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La Vigna della Pace, ultimo spiraglio prima della fine

di Stefano
Galieni

“Kerem Shalom” (Vigna della Pace), per l’assurdità delle metafore, nello sciagurato massacro in atto a Gaza, da questo valico situato a sud est della Striscia, fra il confine con l’Egitto e Rafah, da cui dista solo 3 km, potrebbe rivelarsi fondamentale. Un terminal importante, da cui passano i camion con gli aiuti necessari alla popolazione stremata da mesi di assedio ma da cui potrebbero, in pochi minuti, transitare anche i blindati in grado di occupare e radere al suolo le case che restano in piedi. Da tre giorni il valico è chiuso, ne ha preso possesso pieno l’Idf israeliana. Si alternano con costanza azioni di resistenza a bombardamenti che ufficialmente uccidono miliziani palestinesi, in realtà si accaniscono contro i civili, perché questo genocidio riguarda soprattutto loro. Pochi giorni fa sembrava tutto pronto per procedere all’invasione e le parole di Biden venivano allegramente ignorate dal presidente Netanyahu. Le agenzie stampa, i parlamentari della Knesset, le radio, annunciavano che mancava solo l’ok politico per dare il via alle operazioni che avrebbero spazzato via la resistenza a Rafah. Sono stati fatti annunci in arabo e inviati volantini per convincere la popolazione civile ad allontanarsi. Per dove? Non certo l’Egitto, che al massimo ospita pochi vulnerabili. Dovrebbero volatilizzarsi? Erano, forse sono, anche pronte le tende in cui pietosamente ospitare coloro che avrebbero avuto la casa distrutta come effetto collaterale. Poco importa che in questo lembo di terra strappato al deserto vivano oltre 1 milione e mezzo di sfollati. Poco importa che la carestia stia divorando le loro vite. Per cinica crudeltà, quando il valico era aperto, gli aiuti ai palestinesi venivano ispezionati a questo valico, poi dirottati su Rafah e solo dopo potevano essere convogliati verso le popolazioni bisognose. Si creava un imbuto. Rafah riesce a far transitare non più di 100 camion al giorno, a Kerem Shalom ne possono transitare circa 200. In tempi normali c’era bisogno del passaggio di oltre 600 grandi veicoli carichi di cibo, d’acqua, di medicinali, quanto occorre semplicemente per sopravvivere. Hamas ha accettato formalmente la tregua proposta da Egitto e Qatar, secondo Israele si tratta di un trucco, finalizzato unicamente a rallentare l’attacco a Rafah, ma senza alcun intento pacificatorio. Del resto per Israele la parola pace non si coniuga con Hamas e, come evidente, non si coniuga nemmeno con la semplice parola Palestina, divenuta quasi indicibile. Se dovesse andare in porto un cessate il fuoco temporaneo, considerato come finalizzato unicamente al rilascio di una parte degli ostaggi, la guerra continuerebbe, forse riprenderebbe presto con maggior accanimento perché l’interesse è spazzare via Rafah e tutta Gaza, perché il presidente israeliano non reggerebbe sul suo trono un solo giorno se si avviasse un processo di pace. Intanto c’è chi si lava la coscienza ammonendo Netanyahu blandamente senza interrompere il flusso di armi al suo governo, chi costruisce banchine temporanee sul mare per far giungere gli aiuti auspicati, ma nessuno che abbia il coraggio di prendere decisioni di rilevanza politica tali da indurre Tel Aviv da recedere dai propri scopi. Come se qualche morto in meno sulla coscienza, almeno per ora, potesse sopperire ad una serie di scelte ingiuste, portate avanti da 76 anni dai paesi UE, dagli Usa e, non da ultimo, dai cosiddetti fratelli arabi, ostili fin da allora alla nascita di uno Stato di Palestina. E c’è ancora chi, in una situazione come quella che si è creata, non solo dopo il 7 ottobre ma dopo generazioni deportate in nome delle esigenze della cosiddetta “unica democrazia in Medio Oriente”, continua a proporre i “due popoli, due Stati”, rimuovendo la necessità di continuità territoriale, la presenza di 800mila coloni in Cisgiordania, la situazione di Gerusalemme che oramai Israele dà per acquisita come propria capitale. E che dire dei milioni di cittadini palestinesi sparsi per Libano, Siria, Giordania, Egitto, il cui diritto al ritorno non è nemmeno preso in considerazione? Dalle cancellerie europee, le più colpevoli di tale disastro, si continua a balbettare senza minimamente considerare il fatto che solo un’iniziativa politica che veda in campo tutte le forze presenti nello scenario mediorientale, può fermare il baratro. Altrimenti si abbia il coraggio e la dignità di dire che la Vigna della pace è ormai secca, che è il caso di raderla al suolo con gli strumenti di morte che oggi dominano. Una scelta possibile, forse nell’aria, soprattutto se lo scenario russo – ucraino si imporrà come dominante e permetterà di tenere in secondo piano il genocidio palestinese. Se dovesse accadere, per tanti anni ne pagheremmo tutti le conseguenze. Il popolo palestinese non si arrenderà ma cesserà di avere qualsiasi autorevolezza chi intendesse porsi come mediatore. Ci sarebbe una pace impossibile e una guerra eterna e quella Vigna diverrebbe deserto

Stefano Galieni

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