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L’Unione Europea pronta a sedersi sulle sue baionette

di Franco
Ferrari

Un vecchio e noto detto, attribuito da alcuni a Napoleone e da altri a Talleyrand, afferma che con le baionette si può fare tutto meno che sedercisi sopra. Ora il tempo delle baionette, dal punto di vista della tecnica militare è certamente tramontato, sostituito sembrerebbe soprattutto dai droni. Ma la metafora mantiene una sua validità nel momento in cui l’establishment politico europeo insieme a quello francese e tedesco decidono enormi aumenti delle spese militari. Ha fatto subito impressione il piano da 800 miliardi presentato dalla Von der Leyen, in parte ancora virtuale nella sua concretizzazione, che ha aperto la strada a progetti molto più concreti dei governi francese e tedesco.

“La Germania è tornata” ha avvertito il futuro primo ministro tedesco Friedrich Merz, senza chiarire se si trattasse di una promessa o di una minaccia. Il Bundestag, decaduto perché nel frattempo ne è stato eletto un nuovo, ha rimosso a larga maggioranza il vincolo che limitava il deficit annuale possibile per il bilancio tedesco.

Un vincolo che la stessa Germania aveva contribuito in misura decisiva ad imporre a tutti i Paesi europei in occasione della crisi del debito sovrano di una quindicina di anni fa. I risultati furono economicamente e socialmente devastanti per diversi paesi, considerati colpevolmente come poco frugali. Per anni ci è stato raccontato e forse ci siamo raccontati, che il rifiuto del debito era connaturato all’anima del popolo tedesco rivelata dal fatto che la stessa parola serviva a significare sia il debito che la colpa. Tanto profondamente radicata nell’animo tedesco da essere buttata nella spazzatura in due settimane.

La realtà è certamente condizionata anche dalle tradizioni culturali, dai sentimenti radicati, dal senso comune, ma questa vicenda ci dice che oltre tutto questo c’è un dato assolutamente materiale (e che materialisticamente andrebbe interpretato): sono radicalmente cambiati gli interessi del capitalismo tedesco. Il modello di accumulazione sul quale si è basato il suo successo dopo la riunificazione poteva combinare una ridotta spesa pubblica con un elevato attivo commerciale con l’estero. Questo meccanismo si è imballato perché sono venute meno alcune delle ragioni della sua forza, in particolare il basso costo dell’energia garantito dalla Russia e una globalizzazione trionfante che consentiva all’industria tedesca di fare affari nelle società dalle estese classi medie emergenti come la Cina.

L’Unione Europea è stata considerata dal capitalismo tedesco lo strumento attraverso il quale garantire la praticabilità e la solidità di quel modello, anche quando si trattava di far pagare ad altri le conseguenze.

Se la Germania può mettere nel conto un elevato indebitamento da destinare principalmente alle spese per armamenti senza avere troppi problemi di bilancio, ben diversa è la situazione francese che viaggia su un deficit annuo del 6% e il cui debito è notevolmente cresciuto negli ultimi anni.

I precari governi varati da Macron, sfidando l’esito elettorale che lo ha ampiamente sfiduciato, avevano già il problema di tagliare le spese. Ora l’obbiettivo è di incrementare considerevolmente la spesa militare che è già salita a 50,5 miliardi e che dovrà veleggiare verso i 70 miliardi annui con l’obbiettivo ancora più ambizioso di raggiungere i 100 miliardi annui.

Come far quadrare i conti è il problema che si stanno ponendo in Rue Bercy, sede del ministero delle finanze francese. Il quotidiano parigino Le Monde riportava le consuete ricette: tagli alle spese sociali e privatizzazioni. Già si è abbandonata ogni idea di riaprire la trattativa sull’innalzamento dell’età pensionabile che pure sembrava poter essere una possibile concessione per permettere al traballante governo Bayrou di reggere ancora per qualche mese.

Nel governo francese non circolano solo ipotesi tecniche di tagli quanto un vero e proprio ripensamento del ruolo dello Stato e del metodo di formazione del bilancio pubblico. Nel primo caso si parla della necessaria riduzione dello Stato alle sue funzioni “regali”, fondamentalmente la politica estera, il militare e la sicurezza interna. Con il progressivo abbandono di tutti quegli ambiti caratterizzanti lo Stato sociale, strumento per la garanzia di diritti fondamentali del cittadino, frutto delle lotte di massa dalla fine dell’800 e per gran parte del ‘900. Stato ridotto quindi e, sul piano del bilancio, viene ripescata una vecchia teoria del “budget zero”. Non si tratta, evidentemente, dell’annullamento della spesa pubblica ma di una diversa formazione del bilancio statale. Non si parte dall’esistente per individuare i possibili interventi di riduzione della spesa ma al contrario di ridefinire da zero ogni spesa considerandola in via di principio come non giustificata, fino a prova contraria.

Se non è proprio la linea della coppia Trump-Musk ( ma anche Milei) di smantellamento dello Stato e della sua riduzione ad un piccolo esercito di militanti interamente asserviti all’ideologia del potere politico (il loro ovviamente), in un qualche modo vi si avvicina. Non siamo più nell’ambito dell’ordoliberismo, che è evidentemente una forma di liberismo, il quale però riteneva che non essendo il mercato una forma sociale naturale dovesse essere costituito a suon di regole definite dallo Stato, quanto una versione radicale del liberismo come totale liberazione degli “spiriti animali” che dovrebbero sorreggerlo. Dal quale non manca di derivare una visione “darwiniana” (senza colpa del povero Darwin) come competizione che consente la prevalenza del più forte e in quanto tale meglio adatto alla riproduzione, in questo caso non della vita, ma del sistema di sfruttamento e accumulazione del capitale.

Il governo francese sta anche cercando di capire come orientare il risparmio privato verso la produzione militare. Per questo ha convocato il mondo della finanza, banche, assicurazioni per capire come convincere i privati ad indirizzare i propri investimenti a sostegno dell’espansione del settore industriale dedicato al militare. Non siamo, ancora, al prestito forzoso e nemmeno all’oro per la patria. Anzi già si prevede di cancellare quelle modeste misure fiscali che colpivano, gentilmente, i grandi patrimoni.

Il Presidente francese Macron ha anche proposto di usare l’arsenale nucleare francese come strumento dissuasivo a disposizione di tutti i paesi dell’Unione. Al momento la sola Romania ha detto: “no, grazie”. Quale sia l’impatto reale di questa offerta resta difficile da definire data anche la sproporzione esistente tra l’arsenale atomico francese e quello russo. Ma è probabile che il Presidente francesi calcoli che questa offerta, nella quale comunque la decisione di ricorso all’arma nucleare resta in mano alla Francia, possa essere utilizzata per aumentare il suo peso politico all’interno dell’Unione. Ci sono vari modi per garantirsi delle contropartite convenienti alla promessa di copertura nucleare. Ad esempio l’acquisto di armamenti francesi.

Il peso globale della Francia, con Macron è drasticamente diminuito. Ha perso quasi tutte le postazioni di cui disponeva in Africa tra le ex colonie e ora è entrato in conflitto con l’Algeria, la più grande “proprietà” dell’impero francese e l’ultima ad essere stata abbandonata, con la quale i rapporti sono stati soggetti ad alterne vicende e non sembra certo che stavolta azzecchi la proposta giusta. Spesso ha lanciato idee balzane sulle quali è stato poi consigliato di fare celermente retromarcia.

In ogni caso il progetto di riarmo francese è destinato ad aprire non poche contraddizioni. Come giustificare ai propri cittadini un massiccio spostamento di risorse dalle destinazioni sociali e quelle militari, soprattutto se si dovesse arrivare ad una cessazione del conflitto in Ucraina. Sempre difficile fare previsioni in un contesto turbolento ma tutto questo sembra andare a favore dell’estrema destra in vista delle elezioni presidenziali del 2027. La miscela di europeismo astratto e di nazionalismo senza principi di Macron lo ha reso progressivamente sempre più inviso a gran parte della popolazione francese. L’unica carta che potrebbe giocare è quello di favorire attraverso le spese militari una relativa re-industrializzazione della Francia. Obbiettivo che aveva già proclamato senza ottenere risultati concreti.

Questo è certamente anche il principale obbiettivo tedesco. Di fronte alla crisi del modello di accumulazione basato sulle esportazioni e particolarmente sul settore dell’automobile (in questi giorni l’Audi ha annunciato il licenziamento di 7.500 lavoratori), la riconversione militare appare come un approdo salvifico. Mentre tutta l’impostazione liberista di cui si è ammantata la Germania e con essa l’Unione Europea, presumeva la libera concorrenza e il mercato come fondamento per la razionale allocazione delle risorse economiche, l’economia militarizzata può tranquillamente accantonare tutto ciò. Essendo lo Stato che compra e paga e lo fa in nome di un interesse nazionale superiore, la spesa militare produce sempre enormi profitti. Il mantra liberista per decenni ha spiegato che lo Stato non crea lavoro mentre ora ci si spiegherà che grazie alle spese militari si potrà creare lavoro o salvare aziende altrimenti destinati a chiudere.

La Rheinmetall, la cui valutazione borsistica sta andando alle stelle (anticipazione di lauti profitti futuri), diventerà il nodo centrale del nuovo modello di accumulazione tedesco. Non c’è dubbio che tutta la politica di riarmo prevista abbia un fondamento e una motivazione economica. Il militare garantisce profitti senza rischi perché non ha nemmeno bisogno di rispondere alle esigenze, a volte volubili, del singolo consumatore. Dopo la prima guerra mondiale si parlò a lungo di colpire, senza mai riuscirci, il “profitto di guerra”.

I “profittatori” per altro erano ben noti anche in Italia. In questi giorni nei quali abbiamo visto un noto organo di stampa promuovere una manifestazione di piazza, ovviamente con i denari del pubblico erario, vale la pena ricorrere ad una citazione dello storico Paolo Spriano che recensiva la biografia di Giovanni Agnelli (il primo, non il secondo) scritta da Valerio Castronovo: “la prima guerra mondiale è il grande trampolino di lancio della Fiat. Agnelli fu interventista? Sì e no. Contribuì – senza scoprirsi troppo – a finanziare fogli nazionalisti, lanciando in avanscoperta il vicepresidente Dante Ferraris, condivise perplessità di vari ambienti industriali e bancari a cui era legato circa la partecipazione al conflitto, ma, in ogni caso, si adoperò, assai per tempo, ad indirizzare la produzione verso i settori coperti dalla domanda dell’amministrazione pubblica, quella bellica, in primo luogo. E fece poi man bassa delle commesse statali. Si sapeva già che gli utili della Fiat erano stati vertiginosi nei quattro anni della guerra (soldi a palate, diceva Salvemini…) e il Castronovo fa un po’ di conti riassuntivi che non solo aumentano lo sbalordimento ma aiutano anche a capire perché doveva poi essere naturale l’intesa con un governo come quello Mussolini che diede una sanatoria su tutti i progettati prelievi fiscali ai sovraprofitti di guerra e abolì la nominatività dei titoli” (Paolo Spriano, Sulla rivoluzione italiana, Einaudi, 1978, pp. 61-62).

Se non vanno dimenticati gli interessi materiali che spingono al riarmo sarebbe limitativo ridurli solo a questo. C’è tutto un retroterra ideologico in parte riesumato dai tempi del colonialismo europeo (il famoso “fardello dell’uomo bianco”) della cui retorica si è fatto ampio uso nella stessa piazza convocata del noto quotidiano di cui sopra si è detto (?). C’è una lettura delle trasformazioni dell’assetto globale del quale si vede solo il ritorno all’uso della forza (i carnivori contro gli erbivori) e non invece l’esigenza di nuove forme di collaborazione pacifica (la gorbacioviana “casa comune”). E da questo deriva un’idea della costruzione europea nella quale prevale il primato della forza garantita da una moltiplicazione degli armamenti anziché dal rilancio di quelli che potrebbe essere il reale “valore universale europeo”, la partecipazione democratica accompagnata da un’indispensabile e robusta declinazione sociale in contesto globale di coesistenza pacifica e di rispetto per il principio dell’autodeterminazione dei popoli (che non si traduce necessariamente in forma statuale).

Mentre c’è chi ha l’acquolina in bocca alla vista dei ricchi e imminenti profitti, altri invocano lo spirito guerriero, di cui in ogni caso non hanno nessuna intenzione di dare prova essi stessi. In questo non sono nemmeno paragonabili con molti dei giovani interventisti del 1914 che invocavano sì la guerra, ma almeno aspirando poi di andare a battersi in prima persona. Poi venne la guerra di trincea e l’eroismo si misurò con il vero contenuto materiale di ogni conflitto: sangue, merda e morte (ma non per tutti gli “Agnelli” del mondo, naturalmente).

Franco Ferrari

 

 

 

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