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La condizione carceraria nella storia dell’antica Roma

di Maria
Pellegrini

di Maria Pellegrini –

«I detenuti non escono, quindi non occupiamoci di loro che sono al sicuro da contagio», questo è il pensiero inopportuno espresso giorni fa da qualche incosciente mentre ci sono già notizie di contagiati nelle carceri, come era inevitabile perché non mancano contatti con l’esterno e la concentrazione di persone in luoghi ristretti aumenta il rischio della diffusione del virus. Arrivano numerose segnalazioni all’associazione Antigone di violenze e abusi che sarebbero stati perpetrati ai danni di persone detenute dopo le rivolte nelle quali sono morti in circostanze ancora da chiarire tredici carcerati. La condizione carceraria è una vera emergenza, occorrono interventi urgenti da parte di governo e parlamento. Purtroppo ancora per molti rimane saldo e irremovibile il concetto che chi ha sbagliato debba essere punito, debba soffrire. La pena è ancora intesa come vendetta sociale che mira a negare al colpevole del reato ogni diritto, ogni sguardo di umanità. Quanto più la pena è gravosa tanto più è considerata un deterrente per chi intenda delinquere. Ancora si deve provvedere, ad eccezione di alcuni casi, a una carcerazione degna di un essere umano per quanto ignobile possano essere state le sue azioni mentre è necessario ricusare il principio della pena come punizione e adottare quello della pena come rieducazione.

Se rileggiamo la storia romana così ricca di voci poetiche e storiche di alto livello e di grande umanità, purtroppo constatiamo un’ampia documentazione di efferate crudeltà, torture, sopraffazioni soprattutto nei confronti dei vinti, dei prigionieri politici e dei delinquenti comuni, che non depongono a favore dell’idea di civiltà comunemente accumunata alla storia di Roma. Un aspetto di queste crudeltà ed efferatezze è la condizione riservata a chi provvisoriamente fosse rinchiuso in un carcere in attesa della punizione, che poteva essere, secondo la gravità, la condanna a morte, la vendita come schiavo, un risarcimento economico o l’esilio con la confisca dei beni.

Il carcere nell’antica Roma fu concepito come un mezzo per tenere l’accusato di qualche colpa in custodia perché non si sottraesse alla giustizia, quindi non contemplava la funzione di pena o di recupero di un recluso. Durante lo svolgimento del processo, la privazione della sua libertà ne impediva la fuga, permettendo di istruire la causa e dopo la condanna garantiva l’esecuzione della sentenza, ma il diritto romano, scrive Tommaso Buracchi (in Origini ed evoluzione del carcere moderno) «cominciò a intendere il carcere pure come forma di grave afflizione da riservarsi ai criminali peggiori, perché iniziassero a soffrire prima ancora della materiale esecuzione della condanna capitale»; in virtù di queste intenzioni i detenuti erano sottomessi a privazione di cibo, stupri, bastonature e ogni tipo di violenza. Spesso i prigionieri morivano prima della condanna, a seguito delle torture e dei supplizi cui erano sottoposti per estorcere confessioni, ritrattazioni o altro.

L’unico fabbricato costruito sul Campidoglio nella Roma al tempo della monarchia e destinato a funzione di prigione, fu il carcere Tulliano. Secondo Livio, che lo fa risalire ad Anco Marzio nel VII secolo a.C., il nome potrebbe derivare da tullus (polla d’acqua che affiorava all’interno delle cave) ma c’è chi lo riconduce a Servio Tullio o Tullio Ostilio, supponendo anche iniziative di questi re alla sua costruzione.

Il carcere Tulliano, conosciuto nel medioevo con il nome di Carcere Mamertino (probabilmente dal dio sabino Mamers, Marte, di cui esisteva un tempio nelle vicinanze), è ubicato sotto altri due edifici: la cappella del SS. Crocifisso e la Chiesa di S Giuseppe dei Falegnami, risalente al XVI secolo, situati all’attuale livello stradale. Per arrivare al livello antico bisogna scendere tramite una rampa di scale nel sottosuolo dove si trovano due grotte sovrapposte. In quella inferiore, più antica, erano eseguite le condanne a morte, di solito per decapitazione o strangolamento, in quella superiore, costruita più tardi, erano trattenuti i rei in attesa di giudizio. Il carcere ospitò illustri prigionieri: Giugurta, Vercingetorige, alcuni congiurati complici di Catilina; vi fu rinchiuso e vi trovò la morte anche Seiano il prefetto del pretorio di Tiberio e la sua famiglia. Non vi furono imprigionati invece Pietro e Paolo perché la storia della loro carcerazioni a Roma è una leggenda medievale anche se oggi il carcere è ricordato come la loro prigione e moltissimi sono gli aneddoti riguardanti fatti là accaduti. Questo luogo di reclusione è il solo arrivato sino ai giorni nostri ma non poteva essere l’unico, un carcere era presente anche nei Castra Praetoria, custodito da pretoriani. Domizio Ulpiano, politico e giurista romano del II secolo d. C, considerato uno dei maggiori esponenti della dottrina giuridica romana, ci informa dell’esistenza di altre carceri pubbliche in Roma riportando che l’imperatore Adriano si stava occupando anche di regolamentare la gestione dei carcerati. Le prime sommarie regolamentazioni del carcere furono promosse molto più tardi da Costantino e successivamente da Giustiniano.

La gestione del carcere Tulliano, di altre prigioni e delle esecuzioni capitali, era affidata a una Autorità costituita da tre persone, i Tresviri Capitales, che però non avevano molto personale a disposizione, anche perché non ne occorreva. I reclusi restavano poco nel luogo, si passava subito all’esecuzione della pena che, variava a seconda della gravità, ma la morte o l’esilio era la sanzione più eseguita. L’esecuzione di prigionieri di guerra di una certa importanza avveniva subito dopo la grande processione del trionfo, come nel caso di Giugurta, ma a volte anche lunga come accadde a Vercingetorige che in attesa del trionfo riservato a Cesare passò sei anni nel Tulliano prima di essere strangolato o decapitato.

Sui prigionieri illustri abbiamo notizie attraverso i racconti degli storici. Nel Bellum Iugurtinum Sallustio ha lasciato il resoconto dei sei anni (111-195 a.C.) della guerra dei romani contro Giugurta, nipote del re di Numidia Micipsa che prima di morire lo aveva adottato. Il regno dunque fu ereditato dai figli, Jerbale e Aderbale, e da Giugurta. Sorsero dissensi fra loro, Giugurta mosso dall’ ambizione di divenire unico re aveva tentato di usurpare il trono uccidendo prima uno e poi muovendo guerra al superstite che chiese aiuto ai romani. Non è qui il caso di enumerare le lunghe vicende del conflitto, ma ne ricordiamo la fine. Non ancora sconfitto, Giugurta fu consegnato a tradimento ai romani. Il console Mario rientrò dall’Africa vittorioso ed entrò a Roma alla testa di un corteo trionfale mostrando ai romani Giugurta in catene, vivo. Poi fu buttato nel carcere Tulliano, ove le guardie, secondo il racconto di Plutarco, gli stracciarono con violenza la tunica leggera che portava; alcune di loro furono tanto avide, che volendo portargli via l’orecchino d’oro glielo strapparono con forza insieme al lobo dell’orecchio e lo lasciarono là nudo. Dopo essersi dibattuto per sei giorni contro la fame, ed essere rimasto fino all’ultimo giorno aggrappato al desiderio di vivere, fu strangolato.

Sulla morte in carcere di alcuni partecipanti alla congiura organizzata da Catilina e sulla congiura stessa siamo ben informati da Cicerone e Sallustio. Cicerone, allora console (63 a. C.) smascherò i propositi dell’ambizioso giovane, che aveva l’intento di dar vita a un colpo di stato, e pronunciò nel Foro un discorso (passato alla storia come Prima Catilinaria) nel quale informava il Senato del progetto eversivo di Catilina, che prima di essere arrestato si allontanò dalla città. Sallustio, molti anni dopo, intorno al 40 a. C., scriverà un’opera Bellum Catilinarium dove si narra in modo più completo e diffuso l’intera vicenda.

Sia Cicerone che Sallustio con i loro ritratti a tinte fosche, hanno consegnato ai posteri un’immagine spregevole di Catilina che ha incarnato nel corso dei secoli un eversore privo di scrupoli, d’indole malvagia e depravata. Se si riesamina la figura di Catilina con una più attenta valutazione della sua avventura politica e umana evitando l’ottica parziale e faziosa dei suoi nemici, e si rievoca l’atmosfera di quegli anni di grave crisi della repubblica e di aspre lotte fra l’oligarchia senatoria e gli uomini emergenti del partito popolare, si metterà in evidenza il vasto malessere economico e sociale diffuso in tutta la penisola, e ciò che Cicerone e Sallustio chiamarono «congiura» in realtà era uno stato di fatto, un diffuso scontento con ribellioni in tutta l’Italia, una minaccia dunque per la stabilità del governo oligarchico.

Se Cicerone insorse con veemenza contro il nemico politico perché intravide nel suo movimento i germi d’uno sconvolgimento sociale senza precedenti, Sallustio imputò alle masse, insoddisfatte del proprio stato, di sperare in qualcosa di nuovo con l’appoggio al sedizioso piano di Catilina. Sia l’oratore che lo storico furono inclini a forzare i toni delle loro invettive. L’estrema avventura di Catilina si concluse nel 62 a.C. combattendo come un eroe epico, contro gli eserciti consolari inviati in Etruria: «sul volto l’indomita fierezza che aveva da vivo» scrive Sallustio. Gli altri congiurati di cui sappiamo il nome: Lentulo, Cetego, Statilio, Gabinio e Cepario, il 5 dicembre del 65 a.C. furono condotti nel carcere Tulliano dove, calati nella stanza della morte, furono strangolati con un laccio. Cicerone uscì e alla folla in attesa ne annunciò la morte con questa lapidaria espressione: “vixerunt” (vissero)

I giuristi che tenevano al principio di legalità trovarono inaccettabile l’esecuzione di cinque cittadini romani, senza regolare processo e sollevarono serie questioni relative all’interazione tra diritto e politica e alla tutela delle libertà individuali, ma per il momento Cicerone vinse la sua battaglia, ma in seguito il suo atto gli causò gravissime amarezze. Infatti nel 58 a. C. Publio Clodio, eletto tribuno della plebe, propose e fece approvare una legge nella quale si decretava: «Chi ha mandato a morte un cittadino romano senza regolare processo, sia condannato all’esilio». Si voleva colpire Cicerone che aveva fatto giustiziare in prigione, dopo un processo sommario, i complici di Catilina. La lex Clodia de exilio Ciceronis fu approvata e disponeva che l’esiliato dovesse restare al difuori di un raggio di 500 miglia dai confini d’Italia, che il suo patrimonio e le sue case fossero confiscate.

Nel Bellum Catilinarium Sallustio dà una breve ma macabra descrizione della parte inferiore del carcere che fa emergere l’orrore che dovevano subire i prigionieri: «sprofondato a circa 12 piedi sotto terra, è chiuso tutt’intorno da robuste pareti, e al di sopra da un soffitto, costituito da una volta in pietra. Il suo aspetto è ripugnante e spaventoso per lo stato di abbandono, l’oscurità, il puzzo »

Dal De bello gallico di Cesare ci giungono notizie della lunga prigionia e della morte di Vergingetorige, il capo degli Arverni. Era un giovane nobile di grande autorità e prestigio e mirava a rendere il suo popolo indipendente da Roma. Guidò l’insurrezione, propagatasi a quasi tutte le popolazioni e tribù galliche. Gli Arverni erano il popolo più ricco e civile di tutta la Gallia, in buoni rapporti con Roma fino a quel momento.  Cesare con una marcia rapida e audace attraversò le Cevenne coperte di neve, piombò sulla terra di Vercingetorige e la mise a ferro e fuoco. I ribelli impegnarono le legioni romane con continue operazioni di guerriglia evitando battaglie campali e ricorrendo alla tecnica di fare intorno a loro terra bruciata. Con sei legioni Cesare marciò alla volta di Gergovia, capitale degli Arverni. Dopo numerosi assalti e gravi perdite spostò l’assedio alla fortezza di Alesia, dove si era rifugiato Vercingetorige. L’assedio costò numerose e cruente battaglie, ma si concluse con l’espugnazione della roccaforte e la resa del capo ribelle che si offrì come prigioniero. Così ci racconta Plutarco: «indossò l’armatura più bella, bardò il cavallo, uscì in sella dalla porta e fece un giro attorno a Cesare che lo aspettava seduto. Qui giunto scese da cavallo e spogliatosi delle armi restò in silenzio ai suoi piedi». Cesare lo portò a Roma incatenato e lo fece rinchiudere nel carcere Tulliano per conservarlo in vita ed esporlo in catene come ornamento durante il trionfo in onore della sua vittoria, quindi lo fece uccidere (46 a.C.) probabilmente sgozzato.

Attraversando i secoli, troveremo i resoconti di altre crudeltà e della condizione di chi fosse in attesa di giudizio. La prigione sarà descritta anche dal retore Calpurnio Flacco (II sec. d.C.), nelle sue Declamationes: «Ho visto il carcere pubblico costruito di grandi massi, cui si accede per aperture strette e oblunghe che danno appena un po’ di luce in quell’oscurità. Ogni volta che lo stridore della porta ferrata si apre i prigionieri impauriti si guardano l’un l’altro e mentre assistono all’altrui supplizio, apprendono quel che li aspetta. Risuonano lì dentro colpi di frusta, la sporcizia ricopre i corpi, le mani sono oppresse dalle catene».

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