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L’esercito di Tito

di Luciano
Beolchi

A differenza degli altri movimenti partigiani che svolsero ruolo pur considerevole nella resistenza al nazifascismo, l’esercito partigiano jugoslavo non fu concepito a supporto di un esercito regolare cui compete la sconfitta dell’armata avversaria, ma è esso stesso l’esercito combattente che intende sconfiggere il nemico, liberare il paese e instaurare un nuovo regime politico.
Da lì discendono l’organizzazione militare dell’esercito e la sua connotazione fortemente politicizzata, che nell’arco di poco più di un anno e mezzo, tra la fallita insurrezione generale del luglio 1941 e la fine del 1942, si costituì in compagnie, battaglioni, brigate e divisioni (7), cui nel giro di pochi mesi si aggiungeranno i corpi d’armata. Al momento del crollo del regime fascista italiano, l’8 settembre 1943, l’esercito di Tito poteva contare su circa 75.000 uomini suddivisi in 7 divisioni, la cui caratteristica a differenza delle numerose piccole formazioni territoriali era quella di non essere legata al territorio né di combattere su base territoriale, ma di potersi muovere e essere disponibili a combattere in qualsiasi parte della Jugoslavia, dal Montenegro alla Slovenia.
Fin dall’inizio i dirigenti comunisti avevano voluto promuovere un’insurrezione militare contro gli occupanti che investisse l’intero territorio nazionale e abbracciare tutte le diverse nazionalità jugoslave indipendentemente dall’origine etnica e dal credo religioso.
Ciò esigeva la creazione di un’organizzazione militare controllata dal partito ad ogni livello e allo stesso tempo legata alla popolazione in tutte le regioni del paese dove si sarebbe dovuta condurre, contemporaneamente, una lotta di natura strettamente militare contro le forze di occupazione e i loro satelliti e una lotta ideologica per la conquista della coscienza delle masse1.
Nella tarda estate del 1941 sorsero, in forme diverse a seconda delle specifiche situazioni, bande di ribelli, patrioti e partigiani, in varie forme tradizionali: le čete (compagnie); i komitadij (formazioni soprattutto montenegrine con una tradizione secolare di lotta contro i turchi), i komite (simili ai precedenti) e gli odred, una denominazione nuova che ritroviamo anche in URSS e significa “distaccamento”. Oltre alle forze occupanti dell’ASSE, sul territorio jugoslavo operavano le bande fasciste degli ustascia di Ante Pavelič, capo dello Stato indipendente di Croazia e quelle di Milan Nedič, capo di un simulacro stato serbo, entrambi sotto il controllo delle potenze occupanti. In quel periodo la ribellione contro le forze dell’ASSE era confinata essenzialmente alla Bosnia-Erzegovina, alla Serbia e al Montenegro, con esclusione dunque della Slovenia, della Dalmazia, della Croazia, del Sangiaccato, della Macedonia e del Kosovo.
In alcuni territori le formazioni militari si organizzarono spontaneamente a volte in unità miste di nazionalisti e comunisti; in Serbia l’insurrezione fu organizzata dal Partito Comunista attraverso un comitato militare. Scrisse Tito:
“Dopo la capitolazione dell’aprile 1941, il Comitato militare fu allargato e prese il nome di Comando Supremo dei distaccamenti partigiani della Jugoslavia [anticipando di più di un anno il nome simile che avrebbe preso il comando della Resistenza in URSS]… Dopo il massacro in massa della popolazione serba in Croazia e in Bosnia da parte degli ustascia, il Partito Comunista cominciò ad organizzare in reparti guerriglieri quella parte della popolazione che era fuggita nei boschi”2.
Questo Comando Supremo fu organizzato da Tito nel novembre 1941 in Serbia, ma non disponeva né di mezzi di comunicazione, né di un numero adeguato di ufficiali.

La rottura tra comunisti e cetnici, iniziata in Serbia si estese rapidamente a tutte le province, nelle quali esisteva una minoranza serba. I cetnici erano a loro dire la componente monarchica della resistenza, fedele al governo del re che si era rifugiato a Londra. Fino al 1943 furono l’unico movimento riconosciuto e appoggiato dagli inglesi, che in Jugoslavia avevano tra gli alleati un ruolo preminente, anche perché la prima missione sovietica raggiunse Tito solo nel 1944. In molti casi i cetnici si accordarono con i tedeschi contro i partigiani rossi.
Il compito di costituire l’organizzazione militare su base regionale fu affidato in sostanza a delegati mobili, basandosi sui distaccamenti territoriali, gli odred, strutture flessibili che costituirono anche la principale fonte di reclutamento, oltreché una vera fucina di talenti militari.
Il partito poteva anche contare in larga misura sull’esperienza dei circa 1.300 jugoslavi che avevano combattuto in Spagna, quasi tutti rientrati nel paese. Da lì sarebbero usciti 29 generali e 4 dei comandanti di corpo d’armata.
Un’altra fonte di competenza militare fu quella parte degli ufficiali del disciolto esercito monarchico, alcuni dei quali entrarono nelle file partigiane e nel partito; altri passarono dalla parte dei cetnici o direttamente con le forze collaborazioniste.
Per Tito l’esercito partigiano era dunque un esercito organizzato fondamentalmente in grandi formazioni mobili e localmente in unità di difesa territoriali nelle quali si esprimeva l’ideologia e lo spirito della rivoluzione.
Il 22 dicembre 1941 fu costituita la 1a Brigata proletaria e il 1° marzo 1942 ne fu costituta una seconda.
Nella tarda primavera del 1942 furono costituite la 3a Brigata del Sangiaccato e la 4a e la 5a del Montenegro.
Con questo Tito aveva ai suoi ordini 5 formazioni regolari che comprendevano ciascuna da 800 e 1.000 uomini.
Si chiariva anche che il legame strettissimo con la rivoluzione: “Le Brigate d’assalto proletarie di liberazione nazionale sono la formazione di avanguardia dei popoli della Jugoslavia, dirette dal Partito Comunista”. Così recitava l’art. 1 della Statuto costitutivo della Prima Brigata Proletaria.
Nel novembre 1942 quando si riunì a Bihač il Consiglio antifascista le Brigate proletarie erano salite a 28 ed erano capaci di intraprendere operazioni militari complesse contro il nemico. Le prime due divisioni proletarie furono costituite il 1° novembre 1942; e altre sette seguirono entro la fine dell’anno.
Le divisioni erano unità mobili, a organico ridotto (3-4.000 uomini) ed erano dotate di armamento leggero, artiglieria compresa. Solo le prime erano state costituite sostanzialmente su base territoriale. Erano autosufficienti, con il loro ospedale, le loro finanze, l’organizzazione autonoma dei rifornimenti, il tribunale militare, la polizia militare e, in certe regioni, il servizio postale.
In ogni divisione c’era una sezione di partito col compito di dirigere tutto il lavoro politico all’interno di quell’unità; la sezione era responsabile verso il comitato regionale o direttamente verso il Comitato Centrale.
Alla fine della guerra, gli effettivi dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo erano 900.000 organizzati in 50 divisioni, 18 corpi d’armata e 4 armate. Il 1° corpo d’armata come pure successivamente la 1a armata proletaria furono poste sotto il comando di Peko Dapčevič, che fu il protagonista della liberazione di Belgrado.
Il riconoscimento ufficiale e formale della Resistenza partigiana avvenne – da parte inglese – solo nel settembre 1943 quando al Quartier Generale di Tito, a Jajice, fu paracadutato il generale Fitzroy MacLean, uomo politico e veterano di missioni speciali, che impressionò molto i partigiani sia per l suo coraggio che per il comportamento eccentrico da perfetto snob inglese3.
Tito comunque andò avanti per la sua strada e il 29 novembre 1943, in quella che era la sede del suo Quartier Generale a Jajice si riunì l’Avnoj, il parlamento delle zone liberate con la denominazione di Comitato Nazionale per la Liberazione della Jugoslavia, NKOJ. Questo avvenne pochi giorni prima della conferenza di Teheran e probabilmente non riuscì praticamente gradito a Stalin.
Nel febbraio 1944 finalmente sbarcò in Jugoslavia la tanto attesa missione russa guidata dal generale Korneev, mentre Churchill inviava il figlio Randolph come suo osservatore personale.
Nel luglio 1944, fuori tempo massimo e all’indirizzo sbagliato, sbarcò la missione americana guidata dal colonnello Mc Dowell che, installatosi presso il Quartier Generale di Michailovič lo rassicurò che gli americani erano con lui nella lotta anticomunista.
Nel settembre 1944 Tito si recò a Mosca per la prima volta per fissare i termini dell’offensiva, ma soprattutto per incontrare Stalin che lo trattò familiarmente o con degnazione, a seconda dei punti di vista – e quello di Tito era di estrema suscettibilità – chiamandolo Walter, con il nome di battaglia che Tito aveva avuto durante la guerra di Spagna. In quel momento Tito aveva già spostato quasi quindici delle sue divisioni in Serbia evidentemente allo scopo di figurare lui e non l’Armata Rossa, già molto vicina, il liberatore di Belgrado. Michailovič fu costretto a fuggire oltre la Drina dopo aver rischiato una disastrosa cattura insieme al suo ultimo e isolato mentore, il colonnello Mc Dowell.
Le forze tedesche nel frattempo riuscivano a compiere operazioni belliche brillanti, tra le quali spicca la ritirata del Gruppo d’Armate E che era in marcia dalla Grecia fino dall’ottobre 1944, con 4 corpi d’armata, 10 divisioni e 300.000 uomini.
Le forze partigiane di Macedonia e Montenegro non riuscirono a bloccare quella ritirata e il 15 novembre 1944 il generale Lohr, con i suoi uomini e gran parte dell’equipaggiamento, s’installò a Sarajevo. Anche dopo la caduta dei Belgrado (ottobre 1944) riuscì a stabilire un solido fronte difensivo nella vasta pianura dello Srem, dove bloccò tre delle quattro armate di Tito in una guerra di posizione cui non erano preparate, infliggendo loro serie perdite finché gli jugoslavi riuscirono a sfondare in aprile a caro prezzo.
A quel punto il ripiegamento dei tedeschi divenne drammatico anche se non si trasformò in rotta. Molti capi ustascia e con loro Anto Pavelič avevano già abbandonato il paese. La 4a Armata di Tito entrò a Trieste il 1° maggio 1945, un giorno prima dei neozelandesi mentre gli americani arrivarono in Carinzia qualche ora prima degli jugoslavi. Il Generale Lohr, ignorando la resa incondizionata continuò a combattere fino al 15 maggio 1945, quando si arrese con tutti i suoi soldati.
Secondo lo storico jugoslavo Jovan Marjanovič, nella fase finale della guerra l’esercito popolare avrebbe catturato 209.000 prigionieri tra tedeschi, cosacchi, collaborazionisti, croati, sloveni e cetnici. Inoltre il Gruppo d’Armate E avrebbe subito 99.000 perdite tra morti e feriti.
La storiografia americana, relativamente a questa fase finale della guerra, parla di 220.000 prigionieri di cui 84.000 tedeschi, 20.000 sloveni e cetnici e 110.000 croati.
Dopo la guerra furono giustiziati da 30.000 a 50.000 collaborazionisti.
Gilas nelle sue memorie parla di 1.700.000-1.800.000 vittime della guerra in Jugoslavia.
I partigiani di Tito ebbero almeno 305.000 caduti. A questi sono da aggiungere 500.000 serbi, vittime della pulizia etnica croata, insieme a 250.000 ebrei e 20.000 rom. I cetnici, da parte loro uccisero almeno 65.000 persone tra musulmani e croati.
Le forze dell’ASSE persero in Jugoslavia, nei 4 anni di guerra 450.000 militari tra morti, feriti e prigionieri. Senza contare gli oltre trecentomila italiani che dopo l’8 settembre furono catturati dai tedeschi e avviati ai campi di concentramento. Sempre degli italiani, 25.000 combatterono dopo l’8 settembre con i tedeschi e 20.000 con i partigiani (Divisione Garibaldi).
Al momento del massimo impegno, l’Italia impiegava nei Balcani più di metà delle sue divisioni operative (33 su 61) per un totale di circa 600.000 uomini. Al momento dell’armistizio quella forza era quasi dimezzata. Gli italiani venivano chiamati dalla popolazione mangia-rane o brucia-case, prendendo spunto da quelle che la popolazione pensava fossero le loro occupazioni predilette.
Sulla base di documenti personali del generale Hermann Reinecke, capo del Pubbliche relazioni del Comando tedesco, le vittime tedesche furono 24.000 caduti e 12.000 dispersi, secondo quanto pubblicò The Times il 30 luglio 1945.

Luciano Beolchi

  1. F.W.D. Deakin, La montagna più alta, pag. 107.[]
  2. Deakin, Op. cit., pag. 107.[]
  3. Fitzroy MacLean scrisse uno dei libri più importanti sulla Rivoluzione Jugoslava, Disputed Barricades, che è anche una biografia di Tito. Malauguratamente non è stato tradotto in italiano ed è disponibile, per chi ha la fortuna di trovarlo, solo in una vecchia edizione inglese.[]
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