Riprendiamo da napolimonitor.it, con lo stesso titolo, l’articolo di Antonio Esposito –
L’omicidio della psichiatra Barbara Capovani a Pisa, a opera di un suo ex paziente, ha riacceso, come sempre accade in questi casi, il più feroce dibattito sulla pericolosità della persona che attraversa la sofferenza mentale. Il singolo caso è diventato epigono classificatorio, si è immediatamente riproposta l’equazione “malattia mentale = pericolosità sociale”, l’alfabeto della custodia è tornato a sottrarre parole a quello della cura. Soprattutto, seguendo il dibattito ospitato sui media, in special modo quelli televisivi, saturi di plastici ed esperti salottieri che dispensano certezze indimostrate (e spesso indimostrabili), si è nuovamente palesato il fantasma manicomiale, ammodernato nella nomenclatura di strutture, residenze, luoghi protetti, ma sempre identico nelle sue logiche, nei suoi dispositivi, nelle sue finalità securitarie presentate come terapeutiche, costruite a partire dalla sottrazione di diritti e produzione di esclusione.
A evocarlo, oltre a criminologi e psichiatri che ripropongono teorie ottocentesche ammantate di riferimenti impropri alla genetica, innanzitutto i partiti della destra oggi al governo. In realtà, per alcuni di questi è un vero e proprio cavallo di battaglia: la Lega, per esempio, già nel 2018 aveva presentato, con la senatrice Marin, un disegno di legge in cui si prevedeva la creazione di nuove strutture, con più di trenta posti letto, dedicate ai Tso protratti. Il nuovo reflusso manicomialista segue un copione consunto, e basterebbe rileggere il saggio a firma di Franca Ongaro Basaglia e Franco Basaglia, datato 28 marzo 1968, dal titolo “Il problema dell’incidente”, aggiunto alla seconda edizione (aprile 1968) de L’istituzione negata, per decostruirne la logica. Di certo, oggettivare il singolo episodio, per quanto tragico e doloroso, è un processo che si innesta in quel dispositivo di reificazione che rende corpo oggettuale il sofferente psichico, e, paradossalmente, nel processo sottrattivo cui lo sottopone, finisce col deresponsabilizzarlo, sicché il riconoscimento sociale della colpa può avvenire solo attraverso la “mostrificazione”, la trasmutazione in mostro della persona che così può assumere anche il ruolo di capro espiatorio di tutti i mali della società.
Un simile dibattito assolve, inoltre, a un altro scopo: quello di sottrarre al discorso pubblico la discussione sulla sostanziale distruzione del sistema di sanità pubblico di questo paese, in cui, tra l’altro, la salute mentale, almeno in termini di investimenti, ha sempre rappresentato uno dei settori più bistrattati. Nell’ultimo Rapporto civico sulla salute 2023, significativamente titolato “Urgenza Sanità”, presentato in questi giorni da Cittadinanzattiva, viene denunciato “un crescente deficit strutturale dei servizi di salute mentale, ovvero dell’insieme delle strutture e dei servizi che hanno il compito di farsi carico della domanda legata alla cura, all’assistenza e alla tutela della salute mentale nell’ambito del territorio definito dall’Azienda sanitaria locale (Asl). L’assenza, o quanto meno la palese carenza di intervento del servizio pubblico, fa sì che la gestione se non proprio la cura del paziente psichiatrico sia demandata in moltissimi casi interamente alla famiglia: la gravità e spesso l’insostenibilità di tali situazioni provocano risvolti negativi dal punto di vista economico, sociale e lavorativo, e si riflette in maniera disastrosa sugli equilibri familiari, già pesantemente compromessi dalla condizione di salute del familiare e da tre anni di pandemia, aggravate dalle difficoltà di accesso alle cure”.
Anche a fronte della ridefinizione della rete assistenziale e dei nuovi assetti strutturali e organizzativi che dovrebbero derivare dal Pnrr pure per la salute mentale (successivamente all’Intesa sulla “nuova metodologia per il calcolo dei fabbisogni di personale del Ssn” approvata dalla Conferenza Stato Regioni nel dicembre 2022), il rapporto di Cittadinanzattiva lancia un ulteriore allarme: “Laddove permanessero le gravi carenze di personale che oggi contraddistinguono in molte regioni i Dipartimenti di salute mentale, non sarebbe evitabile un più o meno esplicito downgrade sul modello che caratterizza i paesi a basso/medio reddito in cui le funzioni della salute mentale sono in larga parte svolte dalle cure primarie e da ampi ospedali psichiatrici (oltre che da un fiorente mercato privato, limitato alle fasce più abbienti della popolazione). L’auspicio, naturalmente, è che non si giunga a un ridimensionamento di questo genere, peraltro già evidente in alcune regioni. Sta di fatto però che le buone intenzioni manifestate a ogni livello hanno bisogno per realizzarsi di scelte precise, come quelle relative all’adeguamento degli standard strutturali e di personale che l’Intesa prevede”. Ecco, questo sarebbe il tempo in cui discutere di tali prospettive, e, invece, torniamo al cortocircuito del manicomio.
Lo facciamo anche e soprattutto perché continuiamo a ricondurre la questione della sofferenza psichica al ristretto campo dello specialismo “psi”, mentre, come insegna Sergio Piro in Esclusione, Sofferenza, Guerra, “quella sofferenza oscura, che viene comunemente detta malattia mentale, depressione, nevrosi, disadattamento, condizione psicopatologica, etc., è impregnata di esclusione sociale e di guerra (violenza inter-singolare e plurale), talora già nel suo determinarsi, sovente nel suo radicarsi e complicarsi, sempre nella sua immersione sociale e nelle relazioni che vi attengono”.
Allora, ci pare che restituire valore a questo anniversario, provando a evitare lacrimosi sepolcri imbiancati, significhi recuperare la centralità politica della questione salute mentale, restituirla all’intersezionalità che le è propria riconoscendone l’origine nei margini delle esistenze e delle relazioni, individuali e sociali; ricondurla alle biografie e ai luoghi in cui si sviluppa la sofferenza e non a oscure e indecifrabili monadi; ricostruire, ogni giorno, la cura, a partire dalla relazione, rigettando la violenza di ogni tipo di contenzione: fisica, farmacologica, ambientale. E ancora, riconoscere tutti quei luoghi, come molti reparti psichiatrici, strutture residenziali, comunità terapeutiche, che attraverso il dispositivo dell’internamento, barattando la cura con la custodia, già oggi riproducono il manicomio e quel suo terribile tanfo. Basaglia, ricordando il suo ingresso da direttore in un manicomio, scrisse: “Non c’era odore di merda ma c’era come un odore simbolico di merda”. Oggi possiamo dire che prima del manicomio torna a farsi sentire il suo odore.
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Ci sono uomini nel corso della storia umana che lasciano un’ impronta. Un’ impronta che è un segnale di cambiamento. Il Prof. Franco Basaglia, non ha lasciato solo un’impronta, ha lasciato , attraverso il suo lavoro negli ospedali, di Gorizia…di Trieste…., nelle menti fino allora legate a valori ottocenteschi quasi insormontabili, la speranza che una condizione umana nella gestione della malattia cosiddetta “mentale”, può, con buoni risultati , essere perseguita…