articoli

L’emergenza come “normalità” nella Gran Bretagna di Johnson

di Enrico
Sartor

Un paese tra emergenza continua e “sospensione del capitalismo”

La confusa e incoerente leadership di Boris Johnson nell’affrontare la crisi umana, sociale ed economica causata dalla pandemia globale, attira critiche diffuse in ambito politico e sociale. I cittadini e le cittadine che pensano che la sua sia una cattiva gestione sono un 6% in più di quelli che approvano il suo operato (Yougov, luglio 2020). Le critiche si focalizzano non tanto sui continui cambi di direzione, talvolta decisi sul momento, quanto sull’assenza di chiari principi ispiratori delle decisioni stesse. Questo può essere frutto dell’incompetenza della compagine governativa, ma più sinistramente potrebbe essere parte di un piano teso a creare uno stato continuo d’emergenza, inasprendo le contraddizioni del tessuto economico e sociale in modo da far apparire “normali” scelte politiche decise in maniera autoritaria e incontrollata.

Molti temono (comprese le organizzazioni padronali e la Banca d’Inghilterra) che il tessuto economico e sociale del Paese sia, con l’arrivo del prossimo autunno, sull’orlo di un completo sfaldamento. Al momento il tasso di disoccupazione è ufficialmente fermo al 3.9% per il trimestre marzo-maggio 2020, anche se 650 mila lavoratori hanno perso da aprile il posto. Licenziamenti di massa in tutti i settori vengono annunciati quotidianamente. Per esempio, il 3 agosto la banca HSBC ha deciso di accelerare la procedura per 35.000 licenziamenti ed una catena di abbigliamento sportivo ha appena annunciato la fine attività con la perdita di 1700 posti di lavoro.

Il tasso di disoccupazione al 3.9% maschera in realtà una situazione ben più drammatica, per tre ragioni:

  • esiste una massa di dipendenti non registrati, lavoratori autonomi o piccoli imprenditori (nella ristorazione, ad esempio) che hanno perso o chiuso la loro attività. Inoltre l’ufficio nazionale di statistica ritiene che vi sia, al momento, almeno mezzo milione di ex-dipendenti disoccupati non registrati;
  • i lavoratori ancora occupati hanno visto una riduzione media del 17% delle ore lavorate e del relativo salario;
  • lo strumento di integrazione al reddito istituito dal governo nel marzo 2020 con il lockdown (Job Retention Scheme)[1], che copre al momento 4 milioni e mezzo di dipendenti, scadrà il 31 ottobre prossimo. Senza un’estensione del sussidio, come richiesto dai laburisti e dai sindacati, gran parte di quei milioni di lavoratori andrà ad aggiungersi ai disoccupati.

Una patrimoniale contro la classe media?

La crescente crisi economica accelera l’aprirsi di drammatiche fratture sociali.Una prima frattura si sta formando fra lavoratori manuali e colletti bianchi, cioè di fatto tra i lavoratori più poveri e quelli con salari più alti. Mentre i secondi hanno avuto il posto di lavoro parzialmente protetto grazie alla possibilità di lavorare da casa, i secondi hanno visto la sparizione dei loro posti. KPMG prevede che un numero tra i 200.000 e 1.1 milione di lavoratori a bassa-media specializzazione saranno licenziati tra agosto e ottobre 2020, con un tasso di disoccupazione che salirà al 7% secondo stime ottimistiche (Capital Economics) o al 19% secondo stime pessimistiche (OCSE).

Alle richieste di aumentare gli stanziamenti per proteggere i posti di lavoro, il governo conservatore risponde dichiarando che è un’ingiustizia che gli occupati paghino per troppo tempo il salario di milioni di nullafacenti (che il governo e la stampa padronale continuano a conteggiare falsamente a 9.2 milioni di lavoratori quanti erano ad aprile, agli inizi del lockdown). Anche i pochi tentativi di recuperare risorse per pagare ulteriori ammortizzatori sociali rivelano rapidamente la loro debolezza e natura populistica. Per esempio, il 14 luglio scorso il ministro del Tesoro, Sunak, che contende a Johnson la scena mediatica, ha annunciato una revisione del sistema di tassazione sui profitti da capitale (CGT). Attualmente, grazie ad esenzioni e basse aliquote, le tasse patrimoniali (su immobili, azioni, titoli e opere d’arte) rappresentano solo l’1.1% delle tasse pagate in Gran Bretagna. Non è ancora noto in cosa consisterà il tentativo dei conservatori di mettere mano alla patrimoniale per finanziare la crisi. Se è certamente da escludere una patrimoniale sulla prima casa (che da sola triplicherebbe le entrate), scartata a suo tempo anche dai laburisti di Corbyn, una tassa sulla vendita delle seconde case, e l’eliminazione dell’esenzione dalle tasse delle prime 12.600 sterline all’anno di profitti da investimenti in azioni e titoli, potrebbero essere probabili candidati. Riforme che colpirebbero soprattutto il ceto medio e i piccoli investitori. I colletti bianchi sostanzialmente pagherebbero il sussidio salariale per i lavoratori manuali. Una volta socialmente isolati e demonizzati (Sunak ha dichiarato che il sussidio salariale statale non fa che favorire l’innata pigrizia dei lavoratori britannici), i pochi milioni di lavoratori potranno essere facilmente licenziati, come avvenne negli anni ‘80 con la distruzione dell’industria estrattiva e manifatturiera nel Nord del Paese.

Una seconda crescente frattura si sta aprendo anche a livello generazionale. I giovani fra i 16 e i 24 anni, la cosiddetta generazione Z, sono stati più colpiti di altri settori demografici dalla crisi economica. Un rapporto dell’organizzazione Hope not Hate indica che il 67% dei giovani pensa che la loro generazione pagherà per una crisi che ha, in maggioranza, colpito la popolazione anziana e il 75% ritiene di non avere rappresentanza nei partiti ufficiali; dato, quest’ultimo, in contrasto con la mobilitazione giovanile che si era creata, dapprima, intorno al referendum per l’indipendenza della Scozia nel 2015 e, poi, intorno al partito laburista sotto la direzione di Corbyn nelle elezioni del 2017. A ciò si aggiunge l’arrivo della Brexit alla fine del 2020, con tutte le conseguenze sull’occupazione, i consumi e libertà di movimento che ne deriveranno. Anche la vittoria del SI al referendum del 2016 registrò una forte maggioranza di brexiters fra la popolazione anziana.

In questa situazione, non può essere solo per pura incompetenza che il governo conservatore ha fatto circolare sulla stampa conservatrice di Murdoch (Sunday Times) l’ipotesi di evitare una seconda ondata di contagi isolando gli ultra cinquantenni; trattasi più probabilmente di un cinico piano: usare l’esistente tensione generazionale per distogliere l’attenzione dalla fallimentare gestione della crisi che ha portato al più alto numero di morti in Europa.

Spiragli e risposte giovanili alla crisi

Diversi fenomeni sociali fungono da indicatori del malessere e dell’insofferenza nei confronti della crescente povertà, la mancanza di futuro e le giornate ormai fatte solo di pasti e una camminata. Per esempio il taso di criminalità violenta, che si era ridotto durante il lockdown, è tornato immediatamente a crescere. I dati della polizia di Londra e del Centro Inghilterra indicano a giugno un aumento netto dei crimini violenti rispetto allo stesso mese del 2019.

Ci sono però anche fenomeni che indicano risposte generazionali non estranee alla politica intesa in maniera più complessa. L’estate del 2020 ha visto, per esempio, una forte partecipazione giovanile alle manifestazioni dei Black Lives Matter, che hanno coinvolto decine di migliaia di giovani e permesso di isolare i tentativi di irruzione delle organizzazioni razziste di estrema destra. Non a caso il governo conservatore e Boris Johnson personalmente hanno risposto a queste dimostrazioni con posizioni alla Trump. Un altro fenomeno indicativo della capacità dei giovani di aggregazione autonoma ed espressione collettiva del proprio malessere è quello dei rave illegali, reminiscenze degli anni 80. Eventi organizzati attraverso i social media hanno attratto migliaia di persone in tutta la Gran Bretagna, ma soprattutto a Londra e Manchester. In alcuni casi questi eventi sono terminati con scontri violenti con la polizia, costretta a Brixton alla fuga.

Lo svuotamento dei centri cittadini

Le città e le metropoli sono le aree più colpite dalla disoccupazione di massa. Dei 10 comuni britannici più colpiti dalla crisi economica, 6 sono a Londra e 3 a Manchester. Il centro di Londra dà, con immediatezza, la misura del presente svuotamento sociale e culturale della vita del paese, con i suoi ristoranti, bar, teatri e sale da concerto chiuse e invase dai topi, nell’assenza dei turisti e degli impiegati da ufficio, che continueranno a lavorare da remoto fino almeno al 2021. Solo un numero crescente di senza-tetto si aggira per le strade, chiedendo l’elemosina agli automobilisti di passaggio, ignari dei pericoli del poco traffico. Homines sacri “agambeniani” in una Inghilterra che – secondo le parole di Boris Johnson – ha ritrovato finalmente la sua sovranità.

Spinte centrifughe in Scozia

Un’ulteriore conseguenza del melt down sociale causato dalla pandemia globale e dalla Brexit è una crescente spinta centripeta delle varie nazionalità del Regno Unito rispetto a Westminster. Da gennaio, per la prima volta dal 2015, la maggioranza degli scozzesi si sono espressi nei sondaggi d’opinione a favore dell’indipendenza. Muovendosi nei limiti della sua autonomia amministrativa, il governo nazionale scozzese ha implementato misure più strette – di quelle praticate in Inghilterra – per proteggere, con successo, le vite e la salute dei cittadini. Ma, per esempio, non ha potuto dichiarare un lock-down prima della decisione centrale di Westminster, e il ritardo di Johnson nel prendere questa decisione è – secondo il comitato scientifico nazionale – la causa della maggioranza delle morti per Covid-19 in Gran Bretagna. La frustrazione contro un governo incompetente e confuso ha dato certamente nuove speranze al partito indipendentista scozzese (SNP).

Strategie conservatrici in attesa di opposizione

Resta in conclusione una domanda: questa deriva sociale e questo vuoto di principi direttivi, incrementati dalla mancanza di rispetto per le regole centrali da parte di esponenti importanti del governo quali il senior adviser Dominic Cumming, possono essere in realtà parte di una strategia in cui la confusione diventa “normalità” nella forma di un continuo stato di emergenza e le decisioni possono essere prese dall’oggi al domani senza regole e principi ispiratori chiari?

Ad esempio, quasi quotidianamente si ha notizia che contratti di forniture e servizi per interventi di emergenza vengono assegnati a finanziatori del partito conservatore o della campagna a favore del SI alla Brexit.

Sono in molti a temere che, quando la Brexit sarà completata, questa situazione sarà il terreno fertile per misure di deregolamentazione a favore di multinazionali ed imprenditori amici, e di manomissione della legislazione di tutela dei lavoratori, dei consumatori e dei cittadini e cittadine in generale.


[1] Il governo britannico ha annunciato il 20 marzo 2020 l’introduzione della misura straordinaria – senza precedenti nella storia di quel paese – di un Job Retention Scheme, sostenuto da un sussidio salariale sino ad un ammontare di 2.500 sterline al mese, al fine di evitare la perdita di posti di lavoro a causa dell’emergenza da Covid-19. Dando notizia della misura annunciata dal governo, un attonito commentatore della BBC è arrivato a parlare, come a voler trasmettere il senso di smarrimento di fronte a un atto quasi inconcepibile nell’immaginario corrente, di “sospensione del capitalismo”.

lavoro, Regno Unito, stato di emergenza
Articolo precedente
Lavoro, poco smart e molto precario
Articolo successivo
Il 31esimo anno

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.