Mentre l’allargamento del conflitto in Medio Oriente rischia di divenire la seconda morsa di una tenaglia – la prima è in Ucraina – conducendo realmente il pianeta, Europa compresa, sull’orlo del baratro, in un contesto in cui realmente è sufficiente una scintilla per giungere all’irreparabile, sorprende la scompostezza, la fragilità, la mancanza di senso di responsabilità di quello che potrebbe essere, ma non è, un reale movimento continentale contro la guerra. Ignorando, per l’ennesima volta gli altri 56 conflitti aperti nel mondo, rimuovendo la strage silenziosa che avviene nel Sud Sudan, ad esempio, focalizziamo l’attenzione appunto sulla tenaglia. È passato un anno dall’azione militare contro civili di Hamas e questi dodici mesi sono stati scanditi da una pratica di genocidio che, rispetto ai decenni passati si è impennata e che ha portato il bilancio dichiarato delle vittime, nella Striscia di Gaza ad oltre 43 mila persone, in gran parte donne e bambini. Una pratica che continua incessantemente, che porta a bombardare campi profughi che risalgono al 1947 (non è un refuso), ospedali, scuole, infrastruttur3e civili che fanno rientrare la “rappresaglia” di Tel Aviv, a pieno titolo nell’elenco lungo dei crimini contro l’umanità, del tentativo di pulizia etnica e, appunto nel genocidio. L’apertura del fronte con lo Yemen delle popolazioni Houti ha segnato un altro capitolo dell’escalation, gli scontri in Libano con Hezbollah, culminati, come riportiamo in altri articoli. Si è passati attraverso il terrorismo 4.0 attuata con l’esplosione in contemporanea dei cercapersone dei dirigenti del “Partito di Dio” e, nel frattempo, tramite le esecuzioni extragiudiziali – pratica in cui l’esercito di Israele eccelle dal 1972 almeno – di dirigenti palestinesi, libanesi e iraniani attuate con mezzi militari in Stati sovrani e in piena impunità. Oramai dire che Israele è uno stato terrorista e che i suoi dirigenti politici vanno processati per i crimini commessi non è quasi più nemmeno considerato dimostrazione di “antisemitismo”, chi urla che Tel Aviv ha diritto a difendersi, anche con una guerra preventiva, rifiuta di cercare qualsiasi soluzione politica. E l’eliminazione fisica del nemico è di per se la negazione della possibilità di trattare e di cercare di uscire da questo incubo.
In tale contesto sarebbe lecito aspettarsi dal mondo progressista europeo, almeno un segnale e da quella che un tempo è stata la galassia pacifista una mobilitazione straordinaria. In alcune capitali europee tal mobilitazioni ci sono state, su parole d’ordine semplici: cessate il fuoco, fermare il genocidio, riconoscimento dello Stato di Palestina, intervento dell’ONU, blocco della fornitura di armi e boicottaggio economico ad Israele ad esempio. In Italia hanno prevalso le timidezze e l’ipocrisia di chi non vuole considerare la differenza fra aggredito e aggressore, che noni inizia il 7 ottobre del 2023 ma almeno 76 anni prima con la “Nakba”, la cacciata, la catastrofe che ha reso la maggioranza del popolo palestinese in generazioni di rifugiati. E mentre nelle capitali europee più consapevoli, sono anche le comunità ebraiche a chiedere la pace e a mobilitarsi, l’Italia vacilla fra punti inconciliabili. Una componente forte che ancora considera “fondamentale il diritto di Israele a difendersi” e, pur piangendo per la morte di civili esalta gli omicidi dei leader politici avversari con cui si dovrebbe prima o poi trattare, cerca di marcare un improbabile equidistanza senza entrare nel merito dei problemi da risolvere. In controcanto abbiamo chi è convinto di essere a due passi dalla rivoluzione e grida dalle tastiere, “Intifada fino alla vittoria”, “Palestina libera, Palestina rossa”, “From the river to the sea Palestina will be free”, dimenticando di avere di fronte uno dei più forti eserciti del pianeta supportato da USA e NATO: Il risultato, ad oggi è un temporeggiare sinistro delle forze italiane più moderate che accampano pretesti politici e o organizzativi e in contemporanea il proliferare di piccole manifestazioni, importanti sia ben chiaro, ma in cui capita di sentire “rivendicare il 7 ottobre come inizio della resistenza” (dove erano prima?), con toni che definiscono Israele come “entità sionista”, negandone di fatto l’esistenza, riconoscendosi in un fronte composto da Iran, Hezbollah, Houti, Hamas, islamismo politico diffuso, che nei decenni passati ha già dato prova di utilizzare, con diverse geometrie, la causa palestinese, come tema di politica interna o tuttalpiù in chiave geopolitica. A questo vanno ad aggiungersi le articolazioni della diaspora palestinese che non va, in maniera eurocentrica, considerata come un monolite nazionalista ma come un mondo fortemente politicizzato, che esprime anche lacerazioni mentre tenta di dare vita ad un fronte unitario. Articolazioni che andrebbero conosciute e rispettate in cui è altrettanto assurdo cercare la componente per cui “tifare”, in cui riconoscersi. Ovvio che per chi come in questa testata, sostiene un internazionalismo laico e di impronta socialista, è difficile riconoscersi nella Fratellanza Musulmana di cui fa parte Hamas o nei dogmi oscurantisti di Hezbollah, masi tratta di riconoscere peso e ruolo di tali forze senza costruire delle nostre piccole e risibili “black list”.
Sabato 5 ottobre era stata convocata, da parte delle Comunità palestinesi, una manifestazione nazionale a Roma, su pochi e chiari contenuti. Unione Democratica Araba e Palestinese, insieme ai Giovani Palestinesi, hanno indetto la manifestazione nello stesso luogo ma con una piattaforma tale che ha fornito l’alibi alla questura per porre il diniego. La galassia di sigle che ha aderito a tale piattaforma è tanto grande numericamente quanto rappresentativa di sigle poco significative, nel frattempo Comunità e Studenti Palestinesi hanno annunciato che, stante tali condizioni, non saranno in piazza. Il divieto della piazza, inaccettabile, sta portando altre forze più significative, a partecipare alla manifestazione senza aderire alla piattaforma, in un calembour che sembra non tenere conto di quanto stia accadendo in Medio Oriente.
L’episodio, per quanto marginale ed epifenomenico, è la fotografia delle possibilità di garantire un sostegno reale atto ad allargare la solidarietà nei confronti del popolo palestinese e la condanna al governo di Israele. C’è chi sta lavorando, in tempi brevi per una ulteriore e significativa mobilitazione capace di includere ampie fasce del mondo concretamente solidale con la Palestina ma intanto va registrato un immobilismo di fondo ed una lettura in alcuni settori, settaria e riduttiva di quanto sta accadendo in quelle aree. La svolta repressiva da tempo in atto in Italia – il ddl 1660 è prossimo a divenire legge – rischia di incontrarsi con una conflittualità che rischia di essere fine a se stessa. Come accaduto tante volte nella Storia di questo Paese sembrano convergere le pulsioni autoritarie di chi governa e legifera con il tentativo di acquisire effimera visibilità attraverso azioni di forza. Tutto questo nuoce gravemente a chi prova a costruire un reale movimento per la pace
E se in fondo, sulla causa palestinese, nel resto d’Europa, ci sono state comunque dimostrazioni di presenza reale delle forze sociali e politiche progressiste, dovremmo analizzare, senza schematismi di sorta, le ragioni per cui in Europa non si è mosso praticamente nulla sul fronte del conflitto in Ucraina. La sinistra in Europa è dilaniata su posizioni anche esse inconciliabili ma al punto che non si è riusciti, neanche in una occasione, a trovare un minimo comune denominatore per chiedere in quel paese un immediato cessate il fuoco. Non è solo responsabilità, come si vorrebbe credere, della propaganda occidentale, ma del fatto che quel conflitto è complesso, gli attori in campo non consentono scelte definitive e coerenti capaci di spiegare in maniera semplice e concreta quali possano essere le soluzioni possibili. C’è, soprattutto in alcuni Paesi, un contrasto più forte con la Russia di Putina, c’è in altri una lettura di una semplice “guerra per procura” fra Russia e Nato, c’è anche la mancanza di chiarezza che si traduce in un osceno si o no alla fornitura di armi, si o no alla possibilità di utilizzo delle stesse in territorio russo. O si fanno i conti con tale complessità o non se ne esce e si assiste ad una guerra di logoramento che, come per quella che avviene in Palestina, ad essere sconfitti sono unicamente i popoli
Stefano Galieni