di Franco Russo* –
Carissime/i compagne/i,
con molti/e di voi ho una frequentazione politica pluridecennale: il ’68, la galassia dei gruppi negli anni Settanta, Democrazia Proletaria, poi, dopo il suo scioglimento, la separazione (chi in Rifondazione chi nei rosso-verdi); ci siamo incontrati di nuovo nella Rifondazione della segreteria Bertinotti che si proponeva di oltrepassare cultura e prassi del PCI (purtroppo fallendo nonostante il poderoso movimento antiglobalizzazione del Social Forum Europeo), infine ci siamo divisi nel 2009 quando dopo il congresso di Chianciano RC continuava a mio parere a percorrere vecchie strade. Sempre però abbiamo continuato a collaborare nelle iniziative a difesa dei diritti sociali e di libertà fino all’impegno nei Comitati del NO al referendum per battere la controriforma costituzionale di Renzi. Forte di queste comuni esperienze, mi permetto di rivolgervi a voi, con schiettezza e sincerità, dopo un’altra sconfitta in elezioni che hanno visto il trionfo della Lega di Salvini, capace di tenere insieme uno schieramento interclassista in nome di un identitarismo xenofobo e razzista ‒ la Lega ha vinto a Riace, si è radicata al Sud, ha sfondato al Centro e ha consolidato la sua egemonia al Nord con il proposito di realizzare le infrastrutture che servono alle imprese per rafforzare le loro catene del valore. Anche a livello europeo si è verificato uno spostamento verso la destra xenofoba che predica il nazionalismo per affermare la visione di un’Unione di patrie da erigere in fortezza, a difesa dei valori della civiltà cristiana usata quale fonte di legittimazione della società delle disuguaglianze, dello sfruttamento e delle illibertà. Con papa Francesco la Chiesa di Roma, per solito compromessa con le classi dominanti, è divenuta una comunità di credenti impegnata a sanare ‘i mali del mondo’, preziosa alleata per contrastare le misure disumane della destra xenofoba.
La sinistra oggi non è solo in frantumi, non è solo sconfitta elettoralmente, dal 1989 essa è preda di una consunzione che la sta annientando. Certo agiamo in società profondamente conservatrici, ciò che rende difficile opporsi alle dinamiche del capitalismo, capace di usare credi ideologici, diversi nel tempo, comunque sempre finalizzati a mantenere salda la sua egemonia. Le classi lavoratrici e popolari hanno voltato le spalle alla sinistra e si rivolgono, per essere difese, proprio a coloro che sostengono i loro sfruttatori e oppressori, fenomeno non nuovo perché fascismo e nazismo si sono impadroniti del potere politico grazie al sostegno non solo dei ceti capitalistici e degli apparati statali ma anche di larghe masse popolari e operaie. Tutto questo è vero, è vero cioè che battersi contro classi dominanti così potenti perché padroni delle risorse produttive e sostenuti da forze politiche in grado di diffondere ideologie che spostano l’avversario al di fuori, è davvero difficile. Siamo però sicuri che non dobbiamo guardare entro noi stessi, intendo dentro le nostre organizzazioni e associazioni, nei partiti e sindacati, per esaminare il nostro modo di essere e di agire così da individuare le nostre insufficienze, errori, e incapacità? Non occorre essere adusi alla psicanalisi per dire ‘guarda te stesso’, perché il dio di Delfi, con il suo ‘conosci te stesso’, ci ha da millenni avvertito che la ‘colpa’ prima che negli altri vada ricercata entro di noi
Frequentando molti/e compagni e compagne di RC, ho modo di apprezzarne le qualità: la passione, la cultura politica, l’intelligenza, la generosità. Perché persone singole di tale valore non producono collettivamente risultati all’altezza del loro impegno? Non sarà che a causa dell’organizzazione in partito si incorre nella “fallacia di composizione”, credendo che le proprietà delle parti si possano estendere, ma indebitamente, al tutto? Come è possibile che le virtù delle/dei militanti si trasformino in vizi del partito? Come è possibile che l’impegno dei singoli si traduca in fallimenti e sconfitte dell’insieme? Forse occorre interrogarsi sulla cd forma partito che impedisce la ricerca e la sperimentazione sociale perché assume ideologia e strategia politiche come dati inconfutabili, che andrebbero invece messe alla prova. Il partito si rivela essere un muro che impedisce il libero dispiegarsi delle energie dei/delle militanti e racchiude le loro molteplici esperienze entro un mondo autoreferenziale. Questo vanifica gli incontri con le altre esperienze sociali, politiche e culturali, perché vengono sempre attuati preservando il partito, e così ricondotti alla sua ragione unica e totalizzante. Occorre abbattere questo muro che ostacola la molteplicità dei cammini e lo sprigionarsi di energie compresse dal e nel partito, che per quanto oggi ridotte rimangono preziose per poter costruire una nuova cultura della trasformazione sociale.
È necessario liberarsi di un concetto, assurto a dogma, che l’essere sociale delle persone determina la loro coscienza, che fu già messo in discussione dalle ricerche storiche di Edward Thompson sulla formazione della classe operaia inglese. Thompson rilevò che gli elementi di cultura degli oppressi e dei poveri – usi e costumi, associazioni di solidarietà, giornali e pamphlet, feste canzoni teatro e racconti popolari – furono determinanti per acquisire la consapevolezza di classe antagonista. La funzione di ‘coscienza’, in altre parole l’elaborazione culturale e politica, non può più essere attribuita al partito, se mai lo è stata in un ormai lontano passato, e occorre porre fine alla visione del partito comunista quale avanguardia, depositaria dei valori e della missione storica della classe operaia, facendo altresì cadere la sua ideologia impregnata di determinismo e millenarismo.
Determinismo e millenarismo, componenti primarie di una concezione provvidenzialistica della storia, sono stati gli altri due tarli che hanno minato l’ideologia del movimento comunista, secondo cui le contraddizioni oggettive del capitalismo avrebbero portato al suo superamento, relegando all’angolo la costruzione sociale e politica delle soggettività antagoniste. E si prenda nota che il determinismo permeava anche l’ideologia della socialdemocrazia, a cominciare da quella tedesca. Basta rammentare, perché foriera di esiti drammatici, una vicenda dei primi anni Trenta del Novecento. Per combattere la disoccupazione e sottrarre i disoccupati alla presa del Partito nazionalsocialista, sia pure in ritardo il sindacato ADGB presentò solo nel dicembre del 1931 un piano del lavoro, elaborato da Baade, Tarnow e Woytinsky proponendo misure che Keynes avrebbe più compiutamente elaborato nel 1936. Contro questo piano si scagliò il partito socialdemocratico, e fu il suo intellettuale più rinomato, R. Hilferding, ad opporsi frontalmente a questo intervento di correzione dei processi economici perché esso non avrebbe potuto modificare il corso naturale, oggettivo, degli eventi. Dunque non si poteva modificare il corso della storia che, determinato dalle dinamiche economiche, avrebbe creato le nuove forme del capitalismo organizzato. Il salto verso il socialismo, secondo Hilferding, la socialdemocrazia l’avrebbe compiuto grazie alla conquista dello Stato trovando pronti nel capitalismo organizzato gli strumenti della pianificazione economica, a cui veniva ridotto il progetto socialista. Purtroppo, l’inerzia politica verso i milioni di disoccupati fu non l’ultima delle cause che portarono il nazismo al potere, e Hilferding, braccato dalla Gestapo, morì tragicamente in esilio nella Parigi occupata dalle truppe hitleriane. Tra i molti volumi, si possono trovare notizie più dettagliate su questa cruciale vicenda in Das Arbeitsbeschaffungsprogramm des ADGB (curato da Michael Schneider ed edito a Bonn nel 1975).
La costruzione delle soggettività in grado di cambiare lo “stato di cose esistente” è un processo storico, che non nasce dall’alto, ma in basso e dal basso. Invece in tutti questi ultimi anni – dovrei dire decenni – si è creduto che la salvaguardia dell’eredità comunista avrebbe garantito la connessione con la classe operaia e i settori popolari: il segno più evidente di tale connessione avrebbe dovuto essere la presenza dei comunisti nel parlamento, senza avvedersi che gli ideali e i progetti politici di RC avrebbero dovuto invece alimentarsi dei conflitti di classe e di genere, delle domande dell’ambientalismo e dei giovani tanto acculturati quanto votati ad un destino di precarietà, e rispondere alle istanze dei e delle migranti che oggi sono le persone più deboli ed esposte allo sfruttamento più selvaggio. Tutto è sempre precipitato nelle scadenze elettorali vissute come ineluttabili e ineludibili, e ogni volta esse sono state presentate come il nuovo inizio, come la svolta verso la costruzione della nuova unità della sinistra.
A proporre e a gestire queste presunte nuove forme di unità della sinistra sono sempre gli stessi gruppi dirigenti, che da decenni calcano la scena della sinistra. Non dirò come Paolo Flores D’Arcais che essi sono “nomenclatura grupposcolare”, perché conosco la passione, i sacrifici personali, il sobrio stile di vita di molti dirigenti. Non è in discussione la loro moralità e impegno politici, sono in discussione la loro strategia e la loro ideologia ritenute sempre giuste nonostante le sconfitte. Ora, dopo che la fine del socialismo reale ha affossato il movimento comunista, le ripetute sconfitte elettorali, oltre allo sradicamento sociale, rischiano di cancellare perfino il nome ‘sinistra’, rendendolo inutilizzabile per i movimenti che vogliono ‘cambiare lo stato di cose esistente’.
Quale credibilità poteva mai avere nel 2019 La Sinistra, una lista prodotta da forze che si erano separate con acrimonia al congresso di Chianciano nel 2008, si erano contrapposte alle elezioni politiche del 2013 perché SEL era con il PD di Bersani e RC in Rivoluzione civile, presentatesi di nuovo insieme nel 2014 alle elezioni europee, poi ancora divise nel 2018 quando SEL si unì a D’Alema, Bersani ed Enrico Rossi in LEU mentre RC era in Potere al Popolo? Certo in queste ultime elezioni La Sinistra ha beneficiato dell’autorevole sostegno de il manifesto, che ne ha connotato però la presenza come parte del campo largo della sinistra, che per communis opinio è identificata con il PD e la socialdemocrazia europea – basta leggere Repubblica o Le Monde che identificano la sinistra con Zingaretti e Timmermans.
Il manifesto, che io leggo dal suo primo numero, si situa nelle zone al confine con il PD e con la CGIL, perché la sua direzione ritiene che solo dalle loro dinamiche possano scaturire processi di innovazione, infatti in ogni stormir di foglia intravede la possibilità del nuovo inizio della sinistra. Da ultimo, essa è stata presa da tali vertigini alla notizia dell’elezione di Landini alla segreteria della CGIL da mobilitare la sua penna più prestigiosa, Rossana Rossanda, per intervistarlo presentandolo come l’uomo del rinnovamento, in grado di dare una scossa alla sinistra tutta – stiamo parlando di Landini che è passato dal progetto di coalizione sociale alla proposta di unità sindacale con CISL e UIL, e che, quale primo rilevante atto da segretario, ha firmato con la Confindustria un manifesto a favore dell’Unione Europea,esaltata come faro di civiltà all’epoca dell’ecatombe dei migranti nel Mediterraneo!. Poteva mai ottenere un successo La Sinistra, promossa da esponenti che nell’arco di dieci anni si sono divisi e riuniti sempre per fini elettorali, e sostenuta da un giornale la cui attenzione è sempre concentrata sul PD e sulla CGIL? Può essa rappresentare un nuovo inizio? La risposta non è particolarmente difficile…
Un nuovo inizio è tale se prima si sciolgono le vecchie organizzazioni politiche dando ai suoi e alle sue militanti la libertà di disperdersi nella società per poter così parlare con le persone del popolo – operai, giovani, migranti, abitanti delle periferie sociali. Sciogliere il partito non significa rinunciare all’organizzazione, significare pensare e sperimentare altre forme di organizzazione, e le donne – si veda Non una di meno – hanno dimostrato ormai da decenni che si può agire, “fare politica”, senza la cappa del partito. Un nuovo inizio richiede la consapevolezza che noi non conosciamo la società che pur vorremmo trasformare, e non la conosciamo perché riteniamo che tutto già sia stato scritto nei Libri e dunque, si tratta solo di applicare le loro formule invece di mettere in azione pratiche sociali coinvolgenti i diversi gruppi di popolazione, con cui occorre entrare in un reale contatto ‒ direi persona per persona ‒ per contrastare le ideologie identitarie rimaste l’unico loro collante. Che ogni circolo si trasformi in un centro di iniziativa sociale, culturale, politica secondo le decisioni dei suoi membri, e così sperimenti pratiche, impari a muoversi in tutte le pieghe della società, elabori progetti costruendo orizzontalmente rapporti con altre esperienze. E saranno le nuove pratiche sociali a richiedere innovazioni di linguaggio, necessarie a formulare nuovi discorsi teorici.
Dopo che si saranno moltiplicati questi presidi si potrà pensare ad una coalizione sociale con una sua rappresentanza politica. La risposta alle destre dilaganti sta nella diffusione e nel radicamento, sul territorio e nei luoghi di lavoro, di presidi per la difesa e la conquista di diritti, sociali e di libertà, al fine di preservare e sviluppare la democrazia costituzionale che ha nell’articolo 3 della Costituzione la sua più limpida espressione.
* La lettera è stata pubblicata il 1° giugno sul sito del Partito della Rifondazione Comunista.