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La vittoria di Putin e la guerra permanente

di Franco
Ferrari

Difficile considerare una sorpresa la vittoria di Putin alle elezioni presidenziali russe del 17 marzo. Si trattava, nei fatti, di un momento di verifica di consenso del presidente uscente piuttosto che di una reale competizione per la massima carica statale. I tre candidati alternativi erano tutti di scarso peso e carisma, rappresentanti di correnti ideologiche diverse ma tutte operanti all’interno dei parametri di dissenso consentiti dal sistema. Nessuno ha espresso dissenso sulla questione politicamente rilevante che avrebbe dovuto essere oggetto di dibattito elettorale: la guerra in Ucraina. Lo stesso Partito Comunista, unica formazione politica organizzata di una certa consistenza e che in qualche occasione ha dato espressione al malcontento sociale delle classi popolari estranee all’oligarchia dominante, ha presentato un candidato minore. Si è poco mobilitato in campagna elettorale accontentandosi di una partecipazione di facciata.

I risultati ufficiali indicano un aumento significativo della partecipazione al voto (+6,70%) che avrebbe raggiunto il 77,44%. Degli oltre 112 milioni di russi che si sono recati alle urne, ben 76 milioni avrebbero votato per Putin, consentendogli di raggiungere l’87,28% dei consensi. Questo dato va ovviamente considerato con una certa dose di scetticismo e soprattutto analizzato alla luce di un contesto nel quale gli spazi di pluralismo si sono ridotti progressivamente, soprattutto a partire dall’inizio della guerra in Ucraina.

Le modalità di voto, con il prolungamento a tre giornate della possibilità di accedere alle urne e la conferma del voto elettronico, hanno certamente favorito la crescita della partecipazione ma anche reso sempre più difficile la possibilità di un reale controllo sulla corrispondenza dei risultati ufficiali con l’effettiva volontà degli elettori.

Agli altri tre candidati partecipanti alla competizione i dati ufficiali assegnano dal 3,24% al 4,37%. Il miglior risultato, dopo Putin, è andato al candidato dei comunisti. In ogni caso tutti e tre hanno opportunamente superato la soglia del 3%, necessario ad ottenere il finanziamento pubblico.

Se questo è lo scenario che ci consegnano i dati ufficiali è più difficile rispondere ad alcuni interrogativi che emergono dalla scontata riconferma di Putin. Di quale reale consenso dispone il Presidente russo? Su questo la stampa occidentale, unanimemente ostile, non offre una lettura omogenea. Una parte rilancia i dati delle fonti di opposizione attive all’estero che parlano di decine di milioni di voti non corrispondenti alla realtà. Dati inverificabili e molto probabilmente esagerati. In questa occasione il potere doveva dimostrare la propria capacità di mobilitazione più che la propria capacità di alterare il voto. Probabile quindi che la falsificazione sia stata molto inferiore, per esempio, a quella messa in atto da Yeltsin nelle presidenziali del 1996, quando poté contare sul sostegno tecnico e politico degli Stati Uniti per cambiare drasticamente l’esito del voto.

Alcuni media occidentali, pur se sotto voce, riconoscono l’esistenza di un reale consenso per Putin. Il quale ha garantito una sostanziale stabilità del sistema, un relativo miglioramento della condizione economica e una ripresa di ruolo autonomo della Russia dopo gli anni del totale appiattimento sugli interessi occidentali. Tutto questo ha finora retto anche alle conseguenze dell’invasione dell’Ucraina. La Russia, anziché essere isolata e diventare una sorta di paria internazionale, può vantarsi di essere in prima fila nel confronto tra “Occidente collettivo” e “Sud globale”. L’economia, nonostante le sanzioni, ha retto e in parte può persino beneficiare del potenziamento dell’industria militare che si è dimostrata più adatta ad una guerra di posizione e di trincea come è diventata quella in Ucraina. Mentre l’occidente si era adagiato sulle esigenze delle “guerre americane”: spropositato predominio militare, preferenza per bombardamenti dall’alto e da lontano.

I russi nella loro grande maggioranza e dopo una incertezza iniziale, sembrano avere recepito il discorso putiniano a favore della guerra come momento necessario di autodifesa a fronte di un occidente sempre più aggressivo. La reazione dell’Unione Europea e degli Stati Uniti (russofobia e militarizzazione, espansione della Nato e avvicinamento delle basi militari al territorio russo, retorica della vittoria, ecc.) hanno legittimato agli occhi della popolazione russa le ragioni proposte da Putin per motivare l’intervento militare in Ucraina. Forse più di quanto era riuscito a fare il richiamo alla difesa della minoranza russa nelle regioni orientali dell’Ucraina.

Le elezioni si sono svolte in un momento nel quale le truppe russe sono, lentamente, all’offensiva e quindi la guerra sembra volgere militarmente a favore di Mosca. Resta ancora indefinito quale sia l’obbiettivo finale di Putin. Probabilmente all’inizio pensava di poter ottenere un cambio di potere a Kiev in modo da tornare alla situazione antecedente al cambio di regime ottenuto con la sollevazione di Maidan del 2014. Se questo era l’intento è indubbiamente fallito. L’annessione delle regioni orientali, se ad un certo punto poteva essere terreno di scambio per un accordo politico, col passare del tempo diventa sempre più difficilmente reversibile. Mentre certamente sembra improbabile che la Crimea possa tornare all’Ucraina alla quale era stata trasferita dal regime sovietico negli anni ’50. Anche Navalny aveva dato il proprio sostegno al recupero della Crimea e sembra difficile che in Russia si possa trovare qualcuno disposto a cederla nuovamente.

Nel discorso tenuto dopo la conferma elettorale, Putin ha introdotto un altro obbiettivo, quello di imporre una fascia di sicurezza sul territorio ucraino tale da impedire o comunque rendere più difficile gli attacchi alle zone russe di confine. Il ricorso alla retorica nazionalista, soprattutto ai fini del consenso interno, non consente ancora di definire con una certa chiarezza i possibili obbiettivi di Mosca sul terreno. Non è detto che i russi vogliano ampliare la zona ucraina sotto il loro controllo al di fuori delle regioni tradizionalmente russe o russofone, ma vi è senz’altro l’interesse a conquistare più terreno possibile in un momento in cui l’esercito ucraino è in difficoltà.

Per Kiev il problema non sono solo le munizioni ma i soldati da impiegare sul terreno. Il parlamento dovrebbe decidere di abbassare l’età del reclutamento dagli attuali 27 anni a 25 anni (i più giovani possono arruolarsi volontari) ma questa decisione potrebbe accrescere l’ostilità alla continuazione della guerra. Il senatore repubblicano statunitense Lindsey Graham si è recato nella capitale ucraina spiegando che è inaccettabile che non si abbassi immediatamente l’età per il reclutamento: “noi – ha spiegato – abbiamo bisogno di più gente al fronte”.

Secondo Orietta Moscatelli che, da Mosca, commenta le vicende russe per Limes, il vero interesse di Mosca non consiste tanto nell’espansione territoriale, quanto nell’accettazione da parte dell’Occidente di un ruolo della Russia come potenza operante in un contesto globale multipolare. Qualcosa che però l’Occidente al momento non è intenzionato a riconoscere.

Un secondo interrogativo che emerge dalle elezioni in Russia e al quale è difficile dare una risposta, riguarda lo stato dell’opposizione a Putin e i suoi obbiettivi. Alcuni osservatori hanno dato molta enfasi alla protesta lanciata dalla vedova di Navalny per affluire ai seggi a mezzogiorno. Da quanto si può capire dalle varie fonti di stampa questa parola d’ordine ha avuto un certo seguito nei seggi collocati fuori dal territorio russo che non all’interno e in alcune città come Varsavia, Praga, L’Aia e Erevan ha vinto il candidato della destra liberista. Sicuramente esiste un’area di malcontento le cui reali dimensioni non sono facilmente quantificabili. In vista delle elezioni le varie componenti dell’opposizione hanno lanciato parole d’ordine contrastanti; chi per il voto a chiunque tranne Putin, chi per l’astensione o la scheda nulla, chi per il voto a mezzogiorno. Scelte contraddittorie che indicano l’assenza di un progetto unificato. La “fortuna” di Putin (che in questo caso non si è dimostrata affatto cieca) ha portato nell’arco di pochi mesi alla morte delle due figure che avrebbero potuto coagulare un’opposizione: prima Prigozhin e poi Navalny.

Non manca in Russia un’area ultranazionalista e più aggressiva dello stesso Putin così come un settore, la cui base si ritrova in un ceto medio che aspira ad una Russia più “occidentale”. Navalny a seconda dei momenti della sua carriera ha cercato di cavalcare e in parte di unire entrambe le spinte combinandole con un certo stile populista e anti-corruzione. La repressione e la sua morte in prigione non gli hanno consentito di affermare una prospettiva alternativa a Putin che fosse anche credibile per quei settori di popolazione che non vogliono nemmeno un ritorno al terribile decennio eltsiniano: miscela di capitalismo selvaggio e subalternità all’occidente.

L’opposizione di sinistra definita “non sistemica”, anch’essa vittima della repressione, ha conquistato un qualche spazio nella rete comunicativa offerta dai social ma al momento è priva di una struttura organizzativa significativa ed è in aperto conflitto con il Partito Comunista, di cui contesta lo sguardo eccessivamente rivolto al passato e un’eccessiva disponibilità al compromesso col potere. Questo partito resta però, con tutti i suoi limiti, l’unica forza che dispone di un qualche radicamento nelle classi popolari.

Che cosa comporta per il quadro globale la conferma di Putin? Le classi dirigenti dell’Unione Europea vi vedono un ulteriore spinta verso la preparazione della guerra. Non si tratta solo di retorica, come quella esposta dal Presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, sulla stampa europea ma di scelte politiche precise. Finora l’azione occidentale sembra avere rafforzato Putin piuttosto che indebolirlo e tutte le iniziative in corso (espansione e rafforzamento della NATO, grandi manovre militari, nuove basi sempre più vicine al territorio russo) sembrano le più efficaci per ottenere lo stesso risultato. Oppure, e sarebbe anche peggio, aprire la strada ad un successore più nazionalista e avventurista dell’attuale Presidente.

Ci si può chiedere se le classi dirigenti occidentali credano veramente nella volontà russa di espandersi militarmente su tutto il territorio europeo. E anche ammesso che esista questa volontà se realmente ne abbia anche lontanamente la possibilità. Un’osservatrice francese, un tempo consigliera di Chirac sulle questioni russe e sensibile alla tradizione multipolare gollista, segnalava che uno dei principali problemi della Russia (come per altro dell’Ucraina) è la crisi demografica. Con l’attuale tendenza (che la guerra non può che accentuare) non ci saranno abbastanza abitanti per coprire la vastità del territorio della Federazione.

Ciò che guida l’azione e la propaganda dell’élite politica europea sembra piuttosto l’idea che la mobilitazione per la guerra sia lo strumento attraverso il quale è possibile rilanciare sia il progetto europeo che la propria egemonia in un contesto di fallimento della globalizzazione. Due sono i possibili vantaggi. Il primo è quello ideologico derivante dall’utilità dell’incombenza del nemico. Uno strumento ideale per ricostruire un’omogeneità interna in società sempre più dubbiose e incerte a fronte delle promesse irrealizzate dopo i trent’anni di trionfo del capitalismo liberista. In secondo luogo, la possibilità di utilizzare una politica di investimenti nell’industria degli armamenti come volano per una ripresa economica. Permettendosi così di unire le politiche di austerità in nome della sacralità del mercato e lo statalismo industrialista giustificato come preparazione alla guerra.

Rispetto al resto del mondo però l’Unione Europea continua a perdere credibilità nel momento in cui alla retorica sul diritto internazionale invocato per la guerra permanente in Ucraina fa da contraltare il sostegno di fatto all’occupazione dei territori palestinesi e al massacro dei civili da parte di Israele. Così come la scarsa accortezza ha voluto che mentre si denunciavano come antidemocratiche le elezioni russe ci si recasse, in vasta delegazione, a rendere omaggio e portare doni al Presidente egiziano al-Sisi (il quale ben consapevole di come va il mondo nello stesso momento inviava le sue congratulazioni a Putin e firmava accordi con i cinesi). Comunque stavolta, almeno, a differenza che con Erdogan, c’erano sedie per tutti.

Franco Ferrari

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