Intervista di Tommaso Chiti a Tommaso Fattori –
L’attivismo durante la stagione del Forum Sociale Europeo ha fatto di Tommaso Fattori un riferimento nelle campagne per i beni comuni e la democrazia partecipativa, divenendo portavoce del Forum di Firenze nel 2002; promotore dei vittoriosi referendum del 2011 contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali; ambasciatore europeo della prima Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE), giunta sul tavolo della Commissione UE.
Fattori è poi stato fino al 2014 direttore di transform! italia – il nodo italiano del think tank della sinistra europea – collaborando come consulente per il Consiglio d’Europa a Strasburgo nella divisione su ‘Coesione Sociale, Ricerca e Prevenzione’, in qualità di esperto in materia di servizi pubblici, beni comuni e diritti umani.
Nel 2015 si è candidato come presidente della lista Sì-Toscana a Sinistra[1], che per la prima volta ha raggruppato le forze della sinistra radicale alle elezioni regionali in Toscana, conquistando il seggio in Consiglio regionale, dove si è impegnato negli ultimi anni a portare avanti proposte per un modello di sviluppo alternativo.
Guardando al tuo incarico da Presidente della Commissione per le Politiche Europee e gli Affari Internazionali presso il Consiglio della Regione Toscana, qual è il bilancio di questo tuo mandato, quali le iniziative che hanno caratterizzato una simile esperienza, a conclusione di questa legislatura?
Non appena eletto Presidente della Commissione per le Politiche Europee nel 2015, sono rimasto stupefatto per il ruolo marginale riservato alle questioni europee nel Consiglio regionale della Toscana. Quasi tutto era delegato alla Giunta ed il nostro ruolo, come assemblea legislativa, era di mera ricezione ed attuazione delle scelte di Bruxelles. Mi sono dunque adoperato per ribaltare questo modello totalmente passivo, attraverso un processo che è partito dalla definizione del programma di legislatura.
Alla scadenza del mandato, terminato pochi mesi fa con l’approvazione unanime di due proposte di legge a mia prima firma, è stata finalmente resa permanente questa Commissione per le Politiche Europee aumentandone i poteri, mediante l’istituzione della sessione europea del Consiglio regionale, dando all’assemblea legislativa un ruolo fondamentale, altrimenti in capo al solo governo regionale; ed infine strutturando la partecipazione del Consiglio alla così detta fase ascendente di elaborazione delle politiche europee. In sintesi, essendo quest’azione un’opportunità prevista dai Trattati, d’ora in poi, come Consiglio regionale, prenderemo parte attiva alla formazione degli atti legislativi europei, formulando osservazioni e proposte, con un ruolo proattivo nella fase di formazione e definizione delle norme, anziché limitarci a recepire passivamente ciò che viene deciso a Bruxelles.
È un recupero di protagonismo da parte del Consiglio, ossia dell’organo rappresentativo e legislativo, sia nei confronti dell’esecutivo regionale, sia nei confronti della stessa Commissione Europea. È stata una piccola rivoluzione, a cinquant’anni dall’insediamento del primo Consiglio regionale nel 1970, e sono felice di esserci riuscito, con l’unanimità dei voti.
Rispetto al lavoro istituzionale e all’utilizzo dei fondi strutturali europei (soprattutto FEASR e FSE) quanta interdipendenza corre fra lo sviluppo delle politiche in Regione Toscana ed il livello dell’UE; ed in cosa sono necessari cambiamenti?
La questione dei fondi europei, fondamentali per gli investimenti in epoca di pareggio di bilancio, è complessa. In questi anni da presidente della commissione consiliare ho cercato di risolvere il problema dei ritardi nella gestione dei bandi europei e nelle liquidazioni di quanto dovuto alle imprese beneficiarie. La macchina di “Sviluppo Toscana”[2] non funzionava a dovere, fino al rischio del cosiddetto ‘disimpegno’, che avrebbe portato alla riduzione di parte dei fondi comunitari assegnati, con gravi ricadute sul tessuto produttivo. I principali problemi erano legati al personale numericamente insufficiente, ad esternalizzazioni che in molti casi hanno rallentato i processi, a procedimenti inutilmente complessi e ad un software di gestione, il cui adeguamento è costato almeno 750 mila euro, che ha impiegato molto tempo per entrare a regime. Ho quindi stimolato la Giunta, attraverso il lavoro di Commissione, ad operare una riorganizzazione del sistema e a fare un consistente numero di assunzioni in Sviluppo Toscana, che adesso sta procedendo bene, rispetto ad un paio d’anni fa, quando la cosa non era affatto scontata. Si tratta di un lavoro che non ha avuto visibilità mediatica, ma che è stato fondamentale per l’economia della nostra regione.
Più in generale, rispetto alla relazione fra UE e regioni, per quanto concerne i fondi strutturali, per come la vedo io, il tema è la redistribuzione di risorse tra regioni e stati membri, da una parte; e la definizione di una visione di lungo periodo, anche da parte delle Regioni, che ad oggi manca del tutto. La Toscana, come peraltro il nostro Paese, è da tempo priva di una qualsivoglia politica industriale – che preferisco chiamare ‘politica eco-industriale’, a sottolineare la necessità di convertire ecologicamente tutte le produzioni per assicurare un futuro al pianeta – e troppo a lungo si è ritenuto di assecondare in modo passivo le sole richieste delle grandi imprese, credendo che calibrare gli investimenti pubblici sulle loro esigenze avrebbe generato benessere ed inclusione sociale. Fra le criticità maggiori: stanno poi scomparendo gli spazi partecipativi e di coinvolgimento della cittadinanza. Il nodo non è solo la quantità dei fondi europei che arrivano sul territorio, ma anche come li si spende e che strategia vi è dietro. I cittadini non vengono coinvolti, i territori non dibattono su come usare i fondi.
Rispetto anche alla crisi dei debiti sovrani del 2010 ed a principi più volte messi in discussione, come quello del coordinamento e della solidarietà fra stati membri, come vedi l’Unione ai tempi del coronavirus e come ti sembrano le reazioni da parte delle principali istituzioni dell’UE, dopo le ultime elezioni dello scorso maggio?
Ci troviamo davanti ad un bivio, che è allo stesso tempo l’occasione per ripensare l’Europa e trasformarla radicalmente. In queste settimane è però emersa, purtroppo, tutta l’inadeguatezza della classe politica europea attuale, legata a doppio filo a corposi blocchi di interesse e dunque composta da custodi dell’esistente più che traghettatori verso un’altra Europa. La Germania guida le danze, riproponendo la solita ricetta dell’austerità di bilancio come soluzione ai problemi. Una ricetta ormai smentita dalla macroeconomia e dall’esperienza. Tuttavia, se davvero prevarrà ancora una volta la tesi dell’austerity come strumento per uscire dalla crisi, facendo saltare ogni residua possibilità di solidarietà fra Stati membri, deflagrerà la stessa Unione Europea. In questo momento i cittadini chiedono più protezione sociale, più servizi pubblici, più stato sociale. E serve una spesa in deficit per finanziare la ricostruzione del sistema produttivo, con capacità di visione e di politica eco-industriale: ovvio che il debito pubblico aumenterà, ma aumenterebbe ancor più in mancanza di investimenti da parte dello Stato. Sarebbe folle restaurare il modello economico pre-crisi, ammesso che sia possibile farlo, serve piuttosto una vera conversione ecologica delle produzioni, nazionalizzare le imprese non sostenibili e una parte del sistema bancario, regolare i mercati finanziari e introdurre limitazioni alla circolazione dei capitali, prevedere un piano di reindustrializzazione ecologica e la transizione alle energie rinnovabili, ri-pubblicizzare i servizi fondamentali e attivare lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza, prevedendo allo stesso tempo una qualche forma di reddito universale, non solo per l’emergenza.
Le priorità impellenti per l’avvio di una soluzione riguardano insomma la rimozione del Patto di Stabilità, l’emissione di ‘CoronaBond’ e finalmente la riforma della BCE rendendola prestatrice di ultima istanza. Anche perché la liquidità è necessaria e allo stesso tempo è insufficiente dato che, come molti autorevoli economisti hanno rilevato, non ci troviamo davanti ad una replica della crisi dei mutui subprime del 2008: non abbiamo solo un problema sul fronte della domanda, ma anche un problema sul fronte dell’offerta e dell’economia reale.
I margini per questo cambiamento ci sono, certo, perché è sempre più forte la richiesta di welfare e protezione sociale da parte della cittadinanza europea, a cominciare dai paesi del Sud, ed è sempre più diffusa la coscienza dell’imminente disastro ambientale. Si tratta di capire se una rinnovata Unione Europea, solidale, sarà in grado di dare risposta a queste domande diffuse oppure no. In parte l’esito, che potrebbe essere anche la fine stessa dell’Unione, dipenderà dalla capacità dei sindacati e dei movimenti di tornare ad organizzarsi su scala continentale, con una nuova stagione di lotte coordinate come quella che si aprì circa venti anni fa, all’epoca del Forum Sociale Europeo.
I danni strutturali provocati a welfare e servizi pubblici da decenni di provvedimenti neoliberisti e con la privatizzazione di sanità, indennità e tutele sul lavoro sembrano premonire sempre nuovi stati d’emergenza, con il cerchio che si chiude su derive tendenti ad autoritarismi, sospensione di certe garanzie costituzionali, provvedimenti reazionari di tipo sovranista – specialmente riguardo ai diritti umani e di asilo politico – e la prevalenza dei governi decisionisti sulla rappresentanza popolare, sugli stessi parlamenti o consigli.
Credi che una simile tendenza anche per l’attuale pandemia da Covid19 – di fatto con la chiusura di Shenghen e la ridiscussione dell’unione monetaria con il MES – acceleri questa deriva o ci sono margini e modi per un’integrazione transnazionale, che metta al centro popoli e beni comuni?
Non c’è dubbio che il Patto di stabilità e i vari vincoli di bilancio abbiano trasformato ciò che avrebbe potuto essere un grave problema sanitario in una tragedia. Prevenire una pandemia non è redditizio, a breve termine, e per questo l’UE, dopo anni di ricette neoliberiste e di tagli, non aveva mascherine e non aveva test sanitari da eseguire in massa, per individuare e isolare i primi casi di Covid-19. Sono stati anche tagliati posti letto negli ospedali e ridotto il personale medico-sanitario, in nome dello smantellamento del servizio pubblico e del presunto risparmio, che ora si rivela, alla luce dei fatti, un costo immenso, non solo in termini economici ma anche di vite umane.
Se sono dunque le politiche neoliberiste ad averci condotto alla tragedia, allo stesso tempo è vero che si sta diffondendo la tentazione di utilizzare l’emergenza per comprimere le libertà civili e compiere scelte autoritarie destinate a durare anche oltre l’emergenza, come nel caso dell’Ungheria di Orban, ancora esponente del Partito popolare europeo, vale la pena ricordarlo (!). Già da lungo tempo assistiamo all’ipertrofia degli esecutivi che si mangiano e annullano le assemblee elettive, adesso l’emergenza porta questo processo al suo grado più estremo. Il che è molto pericoloso soprattutto perché si accompagna alla narrazione sulla presunta maggior efficacia dell’autoritarismo rispetto alle lentezze della democrazia. Anche in questo caso, come già per l’Unione Europea, ci troviamo davanti ad un bivio, e il rischio di un’involuzione è molto concreto, ma un esito diverso è possibile e cosa accadrà dipende dall’impegno di tutti noi.
Negli ultimi anni la sinistra in Italia risulta elettoralmente esigua e politicamente frammentata ed ininfluente. Anche altrove, ad esempio Syriza e Podemos hanno subito battute d’arresto alle rispettive parabole ascendenti. In generale non sembra che le principali formazioni d’ispirazione internazionalista siano in grado di costruire un fronte europeo, sulla cui scena è paradossalmente più incisiva la presenza di quella che viene definita “l’internazionale nera” con partiti di stampo fascio-sovranista, che in Polonia, Italia, Ungheria e Germania ha visto raduni squadristi imponenti. Come rispondere ad una simile minaccia, rilanciando in questa fase l’impegno per un’alternativa radicale in Italia ed in Europa?
Le ragioni del rafforzamento dell’estrema destra sono in gran parte sociali. La destra offre risposte sbagliate a domande giuste, a partire dal bisogno di protezione dalla precarizzazione della vita, a cui le politiche realizzate anche dal cosiddetto centrosinistra hanno lasciato esposta una larga parte della società. È dunque alla radice che dobbiamo andare, costruendo un’Europa sociale. Non c’è, insomma, una misteriosa onda nera, che nasce dal nulla e tutto sommerge, questa orribile destra è solo uno dei tanti effetti delle politiche attuate negli ultimi decenni. Anche il tema dell’invasione dei migranti è utilizzato e cavalcato ma spesso i successi dei partiti xenofobi si registrano dove l’immigrazione quasi non esiste e dove la paura basta e avanza. Una paura che alligna nei ceti di piccola borghesia in via di declassamento, o nei ceti popolari che si sentono abbandonati da chi governa. Va data una risposta da sinistra a questo giusto bisogno di protezione sociale e a mio parere serve dare una risposta transnazionale. Penso cioè che i movimenti sociali e i movimenti sindacali debbano, in questa fase, fare un nuovo sforzo di connessione, quantomeno su scala europea, uscendo dalla frammentazione e dalla chiusura nelle rispettive dimensioni nazionali, che è uno dei motivi di maggior debolezza. La stessa cosa dovrebbe fare la sinistra politica, provando finalmente a dar vita ad una vera forza europea. La sinistra non si è mai organizzata a livello transnazionale in modo efficace e nel migliore dei casi, i partiti nazionali si sono semplicemente posizionati sotto ombrelli confederali in cui ciascuno mantiene la sua autonomia; e lo stesso si può dire per i sindacati. Servirebbe invece un vero coordinamento europeo, capace di darsi un’agenda comune, di avere proposte condivise, di organizzare iniziative e battaglie politiche coordinate. Un partito di sinistra capace di porsi all’altezza della sfida, un’altezza che è quantomeno europea.
In un simile quadro di stravolgimenti climatici epocali, guerre pluriennali e dilaganti – soprattutto dal Medio-Oriente al Nord-Africa, passando per i paesi del Golfo Arabo – di pandemie globali e crisi socio-economiche, fa emergere tutte le iniquità di una globalizzazione per profitti di pochi, a scapito dei diritti di tutte e tutti. Non ti pare matura la fase di un nuovo ciclo di Social Forum, magari a venti anni di distanza di quello in concomitanza con il G8 di Genova?
Sì, come dicevo, penso che l’obiettivo per cui lavorare sia la riconnessione delle lotte, dei movimenti e dei sindacati su scala almeno europea e possibilmente globale. Non so se le forme debbano essere quelle del movimento altermondialista e del Forum Sociale Mondiale o magari forme nuove e ancora da inventare, ma il modello violento della globalizzazione neoliberista – che ho sempre preferito chiamare ‘globalizzazione privatista’ poiché l’obiettivo ultimo, al di là dei mezzi e delle politiche di volta in volta utilizzati, è la mercificazione di tutto – sta facendo esplodere le diseguaglianze e sta distruggendo il pianeta. Non c’è futuro e non c’è pace senza giustizia sociale e giustizia ambientale, e siamo in tante e tanti a batterci per questi obiettivi, dobbiamo ora trovare un modo efficace per unirci e costruire strategie comuni.
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