In questi tempi in cui il lugubre rumore della guerra ci rende frastornati, non possiamo esentarci dal riflettere su ciò che è la guerra, la guerra senza aggettivi, giusta o ingiusta, umanitaria o di conquista, che sia.
In una parte del senso comune, anche grazie al martellamento dei principali canali comunicativi egemonici, la guerra è concepita come un destino ineluttabile delle società umane; anzi addirittura c’è chi sostiene che sia una costrizione biologica, un limite imposto alle società umane dalla natura. La guerra, il fare guerra sembra un’inevitabile conseguenza della vita sociale del terzo scimpanzé: così Jared Diamond definisce gli umani in quanto fanno parte di una catena di ominidi che discende da un antenato comune con le due specie del genere PAN scimpanzé e bonobo o scimpanzé pigmeo.
La costruzione della guerra come elemento naturale cerca di appoggiarsi ad una becera antropologia evolutiva che vede in alcuni episodi circoscritti di uccisioni intergruppo, rilevate in comportamenti sociali di scimpanzé, un antesignano evolutivo della pratica della guerra tra i Sapiens. Tuttavia è bene chiarire subito che non c’è nessun “gene” della guerra, non c’è nessun imperativo biologico che sostenga la naturalità della guerra. In realtà le società umane possono scegliere se costruirsi per la guerra o costruirsi per la pace. Oltre al famoso saggio di Margaret Mead sulla guerra come “invenzione”, in cui si chiede appunto se “is war a biological necessity, a sociological inevitability or just a bad invention”, rispondendo che è una cattiva invenzione. Molti recenti studi approfondiscono in questa linea gli studi come ad esempio quelli dell’antropologo statunitense Brian Ferguson che si è dedicato allo studio della guerra dagli anni Ottanta. Nel testo “War is not part of human nature”, pubblicato nel 2018 su Scientific American o ancora il più recente testo Chympanzees war and history, are men born to kill?, smonta le teorie citate esaminando anche le differenze nell’organizzazione della violenza tra scimpanzé e bonobo o scimpanzé pigmeo oltre ad analizzare il percorso di sviluppo tra gli umani della guerra. Nel suo libro Ferguson esamina le condizioni che hanno portato negli scimpanzé a questi rari episodi di uccisioni intergruppo e sostiene che la violenza mortale tra gruppi non è un modello di comportamento normale ed evolutivo, ma una risposta situazionale a una storia locale di interferenze umane. I bonobo, per altro – aggiunge – hanno qualcosa che li allontana dalla predisposizione a lottare, ovvero un’organizzazione sociale molto diversa dagli scimpanzé.
Inoltre nota come un cucciolo di scimpanzé cresca osservando “un mondo adulto dove i maschi dominano le femmine e le femmine non passano molto tempo con altre femmine. I maschi passano un sacco di tempo con altri maschi, […] e questo li porta a impegnarsi in una competizione di rango secondo il paradigma maschio contro maschio”. Nei bonobo, al contrario, “se un maschio vuole salire nella gerarchia […] deve essere meno aggressivo… perché la struttura della società è basata su una scala a due sessi”. La differenza centrale dei due sistemi sta nel rapporto tra i generi e nel conseguente modello educativo.
Certamente gli umani possono fare la guerra, hanno le capacità di organizzare eventi bellici molto importanti così come possono riuscire ad operare anche scelte che li condannino alla loro stessa estinzione. Possono parimente fare scelte nell’organizzazione sociale che li portino a escludere la guerra come strategia di convivenza e sviluppo.
Lidia Menapace ci ha lasciato in eredità lo slogan “Fuori la guerra dalla storia” proprio per ricordarci tutto questo. Ci ricorda che tutto ciò che è umano è frutto di un intreccio profondo tra il dire e il fare, tra la dimensione simbolica e quella operativa. Ci ricorda che la guerra è anche una forma ideologica di interpretazione delle relazioni sociali. Ci ammonisce anche che l’ideologia della guerra ha prodotto un mondo sull’orlo dell’olocausto nucleare. Una guerra atomica che, sebbene non porti direttamente all’estinzione della specie umana, può avere conseguenze devastanti per l’umanità. E più in generale le guerre e i conflitti evidenziano le profonde contraddizioni sociali e strutturali che minano la stabilità e la sostenibilità della società umana.
La guerra d’Ucraina e quella di Gaza, ad esempio, hanno dimostrato come i conflitti possano amplificare le crisi economiche, ambientali e sociali, creando una catena di effetti che producono conseguenze a lungo termine per l’umanità. La guerra intensifica le disuguaglianze e le tensioni sociali, rende sempre più difficile raggiungere una pace duratura e una convivenza armoniosa. La violenza strutturale e culturale, che accompagna i conflitti, perpetua cicli di oppressione e sfruttamento, impedendo soluzioni che affrontino le cause profonde dei problemi. La guerra, quindi, non solo causa sofferenze immediate, ma compromette anche la capacità dell’umanità di affrontare le sfide future, come il cambiamento climatico e la sostenibilità ambientale. Per superare queste sfide è necessario un approccio che vada oltre la logica del profitto e dello sfruttamento, promuovendo invece una visione di sviluppo in armonia con la natura e la giustizia sociale.
La guerra non è un virus o un batterio, non è una malattia congenita che ci colpisce malgrado tutto, la guerra è una costruzione del tutto umana che ha costellato la storia tanto da relegare la pace ad un interstizio tra le guerre. Virus linguistici come si vis pacem, para bellum si installano nelle nostre menti e girano quasi inconsapevolmente nei nostri pensieri come una cantilena ritmata a preparare la guerra. Al di là della contraddizione logica della locuzione, se A allora non A, il significato profondo di quest’affermazione è l’ineluttabilità e naturalità della guerra. La guerra tuttavia non è da considerarsi una regressione verso uno stato di natura ma piuttosto l’avanzare verso una cultura della sopraffazione e del dominio a scapito di una cultura della convivenza. Costruire la pace significa costruire una cultura della convivenza in grado di prevenire lo scontro armato. Invece il “para bellum” significa coltivare un ambiente sociale armato, un ambiente sociale costruito per la guerra; l’humus di questo ambiente è sia materiale sia simbolico, sia fatto di armamenti sempre più aggressivi a cui vengono destinate ingenti quantità di risorse che potrebbero essere impiegate altrimenti, sia fatto di produzione di immaginario che si avvale di tutte le modalità di comunicazione non solo esplicite ma spesso implicite, come il colore mimetico degli abiti, la colorazione militare delle automobili, le mode che scimmiottano la divisa militare, fino all’esplicito uso dei rituali militari. Tutto questo si addensa intorno alla dottrina della deterrenza armata, oggi atomica. La deterrenza servirebbe a scoraggiare il “nemico” dall’attaccare ma al contempo crea un riflesso speculare che induce il nemico a sentirsi sotto pericolo e a sua volta a cercare di superare in armamenti il suo avversario.
La corsa agli armamenti atomici nella guerra fredda è l’esempio più chiaro. Gregory Bateson la annovera tra i comportamenti del tipo schismogenesi simmetrica che, se non interrotto, porta alla deflagrazione delle tensioni. Mentre Orwell, l’inventore dell’espressione guerra fredda, la definì una pace che non è pace. Nel suo saggio You and the Atomic Bomb, pubblicato il 19 ottobre 1945, Orwell inoltre traccia un parallelo tra l’evoluzione delle armi e la storia della civiltà, in cui sostiene che le armi complesse favoriscono il dispotismo, mentre quelle semplici promuovono la democrazia. La bomba atomica, essendo estremamente costosa e difficile da produrre, rafforza il potere dei pochi a discapito dei molti.
La critica alla guerra, all’ideologia della guerra non è nata però di recente e/o dopo la realizzazione della bomba atomica, ma affonda le sue radici nei secoli e nelle culture. Erasmo da Rotterdam, all’inizio del Cinquecento scrisse un lungo commento al detto “Dulce bellum inexpertis” (chi ama o desidera la guerra non ne ha mai fatto esperienza), filtrato nel mondo latino ma proveniente da Pindaro. Uno degli argomenti su cui Erasmo concentra l’attenzione nelle prime pagine della dissertazione è quello della natura e della forma del corpo umano. Il corpo umano non è fatto per la guerra, dice Erasmo, ma per l’amore. Ha le braccia a cerchio predisposte per l’abbraccio. Dedit osculi sensum, la natura ci ha donato il senso del bacio e nel bacio è come se gli animi si toccassero.
Peter Paul Rubens più tardi, tra il 1637 e il 1638, realizzò il dipinto a olio su tela
Le conseguenze della guerra, che si trova attualmente nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze. L’opera è un’importante allegoria che rappresenta i terribili orrori della guerra, tra cui la Guerra dei trent’anni. Al centro della tela, Marte, il dio della guerra, brandisce una spada insanguinata e scaccia le braccia di Venere, la dea dell’amore. Marte, tirato dalla furia Alecto con una falce in mano, e due mostri, che rappresentano la peste e la fame, compagnati inseparabili dalla guerra. Marte calpesta Armonia e Carità, raffigurate rispettivamente come una donna con un liuto rotto e una madre con il suo bambino. Nella parte sinistra del quadro, una donna vestita di nero, con l’abito strappato, alza gli occhi e le braccia al cielo in segno di disperazione, rappresentando l’Europa devastata dalle guerre. Rubens, oltre a essere un famoso pittore barocco, era anche un diplomatico che visse durante anni di terribili guerre per l’Europa, e volle dipingere questo quadro come un monito contro gli effetti distruttivi della guerra. L’opera è un messaggio di pace che esorta gli uomini a convivere pacificamente, dove solo l’arte e la cultura possano dominare l’umanità.
Anche gli scienziati hanno da tempo deciso di schierarsi da parte della pace, famoso infatti è il carteggio tra Einstein e Freud. Di questo carteggio complesso mi piace riprendere una delle considerazioni che Einstein rivolge a Freud: “com’è possibile che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere? (Parlando della maggioranza non escludo i soldati, di ogni grado, che hanno scelto la guerra come loro professione, convinti di giovare alla difesa dei più alti interessi della loro stirpe e che l’attacco è spesso il miglior metodo di difesa.) Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli che di volta in volta sono al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica”.
Altro esempio. Bertrand Russell fu un fervente sostenitore della pace e un critico acuto della guerra e della violenza. Nel corso della sua vita, Russell si dedicò a varie iniziative per promuovere la pace e il disarmo, tra cui la sottoscrizione del Manifesto Russell-Einstein nel 1955, un appello per il disarmo nucleare firmato da altri nove intellettuali, di cui otto premi Nobel. Russell credeva che la pace non potesse essere raggiunta solo attraverso sentimenti pacifisti, ma richiedesse anche un’organizzazione economica mondiale per salvare l’umanità dal suicidio collettivo. Egli sostenne che la pace sarebbe stata più facilmente raggiungibile se le relazioni internazionali fossero state controllate da un’autorità neutrale, in modo da prevenire le richieste di forza sia aperte sia coperte.
Riccardo Putti