Dopo una fase di confusione iniziale nella gestione della politica estera e nella selezione del personale politico addetto a tale compito, Trump è venuto sempre più chiarendo l’agenda di cui si è fatto portavoce, a partire dallo slogan elettorale “America First”.
Il presidente Usa è entrato in conflitto con alcuni degli indirizzi tradizionali della corrente “internazionalista” presente nel Partito Repubblicano e che aveva animato la politica di Bush padre e figlio. Si è ricollegato però a tendenze che hanno sempre circolato in una minoranza dell’establishment americano e che hanno anche una forte eco in un elettorato sensibile all’agitazione di temi e parole d’ordine “populiste”.
È soprattutto per rispondere a queste pulsioni di una parte della sua base che Trump si è mosso spesso come un elefante in cristalleria, insultando e ricattando nemici e spesso anche amici e alleati. L’idea di fondo che regge l’ideologia trumpiana è che gli Stati Uniti, ponendosi come garanti degli equilibri mondiali, hanno perso economicamente più di quanto abbiano guadagnato e siano stati “sfruttati” da tutto il resto del mondo, pagando un prezzo pesante che è andato a discapito del proprio ceto medio.
Agli europei Trump ha chiesto di farsi carico in misura maggiore delle spese militare legate alla permanenza della Nato. Con i cinesi, ma anche con appena meno virulenza con la Germania, ha aperto un conflitto a base di dazi, essendo paesi che hanno beneficiato di una bilancia commerciale largamente in attivo. Per la destra che sostiene Trump, il sistema capitalistico mondiale nella sua dimensione sempre più globalizzata non coincide con la visione che ne ha dato per anni la sinistra liberale. Non è un luogo del quale più o meno tutti possono beneficiare, anche se in tempi e modi diversi, ma è un gioco a somma zero nel quale, se qualcuno guadagna, qualcun altro perde.
Il protezionismo aggressivo di Trump
Trump e i suoi fedelissimi hanno messo in discussione l’utilità del “libero mercato” a livello globale, mentre esso resta pienamente operante all’interno. Ma l’elemento di coerenza sottostante è nell’idea che il libero mercato corrisponda esattamente al concetto di “libera volpe in libero pollaio” e quindi tanto quanto è deregolato all’interno a favore della grandi corporations e degli interessi economici dominanti, altrettanto deve essere soggetto ai bruti rapporti di forza sul piano internazionale. Alcune delle iniziative trumpiane hanno introdotti meccanismi di protezionismo che avrebbero in prospettiva effetti “deglobalizzanti”. D’altra parte il tema, anche per effetto dell’esplodere della pandemia da Covid19 è entrato nel dibattito pubblico dell’establishment politico ed economico.
Ci sono spinte a rallentare o ad invertire alcuni processi di integrazione economica a livello globale e di allungamento delle catene di produzione. La pandemia ha messo in evidenza, almeno nella prima fase, una certa fragilità di tutto il sistema nel momento in cui si andavano chiudendo le frontiere. Le carenze di materiale sanitario, la cui produzione è stata in larga misura delocalizzata in Cina, ha messo in luce problemi di ordine generale.
La stessa Cina che pure ha difeso la globalizzazione in tutta la prima fase della pandemia sembra orientarsi ad un modello di sviluppo economico più autocentrato e legato all’estensione di un ampio ceto medio interno in grado di assorbire la crescita di produzione e servizi, con una forte componente di innovazione tecnologica legata al digitale. La leadership cinese cerca di tutelarsi, rispetto alle possibile iniziative provenienti dagli Stati Uniti e in misura minore anche dall’Europa, tali da metterla in difficoltà nel reperimento di materie prime, nell’utilizzo di tecnologie avanzate non immediatamente sostituibili con le risorse interne o di esclusione dai circuiti finanziari internazionali.
Ci si può chiedere però fino a che punto queste spinte a forme di protezionismo e di deglobalizzazione siano concretamente realizzabili o non si tratti di una illusione legata alla crescita di tendenze nazionaliste ed anche etno-nazionaliste presenti in molti Stati. Le élite politiche, soprattutto di destra, propongono soluzioni di ripiegamento sulle proprie identità (etniche o religiose) come alternativa alle contraddizioni aperte dallo sviluppo del capitalismo a marchio liberista, finanziarizzato e globalizzato. Su questa spinta, che si intreccia a forti elementi di autoritarismo e di intolleranza sul piano interno, si sono mossi dall’indiano Modi, al turco Erdogan, ai paesi di Visegrad, all’Israele di Netanyhau.
Trump ha cercato anche di disincagliare gli Stati Uniti da alcuni conflitti locali che vedono la presenza diretta di militari Usa. Lo ha fatto con un occhio al proprio elettorato ma con l’idea che non spetti a loro combattere le guerre di altri, di cui non è evidente l’interesse per gli Stati Uniti. Potrebbe apparire una rinuncia a svolgere il ruolo di gendarme mondiale, ma non va sopravvalutata la tendenza isolazionista.
Né tanto meno si può scambiare il Presidente Usa per un pacifista. In diversi casi gli Stati Uniti se ne vanno dopo aver alimentato dei conflitti e lasciando una situazione peggiore di quella di partenza, scaricando sulle popolazioni locali l’onere di sopportarne le conseguenze. Sarà così in Afghanistan che potrebbe di fatto essere riconsegnato ai talebani, è stato così nella Siria del nord (Rojava) consegnata alle milizie jihadiste foraggiate dalla Turchia.
Contemporaneamente Trump ha avviato due linee di rottura che rischieranno nel tempo di creare nuovi e più gravi conflitti. Il primo è lo scontro con la Cina che da commerciale è stato trasferito sul piano ideologico e in prospettiva rischia sempre più di assumere un profilo militare. In Medio Oriente tutte le iniziative assunte hanno un doppio valore. La politica oltranzista filo-israeliana serve a consolidare il voto degli evangelici che vedono nell’espansione di Israele una delle manifestazioni del loro millenarismo religioso e che sostengono attivamente la destra sionista, con molto più zelo di quanto faccia la stessa comunità ebraica americana. Ma l’altra lato dell’azione Usa in Medio Oriente è di consolidare un fronte di Paesi musulmani sunniti, alleati ad Israele, contro l’Iran e tutti coloro che per motivi religiosi o politici mantengono rapporti di alleanza più o meno solida con questo paese. Un aggravamento del conflitto tra sunniti e sciiti rischia di fare esplodere definitivamente diversi paesi mediorientali e di aggravarne le crisi politiche e sociali (Libano, Iraq, Yemen).
Trump, proseguendo una politica che lo ha preceduto, ha moltiplicato le iniziative per indebolire tutti gli strumenti di governo multipolare del mondo, a partire dall’ONU nelle sue varie espressioni, come l’OMS, ma anche il tribunale internazionale con sede in Olanda, l’accordo sulla lotta al cambiamento climatico e così via. L’idea di fondo è che gli Stati Uniti possano perseguire i propri interessi sulla base di rapporti diretti con i singoli Stati, senza doversi sottoporre ad alcun vincolo politico e giuridico e facendo pesare via via i rapporti di forza ad esso più favorevoli. Per questo ha operato per favorire la crisi dell’Unione Europea sostenendo apertamente la Brexit britannica e incoraggiando altre forze centrifughe.
In America Latina ha apertamente appoggiato l’onda di destra, stringendo la pressione economica contro Cuba e ancora di più contro il Venezuela, favorendo il golpe post-elettorale in Bolivia (e subendo poi una sconfitta con la vittoria del MAS nelle recenti nuove elezioni).
Nel complesso Trump è espressione e ha a sua volta incoraggiato un’onda reazionaria che apre la strada a nuovi e più pericolosi conflitti, anche di tipo militare, come per altro è sempre stato quando politiche economiche tese a favorire le classi dominanti si sono intrecciate a retoriche nazionaliste e scioviniste.
Biden un Mr Normal per tempi che non saranno “normali”
Che cosa potrà cambiare se vincerà Biden? Probabile che ci sia una correzione di rotta anche importante su alcuni aspetti della politica trumpiana, ma non sarà un semplice ritorno al passato. Sembra certo un rientro nell’accordo per affrontare la crisi derivante dal cambiamento climatico. Un fatto in se comunque positivo. Ci sarà una ripresa di rapporti meno ostili con alcuni alleati, in particolare con l’Europa, non solo nei confronti di singoli paesi, come la Germania, ma anche con l’Unione nel suo complesso.
Difficile capire quale sarà la linea che assumerebbe una presidenza Biden nello scenario mediorientale. L’alleanza con Israele resta inevitabilmente un punto fermo, ma forse con qualche freno in più alle mire espansioniste della destra suprematista e bigotta che governa il Paese. Un terreno di verifica importante sarà la ripresa o meno di un dialogo con l’Iran e il ritorno degli Stati Uniti nell’accordo a suo tempo sottoscritto da Obama per il controllo della proliferazione nucleare di Teheran.
I due ambiti nei quali Biden potrebbe muoversi con ancora più prudenza nel rivedere le politiche di Trump sono il rapporto con la Cina e il protezionismo commerciale. Nel primo caso l’ostilità anti-cinese è ampiamente diffusa nell’elettorato e tocca un problema di fondo nella difesa, che è comune a tutto l’establishment , del primato tecnologico ed economico degli Stati Uniti. Questo primato, che fa del dollaro la moneta di riserva internazionale, è una delle condizioni che permette a questo paese e alla sua banca federale di stampare denaro a volontà e di indebitarsi senza pagare interessi.
Dovremo mettere nel conto che resterà in campo una nuova “guerra fredda” con la Cina anche se Biden, come ha dichiarato, cercherà di evitare l’isolamento degli Stati Uniti in questo conflitto e probabilmente accantonerà iniziative inutilmente provocatorie. Anche sulla questione del “libero scambio” internazionale (che gli Usa hanno sempre fatto in modo fosse “libero” soprattutto per le proprie merci e per il proprio capitale), è probabile che Biden non torni sulla strada dei grandi accordi commerciali che erano così desiderati dalla componente più centrista del Partito Democratico (famiglia Clinton in testa, ma anche presidenza Obama). La campagna in corso per riconquistare il voto di settori di classe operaia tradizionale del settore manifatturiero, decisiva nella sconfitta della Clinton nel 2016, comporta più di una concessione retorica al tornare a produrre americano. Per quanto riguarda la proiezione militare degli Stati Uniti nel mondo, la linea di Biden sembra più prudente rispetto all’interventismo della Clinton. Aveva avversato l’iniziativa militare in Libia, si era pentito del sostegno alla guerra in Iraq e non sembra essere stato un sostenitore di una presenza militare più attiva in Siria.
Biden ha impostato la propria campagna, secondo una definizione di Le Monde, come il “Mister Normal” contrapposto ad un avventurista rissoso come Trump, ma i problemi che la fase che stiamo vivendo e i tempi che si prospettano ci configurano, non saranno per niente “normali”.