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L’incertezza regna sovrana

di Alfonso
Gianni

Nel tempo dei rilancio del sovranismo  l’unica  che può dirsi certa di regnare sovrana è l’incertezza. In estrema sintesi è quanto si può dedurre dalle Previsioni economiche d’inverno 2023 presentate lunedì 13 febbraio dalla Commissione europea. Non siamo gli unici a rilevarlo. Basta scorrere i titoli del Sole 24 Ore del giorno dopo per vedere che i punti interrogativi e i vari “dovrebbe” e “potrebbe” costellano ampiamente le pagine dedicate al commento sul documento europeo. Segno di un cauto ottimismo condito con un sostanziale scetticismo, soprattutto legato alle prospettive che vanno al di là dell’anno in corso, a cominciare dal 2024. Del resto anche il testo diffuso dalla Commissione europea manifesta questa sostanziale ambiguità. Si legge, ad esempio, che “Sebbene l’incertezza che circonda le previsioni rimanga elevata, i rischi per la crescita sono sostanzialmente bilanciati”. Quindi il quadro tende al rosa? Non proprio, visto che subito dopo gli estensori dell’autorevole documento aggiungono “La domanda interna  potrebbe risultare più elevata del previsto qualora i recenti cali dei prezzi del gas all’ingrosso dovessero ripercuotersi più fortemente sui prezzi al consumo e i consumi si dimostrassero più resilienti. Tuttavia, non si può escludere una potenziale inversione di tale calo dei prezzi, visto il protrarsi delle tensioni geopolitiche.” E per queste ultime si intende l’andamento della guerra in Ucraina visto che in conclusione la Commissione afferma che la sua previsione “si basa essenzialmente sull’ipotesi puramente tecnica che l’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina non si intensifichi per tutto il periodo oggetto delle previsioni”. In sostanza tutto, o quasi, dipende dalla guerra, che nel documento è vista da una parte sola per la quale si prevede non la cessazione ma la continuazione sugli standard attuali. Speranza già contraddetta dall’escalation in atto, di cui la richiesta ucraina di armi più potenti e letali, ove il confine tra difensivo e offensivo sparisce del tutto – se mai c’è stato – costituisce un motore determinante. Per cui nel giro di poco tempo le Previsioni della Commissione potrebbero venire falsificate.

Non s’intende qui buttare la croce addosso agli estensori del documento. Va riconosciuto che definire con sufficiente precisione quali siano le prospettive per l’economia mondiale non è comunque certamente facile. Troppi sono gli elementi di novità e di incertezza. Alla crisi economico finanziaria del 2008 e 2009, i cui effetti non sono ancora stati neutralizzati, si è sovrapposta la pandemia del Covid-19 ed ora la guerra russo ucraina. Cosicché le valutazioni più ottimistiche rincorrono quelle che vedono il futuro più grigio e viceversa, in un continuo alternarsi che finisce per rendere dubitabile qualunque tipo di previsione.

Se cerchiamo di fare una media tra le valutazioni, riferite al quadro economico mondiale dei più autorevoli economisti, dei grandi operatori finanziari e manager di  multinazionali, i famosi funzionari del capitale avrebbe detto un redivivo Marx, l’ipotesi più probabile per il 2023 è quella di una recessione “strisciante”. Un termine volutamente a-scientifico, che indica però il fatto che il fenomeno recessivo (che tecnicamente consiste nel verificarsi di due trimestri successivi di contrazione economica) può ripresentarsi in ogni momento, con un movimento di tipo carsico. Solo i più ottimisti si pronunciano per una timida inversione di tendenza nella seconda parte del 2023. Ma non si capisce come, tanto che appare più un wishful thinking che non una ponderata previsione. Circa due terzi dei capoeconomisti che hanno partecipato al sondaggio del World Economic Forum  di Davos si sono detti convinti che la recessione globale  è probabile per quest’anno, mentre il terzo rimanente la ritiene improbabile.

Nessuno in realtà è in grado di rispondere con certezza. Quindi molti si rifugiano negli aggettivi, recessione sì ma breve, sì ma dolce, sì ma limitata e via dicendo. Gita Gopinath, numero due del Fondo monetario internazionale, prevede un miglioramento solo verso la seconda metà di quest’anno con proseguimento nel 2024, poggiando le proprie previsioni sulla ripresa della crescita del Pil in Cina. A quale prezzo di vite umane lo abbiamo appreso dalle parole della Lagarde, quando, nel corso  di un dibattito con la direttrice del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, la presidente della Bce  si è lasciata scappare –  ‘voce dal sen fuggita’ – che “la Cina si sta risvegliando di nuovo. Ora si prevede che registri un 5,5% di crescita nel 2023 e dovremmo dare il benvenuto al suo impegno di rimuovere le restrizioni sul Covid. E’ possibile che il cambiamento delle politiche sul Covid uccida un sacco di persone, ma rilancerà anche l’economia. L’impatto su tutti noi sarà positivo, per la Cina e per il resto del mondo, ma creerà anche pressioni inflazionistiche”. Molto truce, ma almeno chiaro. La Lagarde vuole mostrarsi coerente con la mission della Banca che presiede, che come sappiamo è la stabilità dei prezzi, non certo il benessere delle persone e nemmeno la loro sopravvivenza. Rubando la definizione a Roberto Ciccarelli  che la usa in un suo  articolo su Davos: siamo di fronte all’espressione del più puro  “tanato-capitalismo”.

Quello che è certo è che i periodi tra una crisi e l’altra che contraddistinguono la storia del capitalismo si sono fatti negli ultimi anni sempre più brevi. Fino quasi a sparire del tutto. Secondo l’autorevole Collins Dictionary la parola dell’anno è permacrisis, che indica uno stato di crisi permanente. Un termine che si può accostare a quello di più lontana nascita: policrisi, alludendo in questo caso alla causazione molteplice e contemporanea dei fattori che determinano la crisi.

Se ci riferiamo al nostro paese riscontriamo che, anche se nell’ultimo trimestre del 2022 la crescita è stata per un decimale negativa, l’anno si è chiuso con un aumento del Pil del 3,9%. Quindi nel 2023 si comincerebbe con una base di partenza (la “crescita acquisita”) dello 0,4%. Le stime, in questo caso concordi tra Bankitalia e Fmi, erano fino a poco fa di un aumento del nostro Pil dello 0,6% nel 2023. Anche accettando come probabilmente esatta la stima superiore di due decimali che ci viene ora attribuita,  vuole dire che alla fine dell’anno in corso la crescita sarebbe solo dello 0,4% (per inciso: di poco superiore a quella della Russia che è però oggetto di sanzioni economiche).

Mentre il mercato del lavoro, anche  quando dà qualche segnale di ripresa, continua ad escludere donne e giovani. Il fallimento del Jobs Act è oramai conclamato. Tanto è vero che viene pure disconosciuto da chi l’aveva votato e sostenuto. Secondo le ultime previsioni, Bankitalia vede la disoccupazione in Italia stabile all’8,2% per l’anno in corso, poi forse potrà diminuire leggermente nel biennio 2024-25, ma tutto è legato all’evolversi della situazione internazionale. Intanto la nuova ministra del lavoro, Marina Calderone, intende rilanciare la flessibilità, proponendo un nuovo disegno di legge che vuole togliere ogni tipo di causale ai contratti  a termine, quindi giungere alla loro totale liberalizzazione.  Piove sul bagnato, ove le retribuzioni sono sostanzialmente ferme e quasi la metà dei lavoratori dipendenti è in attesa di rinnovo contrattuale, per cui Bankitalia prevede che la dinamica salariale nel 2023 dovrebbe accelerare assai moderatamente, mentre l’inflazione danza attorno al 7%. La forbice tra questa e gli aumenti salariali diventa veramente insopportabile.

Anche Bankitalia, nel suo ultimo Bollettino, insiste sul fatto che la situazione è caratterizzata da un’elevata incertezza, che sarebbe determinata soprattutto dall’andamento non prevedibile della guerra russo-ucraina. Vero, ma non è certamente una novità assoluta. Cambiano le cause contingenti che la possono incrementare, ma non tanto quelle di fondo, che sono connaturate alla natura del sistema capitalistico ed accentuate particolarmente negli ultimi decenni.

Più di cinquant’anni fa Hyman Minsky scriveva che “la differenza essenziale tra l’economia keynesiana e l’economia sia classica che neoclassica  è l’importanza attribuita all’incertezza”, includendo nell’economia neoclassica anche il tentativo di normalizzazione del pensiero keynesiano cominciato da subito con il famoso articolo di John Hicks del 1937. Ma è indubbio che “l’economia del disastro”, per tornare a citare Minsky, abbia accorciato negli ultimi tempi l’intervallo fra una crisi e l’altra. Fino ad arrivare allo stato di permacrisis, poco sopra ricordato. Secondo alcuni economisti (ad esempio Janet Yellen) gli ultimi tre anni contrassegnati dalla pandemia e dalla guerra in Europa, dove non sono ancora stati smaltiti gli effetti della crisi economico-finanziaria del 2008, “saranno visti come un periodo di instabilità unico nella nostra storia moderna”. Previsione azzardata, quanto al carattere “unico” dell’instabilità,   proprio perché questo periodo appare tutt’altro che concluso.

Se guardiamo alla guerra, appena si intravede una esile fiammella di apertura di un processo di pace  sul versante russo-ucraino, non solo viene immediatamente spenta dai comportamenti dai vari attori in campo, ma  è subito accompagnata dal surriscaldamento delle tensioni in altre parti del continente, quali quelle al confine fra la Serbia e il Kossovo. Come a sottolineare che ormai la guerra entro il continente europeo è considerata un’opzione sempre possibile, quasi normale.

In questo quadro l’attenzione verso i comportamenti delle banche centrali è diventato quasi spasmodico. Tra le maggiori 26 banche centrali del mondo, ben 22 hanno alzato i tassi di interesse. Lo hanno fatto 137 volte aumentando così il costo del denaro di 82,6 punti percentuali. Diverse tra loro, tra cui la Bce, hanno iniziato o annunciato la riduzione del bilancio (quantitative tightening). Nei primi giorni di febbraio la Bce ha annunciato l’aumento di altri 0,50 punti  dei tassi di interesse, portandoli quindi al 3%. Si tratta del terzo aumento consecutivo che ha riportato le percentuali ai valori del 2008, durante la crisi dei sub-prime.

In conferenza stampa la Lagarde ha annunciato che a marzo ci sarà sicuramente un altro aumento, presumibilmente di pari entità. Allo stesso tempo ha fatto intravedere uno spiraglio verso decisioni meno restrittive in futuro. Questo ha fatto sì che i mercati abbiano accolto favorevolmente le parole della Presidente del Bce, con un incremento nelle maggiori borse europee. Ma si tratta di interpretazioni, ovvero di scommesse.

Le attese delle decisioni sui tempi e sull’entità dell’innalzamento dei tassi tengono col fiato sospeso non solo le famiglie alle prese con l’aumento dei prezzi e dei mutui, ma i governi. L’indipendenza delle banche centrali – mantra del neoliberismo – si è risolta  nella dipendenza degli esecutivi da queste. Perciò si alza il richiamo alla trasparenza e alla necessità che le banche centrali traccino un percorso definito, anziché vivere alla giornata o quasi. Cosa che la Lagarde finora non aveva fatto, andando avanti riunione per riunione, metodo che peraltro non ha ancora esplicitamente sconfessato.

Sono in molti tra gli operatori in campo economico – finanziario a chiedere che il comportamento della Presidente della Bce smetta di assomigliare a quello della sacerdotessa di Delfi o della Sibilla cumana, i cui responsi contenevano una tale ambiguità da potere essere interpretati in maniera esattamente opposta. Altri chiedono che l’autonomia dalle interferenze dei governi venga almeno bilanciata dal rendere conto nei parlamenti. In primo luogo ciò dovrebbe avvenire a livello europeo, non in modo occasionale e non solo sulla valutazione del già fatto, ma sulla programmazione del fare. In sostanza un altro mantra del neoliberismo, quello della indipendenza delle banche centrali comincia a vacillare.

Ma quanto riferisce la Commissione sulle linee guida della riforma del patto di stabilità si muove in tutt’altra direzione: quella di accentrare potere nelle mani della Commissione stessa, riducendo ulteriormente il ruolo del Parlamento. Non solo di quello europeo, ma anche dei parlamenti nazionali le cui decisioni sui bilanci dovrebbero sottostare ai percorsi decisi dalla Commissione. Sparirebbe l’incredibile norma del rientro al 60% del rapporto fra debito e Pil in venti anni, ma si irrigidisce il controllo della Commissione sul percorso economico dei singoli stati. La Ue in particolare rimane così stretta fra aumento dell’inflazione – essendosi preclusa la possibilità di agire sulle sue cause esogene, in particolare la guerra – e precipitazione nella recessione.

Tornando ai binari dell’incertezza su cui corrono le Previsioni per l’inverno della Ue – quelle di primavera verranno rese note a maggio – e alle prospettive per il nostro paese, quel pallido sorriso di fronte allo scampato pericolo di una recessione tecnica nell’immediato, si spegne del tutto, quando i dati di Bruxelles retrocedono l’Italia per il 2024 all’ultimo scalino continentale della crescita, ovvero nella posizione che già occupava prima dello scoppio della pandemia.  Insomma l’altalena continua e per fermarla serve un cambiamento della politica economica e non tanto monetaria – fermo restando che l’innalzamento dei tassi aggravano la situazione – a livello europeo e non solo italiano.

Infatti non è vero che sia impossibile sfuggire alla alternativa fra inflazione e recessione. A parte il fatto che possono verificarsi contemporaneamente, come ci ha insegnato a suo tempo la stagflazione,  ma ci viene un esempio anche da un paese lontano, il cui governo non ha certo le stimmate della sinistra. Mi riferisco all’Indonesia. Il suo Ministro delle Finanze, durante l’apertura del vertice del G20 dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche centrali lo scorso 12 ottobre 2022, ha avvertito che “l’economia globale si sta dirigendo verso una vera e propria tempesta”. Per cui bisognerebbe ricorrere a misure keynesiane di politica fiscale anticiclica. L’Indonesia, in modo del tutto analogo alla Ue, aveva regolamentato la sua politica fiscale ponendo un limite al deficit di bilancio del 3% del Pil e sul debito pubblico complessivo pari al 60%. Ma, dopo poco tempo dall’11marzo 2020, quando l’Organizzazione mondiale della sanità avvertì il mondo dello scoppio della pandemia, il governo indonesiano ha rivisto la legge di bilancio autorizzando un aumento del deficit. Come si vede il contrario dell’Italia che ha addirittura posto in Costituzione il pareggio di bilancio. In questo modo, ha sostenuto il ministro, l’Indonesia è stata uno dei pochi paesi a livello mondiale a “sostenere la sua perfomance economica  anche di fronte allo shock della domanda aggregata su scala globale”.

Che il debito sia cresciuto su scala globale è certamente vero. Che non tutti i paesi siano nella stessa condizione, per quantità e composizione del debito, altrettanto. Che esistano proposte di ingegneria finanziaria per cercare di attutirne gli effetti negativi è acclarato, anche se non nella loro efficacia, visto che non sono state messe in pratica. Tuttavia la vera soluzione del problema è, guarda caso, politica, e potrebbe esprimersi in una conferenza mondiale che si proponga di evitare default – per diversi paesi africani già avvenuti e per molti altri imminenti – ristrutturando e cancellando in tutto o in parte la montagna di debito inesigibile.

Non basta però richiamarsi al keynesismo solo come metodo. Se negli Usa l’inflazione è in gran parte dovuta all’innalzamento dei prezzi dei beni di consumo, in Europa questa dipende per due terzi dal caro-energia. Qui più che altrove il tema è: quali consumi e quali investimenti. Affrontarlo a livello europeo è necessario. Come è indispensabile avere un bilancio della Ue dotato di una sufficiente ampiezza per sostenere la conversione ecologica dell’economia – da articolare in una miriade di realistici progetti sul territorio – che è la leva indispensabile di un diverso sviluppo sociale ed economico. E questa richiede la pace. Forse mai come in questo momento, su scala planetaria, i temi della conquista della pace, della difesa dell’ambiente, di un nuovo modello di società, con tutto quello che comporta nel campo delle politiche economiche, sono tra loro strettamente intrecciati.

Alfonso Gianni

 

https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/ip_23_707

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