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L’Etiopia sta implodendo

di Alessandro
Scassellati

Una tragica guerra, gravi atrocità e un disastro umanitario nello Stato regionale del Tigray, così come gli omicidi e gli sfollati negli Stati regionali del Benishangul-Gumuz, dell’Oromia occidentale e dello Stato dei Popoli Meridionali, stanno avvolgendo l’intero Paese nell’insicurezza. La pandemia da CoVid-19, un’economia martoriata dai debiti, negoziati tesi sulla diga del Grande Rinascimento etiope con il Sudan e l’Egitto e una disputa sul confine con il Sudan aggiungono dimensioni più complesse all’avvicinarsi delle elezioni legislative e regionali dei 5 giugno.

La guerra civile in Tigray continua

A metà dicembre 2020 avevamo cercato di formulare una prima analisi dello scenario e dei processi politici che hanno portato allo scoppio della guerra civile in Etiopia, combattuta in Tigray, uno Stato regionale montano confinante con Sudan ed Eritrea con circa 6-7 milioni di abitanti. Da un lato ci sono le forze militari del governo federale, guidato dal premio Nobel per la Pace 2019, Abiy Ahmed, insieme a milizie di etnia Amhara e all’esercito dell’Eritrea, e dall’altro il governo, le milizie e la popolazione civile dello Stato regionale del Tigray, che fino al 28 novembre era guidato da Debretsion Gebremichael, presidente del Fronte di Liberazione dei Popoli Tigrayani (TPLF), la forza politica che ha guidato l’Etiopia per oltre un quarto di secolo, dopo averla liberata dalla dittatura del regime comunista di Menghistu nel 1991, insieme al Fronte di Liberazione Eritreo.

Il 28 novembre, a 24 giorni dall’inizio dei combattimenti, dopo che Macallè, la capitale dello Stato regionale del Tigray, era stata messa sotto controllo dall’esercito federale, Abiy aveva affermato di avere vinto la guerra contro la “cricca” trigrina. Ma, solo una piccola parte dei dirigenti del TPLF sono stati uccisi o catturati, mentre la gran parte è entrata in clandestinità. Così Abiy e le forze della sua coalizione militare – comprendenti forze speciali federali, soldati eritrei e milizie Amhara – da gennaio 2021 si sono trovate a dover combattere contro guerriglieri invisibili che non possono essere sottomessi del tutto. Ad inizio aprile Abiy ha dovuto ammettere che sconfiggere “un nemico che si nasconde” e combatte una guerriglia “mescolandosi con gli agricoltori” nei villaggi rurali come “farina che si disperde al vento” sarà “molto difficile e faticoso“. E, mentre la guerra si trascina, il bilancio delle distruzioni e vittime aumenta, anche per mancanza di cibo, medicine e cure mediche. Le ONG e le agenzie dell’ONU accusano la coalizione di aver provocato l’emergenza umanitaria e la carestia chiudendo le strade e distruggendo raccolti e bestiame.

Mathias I, il patriarca della Chiesa copta ortodossa etiope (che ha circa 36 milioni di fedeli), è stato uno dei pochi in Etiopia a criticare apertamente la guerra in Tigray. In un video pubblicato online il 7 maggio ha condannato la “barbarie” e “il tentativo di cancellare i tigrini dalla faccia della Terra”. Il Tigray è la culla del cristianesimo africano e ha un patrimonio millenario di chiese e monasteri che, come più volte documentato, è stato bombardato e saccheggiato dall’esercito federale e dai suoi alleati (ad esempio, i monasteri e chiese di Axum, Debre Dammo e Assimba). Secondo Mathias I, che appartiene al gruppo etnico tigrino, le forze governative etiopi e i loro alleati stanno commettendo un genocidio nel Tigray: “ciò che sta accadendo è lo sterminio del popolo, soprattutto di civili innocenti; i soldati armati stanno andando nelle città, nei villaggi e nelle proprietà private, uccidendo deliberatamente i giovani, gettandoli in un burrone, per esempio, come accadde a Mahbere Dego, privando loro della dignitosa sepoltura anche dopo averli uccisi”. Mathias I ha chiesto un intervento internazionale urgente. Ha aggiunto anche che i suoi appelli sono stati “censurati” (“la mia bocca è stata imbavagliata”) dalle autorità statali (che lo terrebbero agli arresti domiciliari d Addis Abeba). Alcuni vescovi (di etnia Amhara) non hanno condiviso le dichiarazioni del patriarca, nonostante circa 80 religiosi siano stati uccisi dall’inizio della guerra in Tigray e che i monaci eremiti di etnia Tigray siano stati cacciati dal monastero di Waldba dagli Amhara. Dal patriarca ha preso le distanze il Segretario generale del sinodo della Chiesa ortodossa etiope, l’arcivescovo di Sidama e Gedeo Yoseph, il quale in dichiarazioni riprese dai media governativi ha detto che le affermazioni di Sua Santità non erano state approvate dal Sinodo ed erano dunque opinioni personali. La questione, ha aggiunto, verrà trattata alla prossima assemblea generale. Si evidenzia dunque anche una spaccatura tra Tigray ed Amhara nella principale istituzione religiosa etiope.

Di fatto, il nord del Tigray è finito sotto il controllo dell’esercito eritreo (con i soldati che indossano le loro uniformi oppure quelle dell’esercito federale etiopico), mentre la parte occidentale e meridionale della regione è sotto il controllo delle forze speciali e dalle milizie Amhara che fanno capo al grande Stato regionale vicino. Solo la parte centrale del Tigray è sotto il controllo dell’esercito federale e del governo ad interim regionale, ora guidato dalla filiazione tigrina del Partito della Prosperità. Una situazione che ha reso metà della regione inaccessibile per i continui scontri armati tra le forze regionali di difesa tigrine e le truppe federali etiopi e i loro alleati eritrei e Amhara. Una situazione militare sul terreno che fa presagire la possibile spartizione dello Stato regionale del Tigray in tre porzioni.

Le dimensioni della catastrofe umanitaria

L’emergenza umanitaria si è tramutata in una catastrofe a partire dai primi di aprile, quando il conflitto armato è tornato a incendiare tutta la regione settentrionale etiope, con scontri violentissimi vicino al confine eritreo e nella zona centrale tra Adigrat e Adua. Ci sono stati massacri di civili da parte della coalizione federale in diversi centri (ad Adigrat, Mahbere Dego, Debre Abay, Bora Selowa, Adi Hageray e Chercher). I soldati di Addis Abeba e dell’Asmara hanno continuato ad uccidere sistematicamente i maschi per impedirne l’arruolamento nelle forze di difesa tigrine, impedendone la sepoltura. Secondo l’agenzia ONU, OCHA, donne e medici del Tigray, nonostante denunce e condanne da parte di governi e istituzioni internazionali, sono continuati gli stupri etnici di massa da parte dei soldati etiopici, eritrei e Amhara.1 Al tempo stesso, secondo il TPLF, i guerriglieri delle forze di difesa del Tigray avrebbero ucciso 12.750 soldati etiopi ed eritrei in imboscate e attacchi nella prima metà del mese di aprile.

Le strade sono state parzialmente chiuse e solo l’area attorno a Macallè è rimasta relativamente tranquilla. La popolazione si è trovata senza cibo e acqua. Gli acquedotti sono stati colpiti e la corrente elettrica staccata. Le scuole, le università e gli ospedali sono stati saccheggiati o distrutti, così come le fattorie e le fabbriche. Prima della guerra, il Tigray rappresentava poco meno del 10% dell’economia nazionale e produceva un terzo delle esportazioni di sesamo dell’Etiopia, per un valore di quasi 350 milioni di dollari all’anno, un decimo delle esportazioni totali. Da allora, sono fuggiti o sono stati uccisi decine di migliaia di agricoltori, abbandonando il raccolto.

Gli aiuti umanitari hanno potuto raggiungere solo la metà circa dello Stato regionale. Dei sei milioni di tigrini, almeno un milione e 300 mila hanno bisogno urgente di assistenza. Solo 700 mila tigrini vivono in aree accessibili, oltre 3 milioni in zone parzialmente accessibili e oltre 500 mila in distretti inaccessibili. Circa 300 mila persone sono rimaste senza assistenza dal 4 novembre, inizio del conflitto.

L’Etiopia è finita sotto attacco all’ONU per i crimini di guerra commessi dalle forze militari della coalizione federale. Mark Lowcock, sottosegretario generale ONU agli Affari Umanitari, ha denunciato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (15 aprile), che la situazione umanitaria nella regione al confine con l’Eritrea era assai grave e che non c’erano prove del ritiro delle truppe eritree dalla regione settentrionale del Tigray. Ritiro che era stato promesso a fine marzo dal premier Abiy, il quale fino ad allora ne aveva continuamente negato la presenza. Il relatore speciale dell’ONU sulla violenza sessuale nei conflitti armati Pramila Patten ha inoltre dichiarato, sempre in Consiglio di Sicurezza, che la violenza sessuale a cui erano sottoposte le donne nel Tigray aveva raggiunto “un livello di crudeltà impossibile da comprendere“, il numero reale degli sfollati era sconosciuto e la risposta umanitaria inadeguata.

Il Segretario di Stato USA Antony Blinken ha definito quanto sta accadendo “pulizia etnica”, un’accusa che il governo etiope respinge. L’ambasciatore USA all’ONU Linda Thomas-Greenfield ha esortato l’Eritrea a ritirare “immediatamente” le proprie truppe dal Tigray. “Siamo inorriditi dalle notizie di stupri e altre indicibili e crudeli violenze sessuali che continuano a emergere“, ha dichiarato.

In aprile, l’amministrazione Biden ha nominato inviato speciale per il Corno d’Africa Jeffrey Feltman, un ex diplomatico esperto (ma pensionato) che è stato ambasciatore in Libano e ha lavorato per l’ONU. Feltman ha dichiarato che la guerra del Tigray va fermata, perché ha il potenziale per creare una spirale che può far esplodere una crisi regionale simile a quanto successo con la Siria.2 Solo che “l’Etiopia ha 110 milioni di persone” – ha detto – “se le tensioni si traducessero in un conflitto civile diffuso che va oltre il Tigray, la Siria sembrerà un gioco da ragazzi al confronto“.

Nel mese di gennaio, l’Unione Europea ha sospeso 88 milioni di euro di aiuti al bilancio etiope finché le agenzie di assistenza non potranno entrare nel Tigray. A fine marzo l’UE ha mandato come inviato speciale in Etiopia il ministro degli esteri finlandese Pekka Haavisto, il quale ha indicato la via del dialogo non conflittuale con Addis Abeba.

L’Italia, Paese con legami molto stretti con l’Etiopia (secondo partner commerciale UE e il nono mondiale, senza contare i legami storici, quelli con società civile e ONG costruiti in decenni di cooperazione e il ruolo della Chiesa cattolica), ha inviato aiuti sanitari ed alimentari alle popolazioni attraverso UNHCR e Croce Rossa, e ha chiesto una indagine indipendente dell’Alto commissario per i diritti umani di Ginevra sui crimini contro l’umanità registrati dall’inizio del conflitto e documentati da organizzazioni come Amnesty International e dalla Commissione per i diritti umani etiope. Al tempo stesso, ha continuato a dialogare con il governo etiope al quale ha chiesto processi di riforma e riconciliazione.

Difficile che in tempi brevi vi sia un intervento internazionale decisivo. L’Unione Africana si è dimostrata inefficace, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ancora di più. I ministri degli esteri del G7, riunitisi a Londra, si sono prodigati per evitare di turbare la vita del governo di Abiy, che continuano a considerare come un alleato strategico piuttosto che un attore problematico. “Condanniamo l’uccisione di civili, lo stupro e lo sfruttamento sessuale e altre forme di violenza di genere“, ha affermato il comunicato del G7. Ha dato il suo sostegno ad un’indagine sulla violazione dei diritti umani, ha chiesto un cessate il fuoco e un migliore accesso umanitario, e ha sollecitato “un processo politico chiaro e inclusivo nel Tigray“. Ma, le pressioni dirette su Abiy, come la minaccia di sanzioni e tagli agli aiuti, e l’azione concertata e collettiva per trovare e perseguire i responsabili legali di atrocità e stupri di massa sono state del tutto assenti. È stato un inizio debole per la presunta “alleanza delle democrazie” del presidente degli Stati Uniti Joe Biden.

Il mantenimento dell'”unità e integrità territoriale” dell’Etiopia sembra essere la principale preoccupazione dell’Occidente. Tuttavia, sotto la leadership divisiva di Abiy, gli scontri letali tra i gruppi etnici Oromo e Amhara si stanno intensificando, per cui la violenza politica colpisce ormai diversi Stati regionali. Una possibile guerra con l’Egitto e il Sudan appare una possibilità incombente a seguito della non risoluzione della disputa sul riempimento della nuova diga etiope sul Nilo Azzurro. E il 5 giugno, elezioni legislative e regionali mal preparate, boicottate e non monitorate (l’Unione Europea, che pure ha donato oltre 20 milioni di euro affinché si tenessero, ora ha rinunciato a inviare una missione di osservazione elettorale per questioni legate alla sicurezza degli inviati, i sistemi di comunicazione e l’indipendenza della missione), che Abiy promette di vincere, potrebbero alienare ulteriormente il consenso degli etiopi per il governo e per il partito che lo sostiene.

I costi economici della guerra sono disastrosi. La vita degli etiopici era migliorata tra il 2000 e il 2016. La percentuale di etiopici che non potevano permettersi di comprare un paniere di cibo contenente il minimo di calorie di cui hanno bisogno è scesa dal 44% al 24%. Ora, questi progressi enormi conseguiti nel secondo Paese più popoloso dell’Africa sono in pericolo. Gli alleati come la Cina, la Russia e, soprattutto, i Paesi del Golfo possono aiutare a ridurre i debiti del Paese, ma nel frattempo il conflitto si sta diffondendo. Mentre in Tigray si profila una carestia di massa, nel resto del Paese i prezzi dei generi alimentari stanno aumentando rapidamente. L’inflazione, che prima della guerra era al 18%, ora supera il 20%. La valuta estera scarseggia e nel mercato nero il Birr etiope è sceso del 9% rispetto al dollaro negli ultimi mesi. Le imprese che cercano di ottenere la valuta estera attraverso i canali ufficiali, spesso aspettano almeno un anno dalle banche statali. Il governo ha chiesto al FMI e alla Banca Mondiale un salvataggio. Nel mese di febbraio, il governo aveva dichiarato che avrebbe chiesto la riduzione del debito nell’ambito di un programma volto ad aiutare i paesi poveri colpiti dal CoVid-19. Comunque, le agenzie di rating hanno declassato il debito dell’Etiopia. Intanto, la violenza etnica sta peggiorando. Nelle ultime settimane centinaia di persone sono morte negli scontri tra Oromo e Amhara, i due gruppi più popolosi del Paese, così come tra l’etnia somala e gli Afar nell’est.

La parabola politica di Abiy Ahmed

L’Etiopia, il secondo Paese africano per popolazione (dopo la Nigeria) con circa 110 milioni di abitanti (per il 70% con meno di 30 anni), è formata da dieci Stati regionali in buona parte etnicamente distinti (molti dei quali hanno delle dispute territoriali con il loro vicini) e da 80 gruppi etnici, con gli Oromo o Galla (discendenti degli schiavi somali) e gli Amhara (dai quali proveniva gran parte della classe dirigente imperiale di Hailé Selassié, al potere fino al 1974), che rappresentano rispettivamente il 34% e il 30% della popolazione, mentre dopo la guerra civile durata dal 1974 al 1991, il potere politico ed economico è stato nelle mani della minoranza tigrina che si considera erede della tradizione semitica e che rappresenta solo il 5-6%.

Per tenere insieme un Paese così grande dal punto di vista geografico e territoriale e fortemente eterogeneo sul piano etnico, culturale e religioso, la dinastia salomonide (che secondo la tradizione avrebbe avuto origine dal re Salomone e dalla regina di Saba) aveva costruito una struttura statale imperiale centralizzata che faceva leva sulla lingua e nobiltà Amhara e sulla Chiesa copta ortodossa etiope. L’ultimo discendete di questa dinastia e anche l’ultimo imperatore d’Etiopia dal 1930 al 1974 è stato Hailé Selassié (1892-1975), detronizzato da un gruppo di ufficiali di basso grado dell’esercito e della polizia (riuniti in un Comitato noto come Derg) guidato di Aman Mikael Andom, che istituirono un governo militare monopartitico di orientamento socialista rimasto al potere dal 1974 al 1987. L’abolizione del feudalesimo, l’alfabetizzazione, una campagna di nazionalizzazioni e una riforma agraria radicale divennero le priorità del nuovo regime.

Menghistu Hailé Mariàm divenne presidente nel 1977 e lanciò il Qey Shibir (la campagna di terrore nota come “stella rossa”) per eliminare gli oppositori politici, con decine di migliaia di prigionieri condannati a morte senza processo. A metà degli anni ‘80, l’Etiopia fu colpita da diversi problemi come siccità, crisi economiche, una carestia tra il 1983 e il 1985, un crescente affidamento agli aiuti dall’estero, malgoverno, corruzione, le conseguenze delle politiche fallite del Derg, la guerra d’indipendenza dell’Eritrea e la guerra civile etiope tra il Derg e milizie etniche appoggiate dagli USA. Nel 1987, Menghistu sciolse il Derg3 e formò la Repubblica Popolare Democratica d’Etiopia guidata dal Partito dei Lavoratori d’Etiopia (PLE), con un nuovo governo predominato dai sopravvissuti del precedente regime e che, pur consapevole della diversità del Paese, ha perseguito il primato dell’unità centralizzata sulla diversità.

Il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (TPLF) ha guidato una coalizione politica multietnica formata dal Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (FDRPE) ed è rimasto al potere per oltre un quarto di secolo, dopo averla liberata nel 1991, insieme al Fronte di Liberazione Eritreo, dalla dittatura comunista di Menghistu. TPLF e FDRPE hanno ridisegnato l’assetto costituzionale e amministrativo-territoriale del Paese su una base federale etnico-linguistica. L’Etiopia è stata trasformata da uno Stato unitario a uno federale, con nove nuovi Stati regionali (ora 10) progettati secondo l’articolo 46 della costituzione del 1995 sulla base di “modelli di insediamento, lingua, identità e consenso delle persone“. Ma, i confini dei nuovi Stati regionali hanno intersecato le precedenti delimitazioni amministrative distrettuali/provinciali e sono stati semplicemente imposti senza che vi fosse un consenso popolare espresso attraverso referendum o elezioni.

Dopo la morte nel 2012 di Meles Zenawi, un leader autoritario che ha ottenuto progressi economici impressionanti, il TPLF ha perso la presa sulla coalizione multietnica nazionale (FDRPE) e sulla società etiope. E’ diventato sempre più autocratico. Dal 2015 ai primi mesi del 2018, TPLF e FDRPE hanno attuato una violenta e sanguinosa repressione delle proteste popolari degli Oromo, con centinaia di vittime e l’imprigionamento di migliaia di dissidenti, attivisti e giornalisti. Ancora nell’agosto 2018, il governo federale ha intrapreso un’operazione armata per destituire Abdi Mohamoud Omar (noto anche come Abdi Ilay), l’allora presidente dello Stato regionale somalo, provocando molte morti e lo sfollamento di civili, in particolare minoranze etniche.

Nell’aprile 2018, sotto la spinta delle proteste di massa degli Oromo, vi è stato un cambiamento politico, con la nomina a premier di Abiy Ahmed da parte del FDRPE, la coalizione politica multietnica al potere, di cui il TPLF era stato fino ad allora la forza egemone. Abiy era allora un 42enne laureato in informatica, con un master a Londra in studi su pace e sicurezza, devoto pentecostale, un passato nell’esercito e nell’intelligence ed ex ministro della ricerca scientifica. Incarnava nella sua persona la possibile fusione tra i due maggiori gruppi etnici e religiosi del Paese: ha un padre musulmano di etnia Oromo e una madre cristiana di etnia Amhara.

Fin dall’inizio, l’idea di fondo del governo di Abiy è stata il superamento del federalismo “etnico” in nome di una democrazia nazionale partecipata da tutte le etnie. Un percorso politico che non è stato accettato né dal TPLF né dai partiti etnici più radicali dell’etnia Oromo. Comunque, Abiy è stato appoggiato dai partiti etnici mainstream Oromo e Amhara, ha formato un governo composto al 50% da donne, revocato lo stato di emergenza, liberato prigionieri politici, riaperto i media censurati, rinnovato i vertici di esercito e imprese pubbliche (di fatto marginalizzando ed epurando i trigrini), avviato la liberalizzazione dell’economia (con le privatizzazioni di Ethio Telecom, Ethiopian Sugar Corporation ed Ethiopian Airlines).

Ha stipulato la pace con l’Eritrea – una piccola e povera nazione di 3,5 milioni di persone e un PIL di 2 miliardi di dollari nel 2018, ma con un esercito di 200 mila soldati – contro la quale l’Etiopia aveva combattuto una guerra per una disputa sui confini costata 80 mila morti tra il 1998 e il 2000 (ma considerando anche la precedente guerra per l’indipendenza dell’Eritrea, i due Paesi sono stati in guerra tra loro per 58 anni), riacquistando l’accesso ai porti eritrei nelle acque profonde del Mar Rosso, consentendo a circa 96 mila eritrei di lasciare il proprio Paese per chiedere asilo, e ottenendo l’appoggio di Cina, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti nei settori finanziario, immobiliare, energetico ed agricolo.

Aver forgiato la pace con l’Eritrea ha procurato al carismatico Abiy Ahmed il premio Nobel per la pace nel 2019. In occasione della cerimonia per il ritiro del premio il 10 dicembre, Abiy ha affermato che “la guerra è l’epitome dell’inferno per tutti coloro che vi sono coinvolti; la guerra rende gli uomini aspri, senza cuore e selvaggi”. Poco meno di un anno dopo, a quanto pare, Abiy ha invitato il dittatore eritreo Isaias Afwerki a scatenare il caos nel Tigray. Anche se i termini di questo accordo non sono pubblici, le sue implicazioni distruttive stanno diventando sempre più allarmanti. Ha offerto l’opportunità ad Isaias di scatenare la sua vendetta sul suo vecchio nemico, il TPLF, e il popolo del Tigray con l’aiuto del governo di Abiy e delle milizie Amhara che cercano di realizzare le loro rivendicazioni territoriali irredentiste su parti del Tigray. Dopo essere stato celebrato come pacificatore, Abiy sarà ricordato come l’uomo che ha scelto la forza per risolvere una disputa politica, in uno degli Stati più fragili del mondo, nel mezzo di una pandemia globale. Aveva promesso unità, solidarietà e perdono, ma l’Etiopia non è mai stata così divisa.4

Appena arrivato al potere, Abiy Ahmed ha promosso un riformismo dall’alto di impronta neoliberista. E’ stato uno degli ospiti d’onore dell’incontro annuale di Davos nel 2019 e l’Etiopia ha puntato a diventare il nuovo paradiso del salario più basso del mondo (tra i 25 e i 45 dollari al mese) per l’industria tessile e conciaria su scala globale. Anche la Volkswagen ha firmato un accordo per mettere in piedi l’industria automobilistica nel Paese. Il FMI è tornato a fare prestiti al governo etiopico dopo oltre un decennio. Altri flussi finanziari erano stati concordati con Unione Europea e USA. Addis Abeba (“nuovo fiore” in amarico) è diventata una delle città in più rapida crescita in Africa, con una popolazione ufficiale superiore a 4 milioni (ma il numero reale è probabilmente molto più alto). I cantieri punteggiano la città, molti dei quali finanziati da società cinesi ed emiratine. Due linee ferroviarie leggere, finanziate e gestite da compagnie cinesi, sono state completate nel 2015. L’aeroporto internazionale della città viene ampliato grazie a finanziamenti e imprese cinesi. Un nuovo stadio nazionale da 62 mila posti e da 160 milioni di dollari viene costruito sempre da imprese cinesi, mentre la sede della Banca Commerciale dell’Etiopia, realizzata dalla China State Construction Engineering Corporation, è destinato a diventare l’edificio più alto dell’Africa orientale.

Agli osservatori più attenti appariva chiaro che la rapida transizione politica impressa da Abiy rischiasse di alimentare i conflitti tra gli 80 diversi gruppi etnici. C’era il rischio che nel nuovo clima politico tali conflitti potessero aumentare di intensità e numero in conseguenza sia di una reazione di resistenza da parte delle forze che perdevano potere e rifiutavano le rapide riforme (l’establishment tigrino) sia dell’improvvisa liberalizzazione del dibattito pubblico. Secondo molti osservatori, questi conflitti avrebbero potuto a loro volta far precipitare mosse mal concepite in uno Stato etno-federale, compresa la secessione (uno scenario alla Yugoslavia degli anni ‘90), con conseguenze mortali in comunità in cui la violenza è stata sempre il mezzo principale per risolvere le controversie comunitarie.

Abiy ha dovuto affrontare un tentativo di assassinio, di golpe5 e soprattutto le proteste violente dei movimenti nazionalisti Oromo. L’ex alleato politico Jawar Mohammed, proprietario dell’Oromia Media Network, nonché leader del partito Oromo Federalist Congress e cittadino americano, ha accusato Abiy di essere un dittatore. Nell’Oromia e ad Addis Abeba (capitale federale, localizzata nell’Oromia) sono esplose proteste violente a fine ottobre 2019 che hanno causato 78 morti. Altri circa 180-200 morti e 9 mila arresti ci sono stati tra fine giugno e inizio luglio 2020 durante disordini tra gruppi di giovani di etnia Oromo contro la comunità di etnia Amahara scatenati dopo l’assassinio di un famoso musicista, Hachalu Hundessa, di etnia Oromo ed oppositore di Abiy Ahmed. I disordini sono stati duramente repressi da polizia ed esercito, mentre il leader dell’opposizione Oromo, Bekele Gerba, e Jawar Mohammed, sono stati arrestati e sono stati indicati come gli indiretti mandanti della strage avvenuta nella notte seguente all’omicidio di Hundessa.6

Con Abiy che aveva perso buona parte del supporto della popolazione di etnia Oromo e con Paese in preda ad una frammentazione e violenta conflittualità etnica, si stavano preparando le elezioni legislative e regionali che si sarebbero dovute tenere nel maggio 2020 e che, ufficialmente a causa della pandemia di CoVid-19, sono state poi rinviate al 5 giugno 2021.

In vista delle elezioni, nel dicembre 2019, Abiy Ahmed ha smantellato il partito-Stato, il FDRPE, e formato un nuovo partito, il Partito della Prosperità (PP), eliminado la struttura della coalizione etnica in quattro partiti che componeva il FDRPE: il TPLF, il Movimento Democratico Nazionale Amhara (poi Partito Democratico Amhara), l’Organizzazione Democratica dei Popoli Oromo (poi Partito Democratico Oromo) e il Movimento Democratico dei Popoli Etiopi Meridionali.

Il TPLF ha deciso di non confluire nel PP che avrebbe dovuto essere un’unica organizzazione nazionale non a base etnica e con un orientamento centrista (da “terza via” pragmatica tra libero mercato capitalista e sviluppismo statalista). Un disegno politico di “nazionalizzazione”, in contrasto con il “federalismo etnico” della Costituzione del 1995, non condiviso da TPLF e dai partiti Oromo più radicali, ma anche da una parte dell’élite filogovernativa Oromo, con l’ex ministro della Difesa Lemma Megersa, un architetto chiave dell’ascesa di Abiy, costretto a lasciare il governo.

Dalle forze politiche etnonazionaliste, Abiy è stato accusato di nutrire ambizioni imperialiste e tendenze autoritarie. Invece di mantenere aperto il dialogo, il confronto e cercare di trovare degli ambiti di mediazione e compromesso con le fazioni politiche di opposizione, Abiy è andato avanti come un treno con il suo progetto di partito unico pan-etiope con l’obiettivo di contrastare l’affermazione di partiti sempre più etnici in cerca di più potere per i loro Stati regionali.

Inoltre, la leadership del TPLF non ha neanche condiviso la decisione di rinviare le elezioni politiche generali e nello Stato regionale del Tigray si è votato per il parlamento regionale il 9 settembre 2020, contro il volere di Abiy che le ha definite incostituzionali ed illegali, ma ha escluso un intervento militare. La schiacciante vittoria del TPLF nelle elezioni (circa il 97% dei voti) poteva fare da trampolino per un piano separatista. Esponenti del TPLF hanno accusato il governo centrale di aver bloccato la spedizione di droni per sterminare le locuste che stavano divorando i raccolti, di aver ridotto il trasferimento di risorse per i servizi e di non aver inviato dispositivi di protezione anti coronavirus ai bambini delle scuole.

La guerra nel Tigray

A questo punto, invece di provare a mediare con la leadership del TLPF, il 4 novembre il premio Nobel per la Pace Abiy ha ordinato una risposta militare a un attacco da parte del TPLF contro una base militare federale a Macallè, capitale dello Stato regionale del Tigray. Il TPLF ha negato che l’attacco sia avvenuto e ha accusato Abiy di aver inventato la storia per giustificare il dispiegamento dei militari contro l’organizzazione. Abiy ha dichiarato lo stato di emergenza nel Tigray per sei mesi, bloccato Internet e tutte le reti di comunicazione e avviato un’offensiva militare. I comandanti dell’esercito federale nel Tigray si sono rifiutati di obbedire agli ordini di guerra. Il Tigray ospitava una grande forza paramilitare e una milizia locale ben addestrata, ma soprattutto una parte rilevante del personale militare federale e del suo arsenale, retaggio della brutale guerra di confine tra Etiopia ed Eritrea del 1998-2000.

Così l’Etiopia è precipitata in una sanguinosa guerra civile. L’aviazione militare federale ha effettuato attacchi in più località nel Tigray e Abiy Ahmed ha detto che in questo “primo round di operazioni” “hanno completamente distrutto razzi e altre armi pesanti” appartenenti al governo dello Stato regionale e reso impossibile un attacco di ritorsione. L’operazione nel più settentrionale degli Stati dell’Etiopia sarebbe continuata “fino a quando la giunta non sarà resa responsabile di fronte alla legge“, ha detto Abiy, sostenendo che l'”operazione di contrasto su vasta scala” ha “obiettivi chiari, limitati e raggiungibili: ripristinare lo Stato di diritto e l’ordine costituzionale“.

Il Parlamento ha votato per destituire i leader del Tigray, accusati di tradimento e terrorismo, e installare un’amministrazione commissariale nello Stato regionale che fa capo al Partito della Prosperità. “Ciò che è stato avviato contro di noi è chiaramente una guerra, un’invasione … Questa è una guerra che stiamo conducendo per preservare la nostra esistenza“, ha detto in una conferenza stampa Debretsion Gebremichael, presidente del TPLF e dello Stato regionale del Tigray. Aerei e droni armati federali (forniti dagli EAU) hanno bombardato posizioni militari, villaggi e città del Tigray, mentre sono iniziati anche i combattimenti sul terreno, con duelli di artiglieria, con pesanti perdite da entrambe le parti.

Il Sudan ha accolto migliaia di rifugiati etiopi nel giro di pochi giorni. Sono stati resi pubblici diversi resoconti di violenze spaventose commesse da più attori su entrambi i lati del conflitto, ma con le comunicazioni interrotte e i media bloccati, è stato impossibile verificare in modo indipendente gli incidenti e chi ne fosse responsabile. Quattro membri del personale di due agenzie umanitarie internazionali – il Consiglio danese per i rifugiati e il Comitato internazionale di soccorso – sono stati uccisi durante i combattimenti.

Abiy ha detto che l’offensiva stava “procedendo come previsto“, ha richiamato 3 mila soldati dal fronte somalo (dove l’Etiopia sostiene il debole governo contro i jihadisti di al-Shabaab nell’ambito di una “missione di pace” dell’Unione Africana avviata nel 2007). Ha invocato il principio di non intervento negli affari interni del Paese e ha rifiutato le richieste di ONU, Regno Unito, Unione Africana, UE, USA e papa Francesco per una fine immediata delle ostilità onde evitare una nuova catastrofe umanitaria. “Le operazioni cesseranno non appena la cricca criminale sarà disarmata, la legittima amministrazione nella regione sarà ripristinata e i fuggitivi arrestati [e] assicurati alla giustizia“, ha scritto su Twitter. La “cricca” di cui parlava Abiy erano le circa 60 persone che dirigevano il TPLF, tutti veterani di guerra ed esperti di guerriglia (combattuta dal 1975 al 1991 contro il regime di Menghistu e poi contro l’Eritrea).

Una rapida escalation del conflitto ha portato al coinvolgimento nella guerra, oltre alle milizie dello Stato Amhara e all’esercito dell’Eritrea, anche del vicino Sudan come rifugio per migliaia di tigrini in fuga. Secondo il TPLF, l’Eritrea ha inviato forze militari, artiglierie e droni armati (decollati e controllati dalla base degli Emirati Arabi Uniti di Assab) contro il Tigray e a sostegno del governo Abiy. Il Dipartimento di Stato USA ha dichiarato questa una informazione “credibile”, mentre successivamente Amnesty International, la CNN e altre testate giornalistiche internazionali hanno accertato vari massacri di popolazioni civili commessi da soldati eritrei ad Axum e in altre città e villaggi. I tigrini hanno sparato missili per almeno quattro volte contro l’aeroporto e la città di Asmara.

L’Alto commissario ONU per i rifugiati Filippo Grandi ha denunciato la sparizione di 20 mila rifugiati eritrei che secondo testimoni da lui incontrati sarebbero stati uccisi o deportati in Eritrea dai militari del regime di Asmara. Ancora ai primi di marzo 2021, le truppe eritree hanno raso al suolo villaggi, abbattuto frutteti di mango, distrutto sistemi di irrigazione e massacrato dozzine di persone, da bambini piccoli a nonni, nella città di Samre e nei villaggi di Gijet, Adeba e Tseada Sare. Queste azioni distruttive (documentate da immagini satellitari) hanno creato le condizioni per una carestia e una catastrofe umanitaria, e hanno reso chiaro che il presidente eritreo Isaias Afwerki aveva accettato l’accordo di pace con Abiy Ahmed come un patto di sicurezza con l’Etiopia al fine di eliminare la leadership del TPLF e infliggere un danno tale al popolo tigrino che non potesse mai più sfidare nessuno dei due Paesi.

Dopo pochi giorni dal’inizio delle ostilità circa 70 mila profughi tigrini (molti bambini) sono arrivati nel confinante Sudan alla ricerca di sicurezza, riparo, cibo e cure mediche. Sono stati alloggiati in campi profughi gestiti dall’UNHCR. L’ONU ha avvisato che nel Tigray vi erano carenze “molto critiche“, con carburante e denaro che si stavano esaurendo. Il cibo per quasi 100 mila rifugiati eritrei sarebbe finito in una settimana e più di 600 mila persone che dipendevano dalle razioni alimentari mensili non le avevano ricevute a novembre. L’ONU ha anche avvisato che l’esercito federale etiope aveva incontrato una forte resistenza e che, quand’anche avesse conquistato Macallè (città con mezzo milione di abitanti), avrebbe dovuto affrontare una lunga e brutale “guerra di logoramento” nel territorio montagnoso del Tigray orientale anche se, con il confine sudanese chiuso e l’Eritrea ora alleata di Abiy, il TPLF era molto più isolato di quanto non fosse 30 anni prima.

Il 22 novembre Abiy ha dato un ultimatum alle forze ribelli del Tigray: 72 ore per arrendersi prima che l’esercito iniziasse l’offensiva su Macallè utilizzando carri armati ed artiglieria. Gebremichael ha detto che il popolo del Tigray era “pronto a morire” difendendo la propria patria, rifiutando l’ultimatum di resa di Abiy. Il 28 novembre, a 24 giorni dall’inizio dei combattimenti, Abiy ha affermato che Macallè era stata messa sotto il completo controllo dell’esercito federale dopo un bombardamento di aree periferiche con artiglieria pesante. Le organizzazioni umanitarie hanno stimato che almeno 950 mila persone erano scappate dalle loro case a seguito della guerra.

La battaglia era apparentemente finita, ma non la guerra, dal momento che tutta la leadership del TPLF è fuggita sulle montagne. La storia ha dimostrato che in Etiopia le guerre sono facili da iniziare e terribilmente difficili da finire. La leadership del TPLF potrebbe ottenere supporto (soprattutto logistico) dal confinante Sudan che ha due controversie aperte con l’Etiopia: la questione delle acque del Nilo Azzurro legata all’entrata in esercizio della megadiga etiope “Grande Rinascimento” e il controllo della fertile regione agricola di pianura di al-Fashqa (al confine con lo Stato Amhara) che il Sudan rivendica in virtù di un accordo firmato nel 1902 tra il Regno Unito e l’Etiopia sotto l’imperatore Menelik II. Nel febbraio 2021, si sono verificati dei primi scontri tra soldati etiopici e sudanesi, con almeno 50 morti etiopi. L’alleanza etiope-eritrea ha avvelenato le relazioni etiope-sudanesi allineando Addis Abeba e Asmara sulla disputa sul confine sudanese e sulla controversia che circonda la diga “Grande Rinascimento”. Questa ricaduta sta mettendo a repentaglio le missioni di mantenimento della pace in Sudan e Sud Sudan, e ha incoraggiato il leader della Somalia Mohamed Abdullahi Mohamed (Farmajo), ad aggrapparsi al potere dopo la scadenza del suo mandato, e anche a litigare con il Kenya. Isaias e Abiy continueranno a destabilizzare la regione del Corno d’Africa a meno che la loro nuova alleanza non sia limitata dalla diplomazia o dall’uso della forza.

La guerra ha fatto saltare il raccolto dei cereali nel Tigray e il blocco governativo degli aiuti ha spinto la regione verso la carestia. Il settimanale The Economist è arrivato a sostenere che “la fame pare sia usata come un’arma per sottomettere la regione”. Ora, con l’arrivo della stagione della semina, le truppe governative, eritree ed Amhara stanno impedendo l’attività agricola, avendo già distrutto o saccheggiato le attrezzature agricole.

Agenzie umanitarie dell’ONU e ONG hanno lanciato l’allarme, stimando in circa 2,5 milioni le persone a rischio di malnutrizione e fame. Il conflitto ha colpito un’area povera, un milione di persone nella regione dipendevano dagli aiuti umanitari. Non si sa quanti morti abbia provocato il conflitto – ad oggi si parla di 50 mila -, mentre si continua a combattere in molte zone anche con gli stupri di massa di donne e bambine. Le milizie Amhara hanno messo in atto una pulizia etnica nella parte occidentale e meridionale del Tigray. Decine di migliaia di Tigray sarebbero stati deportati o sono fuggiti nelle aree centrali del Tigray, mentre le forze militari federali e quelle eritree hanno continuato a uccidere civili, commettendo crimini di guerra.

L’espansionismo Amhara

Dopo due anni dal suo arrivo al potere, il premio Nobel per la Pace Abiy Ahmed ha portato l’Etiopia alla guerra civile per arrivare ad una resa dei conti mortale con il vecchio establishment tigrino e cercare di forgiare un’alleanza tra i gruppi etnici maggioritari, gli Oromo e soprattutto con gli Amhara. Il tentativo di consolidare il suo potere attraverso il conflitto militare con il Tigray si sviluppa in uno scenario geopolitico in rapida evoluzione che investe l’intero Corno d’Africa e che viene fortemente condizionato, oltre che dai tanti conflitti locali, anche dallo scontro tra “quartetto arabo” (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrain), l’asse Qatar-Turchia e l’Iran.

Mentre l’obiettivo dichiarato del governo federale guidato da Abiy è quello di arrestare la leadership politica e militare del governo dello Stato regionale del Tigray in quella che ancora viene definita come un’operazione di “restaurazione dello Stato di diritto”, l’élite politica Amhara considera la guerra come un’opportunità per riconquistare territori persi nel 1991. Essendo il secondo gruppo etnico più numeroso del Paese, le milizie Amhara sono state e sono fondamentali nella campagna di guerra.

Dopo il 1991, l’avvento dell’etnofederalismo era stato imposto dal TPLF e i suoi alleati per affrontare la minaccia egemonica rappresentata dal predominio della lingua amarica e delle tradizioni culturali del nord sul resto del Paese. I principali gruppi etnici si sono trovati a gestire Stati regionali semi-autonomi, con proprie bandiere, costituzioni, parlamenti, tribunali e polizia. Se il nazionalismo esclusivo e oppressivo della fase imperiale e degli anni del regime comunista è stato abbandonato, il nuovo assetto costituzionale ha fatto crescere molteplici etno-nazionalismi concorrenti su base territoriale regionale – a cominciare da quelli dei gruppi maggiori come gli Amhara e gli Oromo -, creando un sistema che si è dimostrato almeno altrettanto pericoloso e destabilizzante.7

Per gestire le controversie territoriali, gli Stati regionali hanno perseguito la militarizzazione dalla fine del 2017, quando le spaccature all’interno del FDRPE sono cominciate a diventare evidenti. Oltre alla polizia regionale e alla milizia, hanno rafforzato le loro “forze speciali“, i paramilitari. Si stima che queste forze siano costituite da circa 30 mila uomini in Oromia e un po ‘meno in Amhara (complessivamente circa la metà del numero totale di membri dell’esercito federale etiope prima dell’inizio della guerra del Tigray).8

Il federalismo etnico ha alimentato i conflitti tra i diversi gruppi di maggioranza e minoranza soprattutto per il controllo dell’accesso alla terra, con centinaia di morti ogni anno. L’accesso e il controllo della terra è essenziale in una società come quella etiope ancora in larga parte basata su un’agricoltura di sussistenza, con popolazioni appartenenti a diversi gruppi etnici che l’hanno coltivata e utilizzata per l’allevamento di animali per millenni. Nell’Etiopia rurale, la vita delle persone e dei gruppi familiari ruota intorno alla terra: definisce l’identità delle persone, di quali gruppi fanno parte e il loro status nella società.

E’ lo Stato che rimane il proprietario di ultima istanza della terra.9 Normalmente, ai contadini vengono concessi contratti di affitto di lunga durata, ma queste assegnazioni vengono fatte su base etnica e questo genera conflitti e violenze che vengono anche duramente represse dall’esercito federale e dalle milizie e forze speciali degli Stati regionali. Ad esempio, tra aprile e giugno 2018 circa 800 mila persone appartenenti all’etnia Gedeo sono scappate dal distretto del Guji occidentale nell’Oromia per evitare di essere violentati ed uccisi da persone appartenenti all’etnia Oromo che hanno bruciato le loro case e si sono appropriati delle loro terre.

L’ambizione della classe dirigente Amhara è quella di arrivare ad una annessione della parte occidentale – Wolkait – e meridionale – Raya – del Tigray, riportando questi territori sotto il controllo dello Stato regionale Amhara, che dal novembre 2020 li ha incorporati e li amministra, nonostante le proteste del governo regionale ad interim del Tigray ora controllato dal Partito della Prosperità.10 I nomi dei luoghi e la segnaletica in lingua tigrina sono stati già rimpiazzati da quelli in lingua amarica sia nel Welkait sia nel Raya. I Tigrini rimasti o vengono invitati con la forza a “tornare a casa” (ossia a est del fiume Tekeze) o a “cambiare identità” e a dichiarare la loro fedeltà agli Amhara, dal momento che gli viene detto che sono in territorio Amhara. Le carte di identità dello Stato regionale del Tigray vengono rimpiazzate con quelle dell’Amhara.

Questa terra ci è stata portata via con la forza. E l’abbiamo presa con la forza”, ha detto il portavoce dello Stato Amhara. L’élite politica etnica Amhara considera questa una guerra per riconquistare i territori persi nel 1991, allorquando l’élite politica e militare tigrina (organizzata nel TPLF) era la forza dominante all’interno del FDRPE, la coalizione politica multietnica arrivata al potere, e aveva ridisegnato l’assetto costituzionale e amministrativo-territoriale del Paese su una base federale etnica. Prima del 1991/95 non esisteva una regione chiamata Amhara e le popolazioni di etnia Amhara sono state divise tra diversi Stati regionali. Le rivendicazioni territoriali degli Amhara sulle aree attualmente parte dello Stato regionale del Tigray si basano quindi su una identificazione pre-1991 delle regioni amministrative di lingua prevalentemente amarica.

Il nuovo Stato regionale del Tigray ha ceduto i territori a est al nuovo Stato di Afar, mentre ha acquisito terreno a ovest, incorporando il distretto di Welkait e le fertili pianure di Setit-Humera, che facevano parte dell’ex regione amministrativa di Gondar (l’antica capitale etiope). Le aree di pianura sono quelle dove si coltiva il sesamo, la principale coltura per il mercato nazionale ed internazionale, e, all’epoca, erano abitate da agricoltori Amhara e Tigrini, senza che vi fosse alcun censimento verificabile su chi fosse in maggioranza. Dal 1991, sono stati reinsediati nell’area decine di migliaia di Tigrini degli altopiani ed ex rifugiati, quindi assegnando ai Tigrini una netta maggioranza della popolazione locale.

Nel 2016 sono scoppiate proteste nel Tigray occidentale, organizzate dal Comitato per l’Identità Amhara del Welkait (o Comitato per l’Identità e l’Autodeterminazione del Welkait). La richiesta era il passaggio della zona sotto lo Stato regionale dell’Amhara. Le proteste nel Tigray sono state rapidamente represse e il capo del Comitato Welkait, il colonnello Demeke Zewdu e altri sono stati arrestati. Ciò ha scatenato massicce manifestazioni e proteste in tutto lo Stato regionale Amhara, provocando la morte di dozzine di persone.

Con le dimissioni del primo ministro Hailemariam Desalegn e la fine del dominio del TPLF sul governo nazionale nel febbraio 2018, Demeke, insieme a migliaia di altri detenuti, è stato rilasciato. Ha promesso di continuare la lotta per riportare i distretti di Welkait, Setit-Humera e Tsegede sotto il controllo dello Stato regionale Amhara. Questa posizione è stata successivamente adottata dal governo dello Stato regionale guidato dagli uomini del Partito Democratico Amhara (allora un componente del FDRPE).

A Raya, nel Tigray meridionale, nel 2018 era stato costituito un Comitato simile a quello del Welkait, con l’obiettivo di ottenere il riconoscimento dell’identità Raya e stabilire una zona amministrativa autonoma. Tentativo soffocato dal governo regionale del Tigray, allora guidato dal TPLF. I Raya sono bilingue e si dividono tra sottogruppi di tendenza Amhara e Tigrina. La parte di lingua amarica ha espresso il desiderio di far passare l’area sotto l’amministrazione dello Stato regionale Amhara.

Quando l’offensiva militare contro il Tigray è stata lanciata dal governo federale il 4 novembre 2020, le forze speciali e le milizie dello Stato regionale Amhara erano ormai pronte da molto tempo per la guerra. L’offensiva sulla linea del fronte occidentale dei Welkait è stata per lo più portata avanti dalle forze Amhara, motivate dalla causa di (ri)conquistare i territori perduti dei tre distretti di Welkait, Tsegede e Setit-Humera. In una recente cerimonia di commemorazione dell’offensiva, il presidente regionale di Amhara, Agegnehu Teshager, ha affermato che “il popolo di Amhara è stato liberato e non tornerà mai più alla schiavitù” e ha chiesto il reinsediamento di popolazione Amhara nei territori conquistati. Demeke è stato premiato per la sua dedizione alla causa del nazionalismo Amhara ed è attualmente il vice amministratore e capo della sicurezza della nuova zona Amhara di Welkait, Tsegede e Setit-Humera. La nuova zona è finora riconosciuta solo dallo stesso Stato regionale dell’Amhara, e la sua annessione forzata è oggetto di proteste da parte di altre fazioni nel Partito della Prosperità.

Se l’annessione dovesse avvenire, questo potrebbe ulteriormente accendere i numerosi conflitti etnico-territoriali in altri Stati regionali etiopi. Sebbene Abiy personalmente non possa approvare questo riallineamento territoriale realizzato con la forza, attualmente non sembra essere nella posizione di affrontare l’élite politica Amhara su questo tema, poiché dipende completamente dal loro sostegno per rimanere al potere.

Dopo essere stato portato alla premiership grazie allo slancio generato dal movimento di protesta nazionalista Oromo, Abiy ha presto abbandonato la propria base etnica e si è spostato su una politica nazionalista etiope. Abiy ha l’obiettivo di ricentralizzare il potere politico in un sistema federale riformato, una visione che almeno in parte è in linea con gli interessi dei nazionalisti Amhara, che finora gli hanno dato un sostegno condizionato.

Ma, le ambizioni territoriali dell’élite di Amhara stanno creando problemi ad Abiy sia a livello nazionale che internazionale. Gli avversari nello Stato regionale del Benishangul-Gumuz e nella zona speciale di Oromo della regione di Amhara sostengono che i conflitti nelle loro aree sono guidati dalle ambizioni territoriali espansionistiche Amhara.11 Inoltre, il governo del Sudan dà la responsabilità del conflitto di confine nel triangolo di Fashqa ai coloni Amhara che espandono le loro attività agricole su un territorio che secondo Khartoum è sudanese in base al trattato di confine del 1902. Il ministero degli Esteri etiope – guidato dal ministro degli Esteri Demeke Mekonnen, che è un importante politico Amhara – rifiuta di riconoscere la sovranità sudanese sul territorio e ha accusato il Sudan di “invadere territori [etiopi], saccheggiare e sfollare civili e battere tamburi di guerra per occupare ancora più terre“.

Ad aggravare le sfide che Abiy si trova a dover affrontare ci sono anche i recenti disordini nella regione di Amhara che sono indice di una crescente divisione tra le élite politiche Amhara, che potrebbe anche destabilizzare le basi politiche del governo federale di Abiy. Il popolare partito di opposizione Amhara, il Movimento Nazionale Amhara (NAMA) sta organizzando manifestazioni a livello regionale per mettere in dubbio le azioni e la lealtà di Abiy alla causa Amhara e accusarlo di provocare deliberatamente disordini e ordinare l’uccisione di Amhara. Il governo dello Stato regionale, guidato dal Partito della Prosperità Amhara, ha respinto queste accuse, etichettandolo il NAMA come un nemico anti-prosperità.

La discordia intra-Amhara, così come i conflitti tra le varie componenti regionali del governo del Partito della Prosperità, sta gravemente indebolendo il governo e destabilizzando il Paese. Il Consiglio di Sicurezza Nazionale dell’Etiopia ha recentemente avvertito che le controversie sui confini regionali venivano utilizzate e guidate da nemici esterni e interni e persino da persone “inserite all’interno del governo” per “uccidere e spostare” i civili, il che minaccia l'”esistenza del Paese“.

Le lotte intestine al partito sono una continuazione della lotta per il potere che ha distrutto la precedente coalizione di governo del FDRPE nel 2018; il Partito della Prosperità è semplicemente un nuovo nome associato alle vecchie strutture del partito FDRPE, meno il TPLF, che è uscito nel 2019. Abiy si è in larga misura alienato il sostegno politico degli Oromo che lo ha portato al potere, e attualmente sembra che stia perdendo anche almeno una parte della sua base di supporto Amhara.

Si tratta di vedere per quanto tempo Abiy riuscirà a contenere le differenze interne al partito e bilanciare le varie fazioni ai ferri corti tra loro. Una situazione complicata che potrebbe portare alla sua fine politica. Sebbene sia altamente probabile che il Partito della Prosperità vinca in modo schiacciante le elezioni legislative e regionali del 5 giugno (anche se è assai probabile che vengano rinviate nuovamente per motivi di sicurezza e dato che solo circa 31 milioni di elettori sono stati registrati all’inizio di maggio), dal momento che i principali partiti di opposizione hanno deciso di boicottare le elezioni o sono stati messi fuori legge (il TLPF e l’OLA sono stati definiti “organizzazioni terroristiche” dal Parlamento), il primo ministro potrebbe essere sfidato dall’interno del partito dalla fazione Amhara.

Abiy avrebbe bisogno di formalizzare il processo di annessione dei distretti di Welkait, Setit-Humera e Tsegede allo Stato regionale dell’Amhara, tramite l’approvazione nella Camera Alta del Parlamento etiope (che è completamente controllata dal partito di governo) o tramite una decisione della Commissione per i confini amministrativi e le questioni di identità nominata dal governo. Per legittimare il processo, potrebbe essere indetto un referendum che, grazie alla pulizia etnica, gli Amhara non dovrebbero avere alcuna difficoltà a vincere.

Tuttavia, un’incorporazione formale dei territori sotto il controllo di Amhara non solo non porrà fine al conflitto, ma lo prolungherà, dal momento che la leadership tigrina assicura che non ci sarà pace o negoziati prima che tutte le forze nemiche si siano ritirate dal suolo del Tigray, comprese le forze regionali dell’Amhara che attualmente occupano il Tigray occidentale e meridionale.

Il conflitto con Egitto e Sudan per la diga Grande Rinascimento

Tra l’aprile 2011 e il luglio 2020, l’Etiopia ha costruito la mega diga idroelettrica “Grande Rinascimento” (GERD) sul Nilo Azzurro vicino al confine tra Etiopia e Sudan. Un’opera da 5 miliardi di dollari che nelle intenzioni della classe dirigente etiope rappresenta la grande opportunità di riscatto e modernizzazione economica del Paese. L’elettricità prodotta dalla diga (6 mila megawatt), infatti, può consentire di elettrificare un Paese in cui il 65% della popolazione non è ancora connesso alla rete elettrica, e sostenere processi di urbanizzazione e di industrializzazione. Pertanto, l’Etiopia ritiene quest’opera essenziale per il suo sviluppo e ha completato il progetto indipendentemente dalle conseguenze a valle.

Ma, Egitto e Sudan hanno sempre considerato la diga una minaccia incombente per la loro stessa sopravvivenza. Il Nilo fornisce il 90% dell’acqua dolce dell’Egitto. L’Egitto ha accusato l’Etiopia di respingere le sue preoccupazioni circa la minaccia alla sua sicurezza idrica, mentre l’Etiopia ha insistito sul fatto che tutte le problematiche sarebbero state risolte prima del completamento della diga. La diga è stata completata e è terminate anche la prima fase di riempimento, ma un accordo tra i tre Paesi non è stato ancora trovato.

La questione riguarda essenzialmente il tempo di riempimento della diga da 74 miliardi di metri cubi (6 o 10 anni) e il suo impatto sulla portata dell’acqua a valle, soprattutto durante i periodi di siccità. Con la mediazione americana e della Banca Mondiale, prima, e successivamente dell’Unione Africana, si è cercato di raggiungere un accordo tra le parti, ma si è creata una situazione di stallo che potrebbe evolvere in un conflitto.

L’Etiopia per ora non cede, non appare disposta a fare troppe concessioni e intende procedere alla seconda fase del riempimento della diga GERD sul Nilo, aggiungendo 13,5 miliardi di metri cubi di acqua nel 2021 al bacino idrico. Le operazioni sono previste per luglio, una mossa portata avanti nonostante le proteste del Cairo e di Khartum che temono che la riduzione del flusso d’acqua possa avere conseguenze disastrose sul piano economico, sociale e demografico. Già sono in sofferenza e un calo delle forniture potrebbe essere fatale, infatti parlano di una minaccia alla sicurezza nazionale.

Etiopia ed Egitto sono due dei Paesi più popolosi e potenti dell’Africa; qualsiasi resa dei conti tra loro può rappresentare una grave minaccia per la pace. In avvertimento all’Etiopia e in preparazione per una possibile escalation delle tensioni, Sudan ed Egitto hanno tenuto lo scorso aprile la seconda esercitazione militare congiunta dal novembre 2020. Feltman, l’inviato speciale del governo americano nel Corno d’Africa, ha incontrato il presidente egiziano al-Sisi il 12 aprile scorso per trovare una risoluzione alla controversa questione della diga.

Intanto, il conflitto tra Egitto ed Etiopia è stato avviato nel cyberspazio con post sui social media e attacchi a decine di siti Internet del governo etiope da parte di hackers egiziani. Entrambi i governi utilizzano la questione della diga per fomentare il nazionalismo interno, rendendo più difficile il raggiungimento di un compromesso tra le parti. Le migliaia di rifugiati, richiedenti asilo e migranti etiopi che vivono in Egitto subiscono pressioni e molestie da parte dei cittadini e delle autorità egiziane da quando le tensioni sulla diga hanno iniziato a surriscaldarsi. Questo, mentre in Etiopia, ha significato che qualsiasi critica alla diga da un punto di vista ambientale – che potrebbe distruggere gli ecosistemi e la biodiversità, anche all’interno dell’Etiopia – viene accolta con derisione.

Davanti alla sfida unilaterale Egitto e Sudan chiedono una mediazione ampia, con USA, Unione Europea, Unione Africana e Repubblica Democratica del Congo (RDC) in qualità di presidente di turno dell’Unione Africana. L’obiettivo è quello di internazionalizzare la gestione della crisi coinvolgendo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. L’Etiopia è disponibile solo ad un intervento dell’Unione Africana, ed è convinta di avere una posizione di vantaggio e pensa che ogni rinvio finirà per determinare il suo successo.

L’Egitto sta cercando l’appoggio dei Paesi lungo il bacino del Nilo e nel continente, promettendo accordi economici e supporto (anche militare, dove serve) a Burundi, RDC e Tanzania (dove gli egiziani partecipano alla costruzione dello sbarramento artificiale sul fiume Rufiji). Una manovra che serve anche per contendere il passo ad analoghe iniziative della Turchia, decisa ad estendere la sua influenza nel continente.

Molto ampia è la collaborazione dell’Egitto con il Sudan, l’altro protagonista dello scontro che, nei mesi scorsi, era sembrato avere dei ripensamenti. Il generale presidente al-Sisi ha visitato il Paese in marzo e insieme ai dirigenti ha espresso in modo netto l’opposizione a qualsiasi “fatto compiuto”. Messe da parte vecchie incomprensioni, i due Paesi hanno firmato un patto di difesa e condotto esercitazioni comuni. Legami che assumono un significato particolare visti gli scontri tra le forze di Khartum e Addis Abeba nell’area di Fashaga.

Alcuni osservatori temono che la contesa territoriale in questa zona si trasformi in conflitto aperto. La crisi collaterale in Tigray, con le denunce di massacri, rende più esposta l’Etiopia. Il premier Abiy Ahmed e il presidente eritreo Isaias Afewerki si sono recati a Juba, capitale del Sud Sudan.

Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti non hanno escluso di svolgere un ruolo per favorire una soluzione. Sono attivi in questo quadrante. Nel giugno 2020, l’Arabia saudita aveva affermato che la sicurezza idrica di Sudan ed Egitto riguarda l’intera famiglia araba.

C’è l’attesa per le mosse dell’amministrazione Biden e del suo inviato speciale. Trump aveva provato a mediare, senza ottenere alcun risultato e per questo aveva deciso di congelare gli aiuti in favore dell’Etiopia, ritenuta la responsabile del fallimento. Ora Joe Biden ha riattivato quel programma, rinnovando però l’impegno per il negoziato.

Anche la Russia di Putin si è infilata nella contesa, provando ad organizzare un meeting, ma ha incontrato le medesime difficoltà. Nel frattempo, ha finalizzato un’intesa con l’Egitto per una base a Port Sudan.

1 L’uso dello stupro come arma di guerra è antico quanto la guerra stessa. In Bosnia negli anni ’90, migliaia di donne musulmane furono brutalizzate dalle forze serbo-bosniache, che istituirono “campi di stupro” come parte di una politica di “pulizia etnica“. Nel 2001, il tribunale per i crimini di guerra jugoslavi delle Nazioni Unite ha ridefinito lo stupro di massa come un crimine contro l’umanità. Eppure da allora ci sono state molte atrocità simili, anche in Sud Sudan, Siria, Iraq e Myanmar.

2 Gramer R., New Biden envoy for Horn of Africa warns Tigray conflict could worsen, Foreign Policy, 26 aprile 2021, https://foreignpolicy.com/2021/04/26/u-s-africa-envoy-ethiopia-crisis-tigray-jeffrey-feltman-biden-diplomacy-horn-of-africa/

3 Alla disastrosa gestione del Paese da parte del Derg vengono attruibiti 1,2 milioni di morti, 400 mila rifugiati fuori dal Paese, 2,5 milioni di sfollati interni e quasi 200 mila orfani. Nel dicembre del 2006, 73 ufficiali del Derg furono giudicati colpevoli di genocidio. Trentaquattro persone erano presenti alla corte, 14 sono morte durante il lungo processo e 25, incluso Menghistu, furono processati in absentia. Il processo finì il 26 maggio del 2008, e molti degli ufficiali furono condannati a morte. Nel dicembre del 2010, il governo etiope commutò la pena di morte di 23 ufficiali del Derg. Il 4 ottobre 2011, 16 ex ufficiali furono liberati, dopo vent’anni di carcere. Il governo etiope diede la libertà condizionata a quasi tutti gli ufficiali del Derg che erano stati imprigionati per vent’anni. Altri ufficiali del Derg riuscirono a scappare, e organizzarono gruppi ribelli per cercare di rovesciare il nuovo governo dell’Etiopia.

4 Davison W., The alleged atrocities in Tigray risk tearing Ethiopia apart, The Guardian, 9 May 2021, https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/may/09/alleged-atrocities-tigray-ethiopia

5 Il 22 giugno 2019, durante un fallito tentativo di colpo di Stato organizzato dal generale Asamnew Tsige (rimasto ucciso) nello Stato settentrionale di Amhara, il secondo per popolazione, il capo delle forze armate federali, il generale Seare Mekonnen (di etnia tigrina), è stato assassinato da una delle sue guardie del corpo ad Addis Abeba, insieme ad un altro generale in pensione, mentre sono stati uccisi anche il governatore della regione e altri alti funzionari. Tsige cercava di alimentare il conflitto tra le popolazioni Amhara e quelle Tigray in relazione a rivendicazioni territoriali da parte dei due gruppi etnici e Stati regionali.

6 Le indagini per l’omicidio di Hundessa hanno portato all’arresto di militanti dell’ala più oltranzista dell’Oromo Liberation Front (OLF), arrivando ad ipotizzare una cospirazione più ampia, in cui sarebbe stato coinvolto il TPLF, per creare un clima di terrore volto a rovesciare il governo. Altri oltre 500 attivisti di etnia Oromo sono stati arrestati ad inizio ottobre 2020 con l’accusa di aver pianificato di causare violenze durante la festa annuale Irreecha degli Oromo.

7 Hailu B., Reforming Ethiopian etnofederalism, Ethiopia Insight, 30 December 2020, https://www.ethiopia-insight.com/2020/12/30/reforming-ethiopian-ethnofederalism/

8 Lefort R., Ethiopia’s vicious deadlock, Ethiopia Insight, 27 April 2021, https://www.ethiopia-insight.com/2021/04/27/ethiopias-vicious-deadlock/

9 Questo non ha evitato che funzionari pubblici abbiano affittato o dato in concessione a grandi società estere (saudite, emiratine, qatarine, europee, etc.) almeno 4 milioni di ettari (circa la superficie della Svizzera) nello Stato regionale dei Popoli Meridionali. Qui, la realizzazione di una grande diga sul fiume Omo – la Gibe III, finanziata con fondi cinesi e realizzata da un’azienda italiana, la Salini-Impregilo, ora Webuild) – sta raddoppiando la produzione di elettricità, vitale per lo sviluppo industriale del Paese, oltre a creare un bacino che consentirà l’irrigazione di grandi estensioni di terreni, ma sta anche cancellando popoli, modi di vita e tradizioni. Dal 2011, le vittime di questa grande infrastruttura sono circa 500 mila persone delle etnie Karo, Mursi, Hamer e Afar, popolazioni tribali poverissime che da sempre vivono accanto al grande fiume come allevatori, pescatori e piccoli contadini. Moltissimi tra loro sono stati costretti, con le buone o con le cattive maniere, ad abbandonare le terre ancestrali tradizionalmente utilizzate, che sono state concesse dal governo etiopico a moderne aziende agrindustriali (Ethiopian Sugar Corporation) per sviluppare nuove piantagioni di canna da zucchero – con il cosiddetto Kuraz Sugar Development Project che si estende su 100 mila ettari – e cotone. Kuraz era il più ambizioso di una serie di progetti previsti nei piani di sviluppo quinquennale del 2010 e del 2015 (Growth and Transformation Plans I e II) con l’obiettivo di rendere l’Etiopia uno dei principali Paesi esportatori di zucchero ed etanolo, creare posti di lavoro per affrontare la disoccupazione giovanile alimentata anche dalla vertiginosa crescita demografica, e rispondere alla crescente domanda del mercato domestico.

10 Tronvoll K., Ethiopia’s Tigray war is fueling Amhara expansionism, Foreign Policy, 28 April 2021, https://foreignpolicy.com/2021/04/28/ethiopia-tigray-war-amhara-abiy-ahmed-expansionism/

11 Nella parte orientale dello Stato regionale Amhara (South Wollo, Oromo Special Zone e North Shewa) ci sono stati scontri che hanno provocato più di 300 morti fino ad ora, decine di migliaia di rifugiati e distruzioni di massa. Gli scontri hanno coinvolto la popolazione e la milizia locale di Amhara e Oromo, le forze speciali di Amhara e l’esercito federale. Tra marzo e aprile 2021, più di 200 persone di etnia Amhara, Oromo e Shinasha sono state uccise da uomini di etnia Gamuz armati con armi automatiche e coltelli nello Stato occidentale di Benishangul-Gumuz (il territorio di 5 gruppi etnici indigeni, dei quali i più popolosi sono i Berta, i Gumuz e gli Shinasha, e dove stata realizzata la mega diga del “Rinascimento”), l’ennesimo massacro di origine etnica nel Paese. L’attacco è avvenuto il giorno dopo che Ahmed aveva visitato lo Stato, parlando della necessità di assicurare alla giustizia i responsabili di recenti attacchi contro la popolazione civile. “Il desiderio dei nemici di dividere l’Etiopia lungo linee etniche e religiose esiste ancora. Questo desiderio rimarrà insoddisfatto“, ha scritto Ahmed su Twitter. Inoltre, il 1° novembre 2020 almeno 54 persone di etnia Amhara, in maggioranza donne, bambini ed anziani, sono state uccise in un villaggio nello Stato di Oromia nel corso di un attacco da parte di sospetti membri dell’Esercito di Liberazione Oromo che hanno anche bruciato circa 120 case. Nelle settimane precedenti, cittadini di etnia Amhara erano stati presi di mira anche da uomini armati nello Stato occidentale di Beishsangul Gumuz e nelle regioni meridionali, con decine di persone uccise.

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