Le guerre e l’ambiente violato nei suoi equilibri omeostatici sono due facce della stessa medaglia, il Giano bifronte dell’attitudine predatoria e di sopraffazione dell’essere umano nei confronti dell’altro da sé, compreso tutto ciò che è sistema vivente non umano.
In questi dell’era post Covid si è passati, in ogni contesto, dalla iniziale pornografia del dolore per le atrocità delle guerre e le catastrofi naturali sempre più distruttive, ad una loro mitridatizzazione e occultamento, con proclami compatibilisti – accompagnati da una propaganda (sia manifesta che subliminale) – di inevitabilità rispetto a ciò che accade, per generare acquiescenza generalizzata e atrofizzando qualsiasi riflesso critico e democratico. Un simulacro costante, un Truman show pestifero che ci sta portando sull’orlo del baratro. In questo orizzonte orwelliano, approfondire, indignarsi, gridare e protestare, diventa qualcosa di raro e prezioso, con cui sintonizzarsi, da praticare.
Ho trovato questa attitudine proprio nelle pagine di un libro “sui generis”, sorprendente, che parla di Fiumi, che sono le vene della terra, bacini di ricchezza ramificata intorno ai quali crescono economie, lavori, racconti e tradizioni popolari: un ethos distintivo e allo stesso tempo un indicatore quanto mai attendibile del rapporto degli esseri umani con l’ambiente nel corso della Storia.
Si tratta di “Guida ai Fiumi di Roma, Storie, Paesaggi e Percorsi tra le antiche vie dell’acqua” di Stefano Marinucci, per i tipi di Intra Moenia che, oltre ad essere effettivamente una vera e propria guida alla scoperta di corsi d’acqua, è un affascinante percorso socio-antropologico e un grido di denuncia in un territorio campione, quello di Roma e del Lazio, dove storia e ambiente descrivono una civiltà millenaria che si confronta con una realtà contemporanea contraddittoria e stridente dove bellezza e degrado convivono in un mix straniante. Il binomio Natura Cultura è in questo testo coniugato in modo così originale e denso, da fornire indicazioni preziose a chi voglia, attraverso questo viaggio tra fiumi dimenticati o sconosciuti per i più, conoscere, indignarsi e attivarsi affinché questi luoghi vengano riscoperti e valorizzati come oggi purtroppo non accade, per la mancanza di una vera e propria pedagogia del paesaggio e il disinteresse di gran parte della classe politica, mistificato dalla finzione del green washing, che è di fatto lavaggio di coscienze. Proprio l’antropologo Claude Lévi-Strauss notava come le linee di confine tra natura e cultura, un tempo ritenute nette, precise e inequivocabili, sono oggi molto più sfumate. E in concomitanza di ciò prevale sempre più l’idea che le linee di confine tra i due domini, siano incise culturalmente e di volta in volta tracciate a seconda delle prospettive prescelte. C’è quindi il tema dello sguardo, del punto di vista peculiare.
Con un linguaggio aulico e allo stesso tempo discorsivo, talvolta sferzante per la mancata salvaguardia, Marinucci ci conduce alla scoperta appassionata di fiumi (o ex fiumi sepolti a causa dell’antropizzazione selvaggia), costellando la narrazione di testimonianze, incontri, ricordi, suddividendola in quattro itinerari stagionali (Primaverili, Estivi, Autunnali, Invernali), che si chiudono tutti con delle schede sintetiche piene di riferimenti culturali e pratici, di grande utilità per chi deciderà di recarsi alla scoperta dei luoghi. Si parte nell’introduzione dalla centralità geografica del Tiber-Tevere, perché “il fiume è solo una parte di un enorme sistema idrografico ecosistemico che comprende oltre che il territorio anche i suoi affluenti” , seguendone il percorso nella aree romane, le rive e i suoi snodi, con continue incursioni su aspetti naturalistici, urbanistici, mitologici e sociali, suscita ad esempio grande interesse e curiosità la descrizione dell’antica città scomparsa di Ficana nell’area di Roma Sud di Dragoncello, arrivando fino a Ostia e Fiumicino “fino alla fine curvilinea, che ci porterà fino al porto di Anco Marzio”.
La verve colta e appassionata che sottende tutto il testo non può non farci tornare a mente quella di Antonio Cederna, che viene citato nel testo, indimenticabile archeologo, urbanista e giornalista che dedicò la sua vita all’impegno per la difesa del patrimonio storico-artistico e paesaggistico italiano. Rimane un riferimento per tutti gli ambientalisti la sua battaglia per la salvaguardia dell’Appia Antica: per lui la Regina viarum era un museo a cielo aperto da preservare a tutti i costi dai saccheggi dell’urbanizzazione selvaggia.
E proprio parlando di Appia e di fiumi i cui tratti sono in parte sepolti vivi nel testo si ricorda l’Almone, affluente del Tevere, terzo dei fiumi di Roma che “nasce nei Colli Albani, lambisce il Parco degli Acquedotti, attraversa un club di golf e uno di tennis, un collettore fognario, e nel Parco della Caffarella disegna il paesaggio più affascinante. In questo fondovalle emerge il connubio di culture, tradizioni e popoli che l’hanno plasmato…questo ampio territorio, purtroppo imbruttito pesantemente dalla cementificazione selvaggia senza scrupolo, è stato teatro di miti e leggende, soprattutto grazie alla presenza dell’Almone, piccolo affluente del Tevere, dai Romani ritenuto fiume sacro sin dai primordi”. L’autore più volte sottolinea l’importanza per tutti gli ecosistemi fluviali del Contratto di fiume, che è un accordo tra soggetti che hanno responsabilità nella gestione e nell’uso delle acque, nella pianificazione del territorio e nella tutela dell’ambiente e contribuisce a raggiungere gli obiettivi delle Direttive Europee sulle Acque (2000/60/CE) e sulle Alluvioni (2007/60/CE) supportando e promuovendo politiche e iniziative volte a consolidare comunità fluviali resilienti, riparando e mitigando, almeno in parte, le pressioni dovute all’urbanizzazione sregolata. Ma nel testo appare chiaro che tale opportunità di tutela, molto spesso non è stata utilizzata, creando delle situazioni di interramento e secca che sono conseguenza di dissesti idrogeologici, inquinamenti delle falde, prosciugamenti.
E tutto il testo è un muoversi esperto tra microstorie e macrostorie alla ricerca dei Genius Loci dei fiumi e dei loro territori, come l’Arrone, del Treja, il Fibreno, il Mignone, il Rio Torto, il Melfa, i Fossi Vaccina, dell’Incastro, di Pratica. Quest’ultimo, ora declassato a Fosso, un tempo era il famoso fiume Numicus o Numico, dove approdò Enea. A questo proposito così riporta il testo: “L’ultimo brano del torrente – c’è un sentiero nel tratto terminale, fino al mare – attraversa piccole attività commerciali, l’aeroporto militare, un campo di patate, palazzine abitative scolorite. Un tempo era una via sacra. Densi vapori si alzano dalle sue acque. Ma non sono più vapori sacri, legati ai culti. Sono nebbie di olio catramato, caligine solfurea che non ha nulla a che fare con il Sol Idiges. Piuttosto sembra pertinente con qualche scarico abusivo. Questo è il dio contemporaneo. Il petrolio. A lui doniamo le acque del fiume mitologico. Qui è stato sbaraccato Enea”.
Insomma un testo importante, ricco di suggestioni e spunti, non solo per “fiumaroli” o addetti ai lavori, ma anche per chi vuole attrezzarsi per arricchire la critica all’attuale modello di sviluppo in modo davvero sostenibile e non banalizzato nelle retoriche e formule stantie dell’ecologismo di maniera.
Leonardo Ragozzino