha ottenuto lo status di candidato nel 2012, ha avviato i negoziati nel 2014, ha aperto 18 dei 34 capitoli e ne ha chiusi due.

Tuttavia il mancato riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo rappresenta un problema insormontabile.
Il presidente kosovaro Hashim Thaçi ed il presidente del Partito democratico del Kosovo al potere sono stati da poco accusati dalla Procura Speciale per il Kosovo al Tribunale dell’Aja di essere “penalmente responsabili per la morte di quasi mille persone” in seguito a fatti che si sarebbero svolti tra il gennaio 1998 e il dicembre 2000, durante e subito dopo la guerra d’indipendenza, in un periodo segnato dai regolamenti di conti politici ed etnici.
Nella confinante Albania la vittoria schiacciante di Edi Rama capitalizza il radicamento dei socialdemocratici negli apparati statali dopo due mandati; con le loro strette relazioni con la classe dirigente, diretta beneficiaria delle riforme neoliberiste e dell’escalation di partenariati pubblico-privati, che hanno ipotecato la continuità di governo, a fronte però di crescenti tensioni sociali in un quadro economico duramente provato dalla pandemia.
L’intento dei Ministri degli Esteri dell’UE sembra quello di rilanciare la cooperazione, combinando il progressivo allineamento ai principi europei con un maggior impegno sulla governance di processi epocali, come i cambiamenti climatici e la digitalizzazione.

Secondo quanto riportato dall’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’UE, Josep Borrell, però un altro elemento critico deriva dalla difficile convivenza delle diverse enclave in Bosnia-Erzegovina, dove – dalla fine del conflitto nel 1995 – il ricorso a dichiarazioni e mire divisive ha subito un’accelerazione nelle recenti elezioni presidenziali, invece di fare progressi in senso riformista. La crisi in Bosnia-Erzegovina nasce dai problemi derivanti da una società disintegrata, anche per l’assetto istituzionale frammentato, in cui la federazione composta da due entità indipendenti – quella croato-bosniaca e la Repubblica di Srpska – di fatto non garantisce operatività e stabilità, in una rotazione di presidenze fra bosniaci, croati e serbi, che spesso si traduce in farraginosi processi legislativi. In questo stato plurinazionale e multireligioso le relazioni interne sono dominate da animosità, conflitti e disaccordi alimentati di proposito.

Ad esacerbare i rapporti è stata la pubblicazione dell’ennesima ‘posizione informale’ sui Balcani Occidentali, già al centro di confronti serrati durante la scorsa presidenza croata dell’Unione nel 2020 e nuovamente riaccesa ora con una velina sulla “via da seguire”, diramata dall’entourage del premier sloveno Janša, a proposito di controverse modifiche dei confini per la “disintegrazione finale dell’ex Yugoslavia”.

La ‘dissoluzione pacifica’ della Bosnia-Erzegovina così come pare sia stata discussa nella riunione di Presidenza tripartita lo scorso marzo suona abbastanza inquietante, tanto da animare nuovamente vecchi dissidi.
La consuetudine dei dispacci confidenziali fra le istituzioni europee già in passato ha delineato spunti di discussione su temi spinosi, in via preliminare per posizioni comuni del Consiglio Europeo. Rispetto ai Balcani Occidentali alcune delle ‘soluzioni’ trapelate riguarderebbero l’unificazione di Kosovo e Albania e come contropartita, l’integrazione della Repubblica Srpska con la Serbia, di fatto riallineando i confini lungo suddivisioni su base etnica, riprendendo status di province autonome, come ad esempio quella del Sud-Tirol.
Fra i firmatari di questi dispacci figurano Slovenia, Bulgaria, Cipro, Grecia ed Ungheria; un dettaglio tutt’altro che secondario, specie se si considera che la prima della lista sarà incaricata della presidenza semestrale dell’Unione dal prossimo mese di luglio.
Al silenzio assordante delle istituzioni europee su queste indiscrezioni, alcuni deputati dei Verdi, Tineke Strik e Viola Taubadel, hanno stigmatizzato simili tentativi di esacerbare divisioni etniche parlando di “attacchi di nazionalisti serbi e croati per dividere ulteriormente il paese verso la sua dissoluzione, invece che promuovere riforme altamente necessarie, implementando le richieste della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”.
La “promessa di Salonicco” ormai datata oltre sedici anni fa si è trasformata allo stato attuale in una sorta di dinamica politica “controeuropea”.

In questo contesto pesa la realtà globale, profondamente cambiata: dalle nuove relazioni tra Stati Uniti ed Europa al fattore russo, dal ruolo della Turchia – che cerca di riconquistare l’ascendente imperiale ottomano, con influenza culturale e religiosa a Sarajevo ed economica a Belgrado – agli sviluppi in Medio Oriente, dalla questione dei migranti alla “riorganizzazione” delle relazioni all’interno dell’Unione e ai suoi confini. In questo scacchiere si è mossa anche la Cina con il progetto delle “Nuove Vie della Seta”, che hanno rilanciato la cantierizzazione di opere infrastrutturali, legando paesi come il Montenegro alla cosiddetta “trappola del debito” con Pechino.

Le recenti tornate elettorali locali a Zagabria e non solo con l’affermazione del raggruppamento di sinistra ‘MOZEMO!’ (‘Insieme si può’ ndr.) sembrano riuscire a svecchiare l’internazionalismo antifascista yugoslavo, soprattutto nella messa in discussione delle privatizzazioni inique e dell’adesione scriteriata all’atlantismo. Tuttavia, un simile barlume di speranza non sembra schiarire le dense nubi sulla rotta balcanica dell’UE che, dal canto suo non può dirsi davvero ‘portatrice di pace, prosperità e sicurezza’ se prima i Balcani Occidentali non ne diverranno parte integrante.

Fonti:

http://www.mvep.hr/print.aspx?id=2222&itemId=36444&lang=2.

https://www.consilium.europa.eu/it/infographics/western-balkans-economy/.

https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/168/i-balcani-occidentali.

https://www.rosalux.de/news/id/44271/rama-festigt-seine-macht?cHash=cea9912ee782c340793c75af79673a81&pk_campaign=NewsletterEuropa&pk_medium=Mai+2021.

https://www.balcanicaucaso.org/Transeuropa/Sfide-bisogni-e-potenzialita-della-regione-Adriatico-Ionica.

https://www.rosalux.de/news/id/42660/alternative-fuer-den-balkan?cHash=73f1202921b970fc7ad62162f307cf11.

Balcani
Articolo precedente
Il sapere della libertà
Articolo successivo
L’Etiopia sta implodendo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.