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L’Età del male di Deepti Kapoor

di Stefano
Galieni

Partendo dal presupposto che sovente la narrativa, ancor più se di genere, come viene spesso mal etichettata, riesce a raccontare meglio di qualsiasi saggio, le relazioni sociali fra classi e persone, questo l’Età del male di Deepti Kapoor (Einaudi, pp 648, euro 20,90) racconta l’India del terzo millennio, con occhi e potenza difficile da immaginare. Non ha una trama, tutto ruota attorno ad una potente famiglia i Wadia, che domina tanto New Delhi quanto importanti aree dell’Uttar Pradesh. La stessa autrice, nel provare a spiegare quanto racconta, non esita ad utilizzare il termine abusato di “mafie”, comprendendo in questa maniera i conglomerato di interessi, relazioni politiche, corruzione, accumulazione violenta di capitale, che riguarda numerosi settori dell’economia indiana, dall’agroindustria, alle speculazioni edilizie, al commercio di persone. Il ritratto che ne emerge del Paese è impietoso, violento, crudo e privo di innocenza, dominato dalla logica del profitto che rende ogni persona o cosa merce e dall’idea che ogni crimine possa essere lecito se si fa parte delle dinamiche del potere. Non una trama dicevamo ma, per sintetizzare senza nulla togliere al piacere di una lettura che avvince e prende, tre storie principali, quelle di: Ajay, Neda e Sunny. Il primo, venduto in tenera età dalla madre che è costretta a riscattare un debito che ha il sapore di sopruso medioevale, è un servo fedele che con la sottomissione e la voglia di riscattarsi è divenuto un servitore fedele e insostituibile, la seconda giornalista in carriera del Delhi Post, proveniente da una classe media, fortemente influenzata dalla cultura occidentale, vive con disagio i propri privilegi in una città dove il divario fra povertà e lusso è insostenibile. E poi c’è lui, Sunny Wadia, rampollo della famiglia, destinato a divenire erede di un potere immenso eppure spesso vulnerabile e a volte inadeguato ad accettare il cinismo totale che impone il suo pesante cognome. E intorno una storia di opulenza mai celata, di miti che rimandano a quel colonialismo di cui ci si è liberati. Sunny rimpiange l’Italia, Neda, la Gran Bretagna, Ajay vorrebbe ricostruire il mondo andato in frantumi della sua famiglia fino a quando non si accorge di essere divenuto parte dell’ingranaggio a cui deve l’inizio della sua rovina. Sono personaggi disperati quelli che si agirano in una New Delhi violenta e che non conosce confini alle proprie abiezioni, in cui le droghe, il sesso, lo sfarzo e l’impunibilità regnano come un rumore costante, che neanche i sentimenti fra i protagonisti riescono ad attutire. L’india raccontata dalla giovane autrice, che da tempo si è trasferita in Portogallo, è attraversata anche dai residui degli hippy che partivano dall’Europa per ritrovare se stessi e restavano ancorati a Goa non per fantomatiche pulsioni spirituali ma in quanto cadevano come mosche nella ragnatela di un mondo più complesso e materiale di quello che si erano illusi di lasciare. Pur avendo le caratteristiche della gangster story, l’Età del male, primo di una trilogia incentrata sulla famiglia Wadia, non è ascrivibile a generi e schemi. Descrive un mosaico di relazioni, di incontri, racchiude scene che poco hanno di epico e neanche potrebbero rientrare nei canoni cinematografici della ormai mitica Bollywood. Un formicolare di persone, attorno ai tre protagonisti che transitano, lasciano tracce della propria esistenza, spesso muoiono anche in maniera violenta, senza che la loro dipartita interrompa mai realmente il ripetersi di un sistema che si alimenta con le loro vite. Un romanzo dalle chiavi di lettura diverse che, di fatto descrive una parte minimale di quel mondo immenso che è il continente indiano. L’India, lo scorso anno, ha superato per numero di abitanti la Cina, è una potenza in ascesa attualmente pervasa da un forte sentimento nazionalista, ma che è entrata nel mercato globale bruciando le tappe. Ci è entrata con l’hi tech, con i suoi giovani cervelli, con la crescita delle esportazioni, ma anche trascinando con se i retaggi della divisione in caste, di uno sfruttamento delle persone che non conosce limiti, in una commistione fra arcaico e futuro che non è facile da mandare giù. I delitti che si compiono in questo volume, le modalità con cui chi ha voce combatte una guerra per il dominio senza esclusione di colpi, potrebbero solo apparentemente far pensare ad una vicenda trasportata dagli Usa ad un altro continente. Non è così, i morti e la logica violenta degli affari, sono simili ma avvengono in un contesto che ha ben poco di esotico. Vengono i brividi ma si potrebbe pensare che, la post democrazia che si va imponendo anche in Europa possa avere un giorno simili e tremendi analogie.

Stefano Galieni

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