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Di intelligenza artificiale, sfruttamento e militarizzazione del sapere. Ovvero alcuni spunti di riflessione da alcune “lezioni giacobine”

di Nicoletta
Pirotta

Anche quest’anno ho avuto modo di seguire, da remoto, l’edizione 2024 della “Scuola giacobina”, curata dalla rivista Jacobin-Italia, che, per chi ha partecipato in presenza, si è svolta dal 20 al 22 settembre a Firenze, presso Casa Caciolla, una realtà nata per essere luogo di accoglienza e sostegno scolastico in favore dei bambini che vivevano nelle case popolari della zona e che dal 2008 ospita persone detenute in pene alternative al carcere.

La scuola si è articolata su 6 filoni: “Marxiana dai Grundrisse al Black marxism”,  “Resistenze alle guerre e ai nuovi fascismi”, “Il ritorno dei movimenti nelle Università”, “Lettura transfemminista della realtà che ci circonda”, “Pratiche del movimento Ecologista”, “Storia, organizzazione e narrazione della working class.”

Ho seguito 4 lezioni del filone “transfemminista” (violenza di genere/classe e femminismo/ le lusinghe dell’inclusione/intersezionalità e movimenti sociali), una del filone “Movimenti in Università” (l’università e l’industria di guerra) e una del filone “marxiana” (si scrive intelligenza artificiale si legge capitale/ lavoro).
Avrei voluto seguire anche la lezione sul marxismo nero ma purtroppo è saltata.

Condivido in questo articolo alcuni dei contenuti emersi da due lezioni in particolare perché sono quelle che, più di altre, hanno consentito un aumento delle mie conoscenze.
Mi riferisco alla lezione sull’intelligenza artificiale a quella sui legami fra università e industria di guerra.

Per quanto riguarda la lezione su “Si scrive Intelligenza artificiale si legge capitale e lavoro” la relatrice, Armanda Cetrulo, assegnista di ricerca presso l’Istituto di Economia, Scuola Superiore Sant’Anna Pisa e ricercatrice affiliata al CEET – “Centre d’etudes de l’emploi et du travail” di Parigi, ha posto due questioni di fondo: di quale intelligenza stiamo parlando e se può esistere davvero un’intelligenza artificiale.
Sulla prima questione la relatrice ha invitato a riflettere sul fatto che l’intelligenza umana non è relativa al solo “problem solving” : Limitare l’intelligenza alla soluzione di un problema è nozione distorta e limitata perché l’umano intelletto attiva “forme complesse e articolate di comprensione e identificazione di problematiche, processi e soluzioni sulla base di nozioni non solo legate alla fattispecie di interesse, ma anche a contesti diversi, dinamiche relazionali e situazioni specifiche”.
L’intelligenza umana è sopratutto frutto di una costante interazione fra la persona ed il contesto nel quale è inserita .L’essere umano può costantemente sfruttare le propria capacità di astrazione e generalizzazione per aumentare le proprie conoscenze anche a partire da una singola nuova esperienza . Fatto questo che rende l’intelligenza umana creativa e flessibile.
In secondo luogo, l’intelligenza umana è intrinsecamente legata all’esperienza emotiva, alla comprensione di dinamiche interpersonale e di sfumature sociali. L’essere umano, potenzialmente, è in grado di avere consapevolezza di sé e del proprio ambiente, ha un senso di identità e comprende il concetto di passato, presente e futuro.
L’intelligenza artificiale al contrario, si sviluppa a partire da un insieme di modelli, fondati su “big data” e algoritmi, senza una comprensione reale di quanto si stia svolgendo, senza una consapevolezza di sé e del mondo circostante e quindi senza capacità di adeguarsi alle mutate condizioni di un contesto. Cosa questa che rende l’I.A. particolarmente rigida. Questa rigidità fa sì che quando si richiede ad essa l’interpretazione della realtà, il risultato è spesso quello di replicare rigidamente,in maniera acritica, pregiudizi, stereotipi e discriminazioni (di genere, classe, razza) che ancora esistono nella realtà. Fatto questo dimostrato da numerosi studi sull’uso dell’I.A. in diversi ambiti, dai procedimenti giudiziari alle diagnosi mediche e alla generazione di immagini. Il rischio è che in alcuni casi non è solo replica ma amplificazione di modelli faziosi e escludenti.
La seconda questione sulla quale la relatrice ha ragionato scaturisce dalla domanda se possa esistere un’intelligenza davvero artificiale.
A questo proposito un fatto che viene costantemente rimosso è che il lavoro digitale, necessario all’implementazione di I.A., è svolto da remoto, in tutto il mondo, da centinaia e centinaia di micro-workers.
Il funzionamento e il costante perfezionamento degli algoritmi prevede attività umane ineludibili, come ha spiegato Cetrulo, tipo : “associare nomi (o etichette) a suoni e immagini, trascrivere contenuti sonori, correggere refusi o altri errori commessi dall’I.A. nell’effettuare le sue attività di riconoscimento/associazione”.
Sono 545 le piattaforme di lavoro online con sedi in 263 paesi, piattaforme il cui nome è, in alcuni casi, poco noto ma che sono centrali per il funzionamento della filiera dell’I.A. (tra le principali vi sono Amazon, Mechanical Turk, Appen, Micro Hive e Scale).
Alcuni studi hanno messo in evidenza come le piattaforme digitali tendono ad insediarsi, non a caso, in Paesi con economie in crisi o addirittura sull’orlo della bancarotta (specie in sudamerica): lavoratrici e lavoratori mediamente istruite ma senza alternative concrete accettano di lavorare per poco meno di due dollari l’ora con condizioni di lavoro che sono riconducibili ad un vero e proprio “schiavismo digitale”.
Chi lavora in questo genere di attività è esposto a condizioni di estremo sfruttamento: salari irrisori, sorveglianza digitale, meccanismi di controllo che impongono connessione continua e subordinano la remunerazione al raggiungimento di obiettivi che possono essere modificati unilateralmente dalla piattaforma.
Ai platform workers si aggiungono coloro il cui lavoro si basa sull’utilizzo delle piattaforme, (per esempio rider o chi svolge compiti o traduzioni online).

Stimolata dalla lezione sono andata a cercare alcuni dati e ho scoperto che in Italia i lavoratori delle piattaforme digitali nel periodo 2020/21 ammontano a 570.521.
Oltre il 31% di essi non ha un contratto scritto e solo l’11% ha un contratto di lavoro dipendente, operando dunque in una sorta di “nuova precarietà digitale”.
Tutto ciò determina una “gig economy” che nel mondo conta dai 154 ai 435 milioni di “micro-worker”. Una manodopera spesso invisibile che vede una predominanza di giovani e di donne (si stima che 3 su 5 siano donne).
Come si vede dunque l’artificialità è solo fittizia, nella realtà l’economia digitale produce sfruttamento, un significativo peggioramento delle condizioni di lavoro, un’intensificazione dei meccanismi di controllo e dei ritmi di lavoro, un crescente isolamento sociale e un incremento di stress cognitivo. Tale economia favorisce, altresì, la concentrazione di capitale, aumento delle diseguaglianze e intensificazione della commistione tra poteri economici, tecnologici e politici su scala globale.
Ovviamente sarebbe possibile un modello alternativo di I.A. che potrebbe essere indirizzata per migliorare l’organizzazione del lavoro riducendo lo stress, favorendo una partecipazione dal basso al processo produttivo, dando vita a gerarchie non rigide.
Gli attuali rapporti di forza fra capitale e lavoro ed il difficile contesto politico nel quale siamo immersi rende difficile immaginare possibile una simile alternativa.

Quel che invece è possibile, ha sottolineato la relatrice, sono forme di lotta che nascono dai lavoratori stessi: la lotta dei rider per esempio ha dimostrato che si può opporre resistenza a logiche lavorative di sfruttamento e di disciplinamento pervasive.
Una lotta che, aggiungo io, ha avuto successo: lo scorso aprile il Parlamento Europeo per la prima volta, ha approvato una direttiva sul lavoro digitale. Uno dei punti qualificanti è dato dal fatto che i lavoratori non potranno essere licenziati sulla base di una decisione presa da un algoritmo.
La strada è ancora lunga ma qualcosa si muove.
Quel che però è bene avere presente è che l’I.A. è strumento finalizzato all’accumulazione di profitto e non ha niente a che vedere con la liberazione dal lavoro manuale…

La seconda lezione di cui mi sembra utile parlare è quella che ha riguardato “Università ed industria di guerra”.
La relatrice, Francesca Biancani, è professore associata presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna.
Il primo aspetto che è stato messo in luce è l’attuale trasformazione dell’ordine globale che non ha precedenti nella storia del secondo dopoguerra.
Un trasformazione talmente pervasiva che sta agendo anche sui modelli di pensiero, modificandoli. Basta pensare a come la guerra, nell’occidente europeo, sta prepotentemente tornando ad essere considerata un mezzo di soluzione dei conflitti.
Dentro questo scenario le università sono spesso mute quando non complici.
Due gli elementi che possono spiegare questo atteggiamento: la trasformazione neoliberale che ha investito gli Atenei e la militarizzazione della ricerca.
I due elementi sono fortemente legati fra loro.
La ristrutturazione neoliberale ha trasformato le università in aziende ed ha indebolito gli anticorpi necessari alla costruzione di un pensiero critico e di un sapere non asservito ai potenti di turno.
I luoghi per eccellenza del sapere sono ormai governati con un sempre maggiore spirito manageriale che tende al profitto, cioè, sostanzialmente, al “riempimento delle casse” dell’ateneo più che alla qualità dell’insegnamento.
L’aziendalizzazione ha, altresì, favorito approcci autoritari ed una ri-articolazione del sapere fondata su categorie securitarie.
Un ultimo ma importante aspetto che caratterizza la trasformazione neoliberale è il costante definanziamento pubblico del settore. Nel mirino ci sono sopratutto i piccoli atenei con il risultato di impoverire, sul piano culturale, tutta una seria di piccole e medie città. Un darwinismo sociale che preoccupa molto, in un Paese come il nostro caratterizzato da un forte abbandono scolastico e da una percentuale di laureate e laureati fra le più basse d’Europa (il 20,1% della popolazione contro il 32,8% nell’UE).
A queste trasformazioni se ne associa un’altra e cioè il processo di militarizzazione della ricerca . Le collaborazioni fra le Università statali e comparti militari, pubblici e privati, sono ormai pratiche diffuse.

La relatrice ha portato esempi concreti che riguardano l’Uni Trento che dal 2022 ha in essere un progetto di didattica e di ricerca in collaborazione con l’Esercito Italiano, l’Uni Aquila che dal 2023 ha iniziato un rapporto con lo Stato maggiore dell’esercito che prevede il trasferimento di know-how universitario (studi, ricerche, attività sperimentazioni) per sostenere le necessità della ricerca armata, ed ancora l’accordo quadro fra Uni Sapienza di Roma e aeronautica militare che prevede percorsi di ricerca e attività di sperimentazione.
Un caso da manuale è stata l'”esercitazione in mare aperto” del 3 maggio 2024 alla presenza del Comando della squadra navale della NATO, Guardia di Finanza, Carabinieri ed Esercito insieme a personale civile fra cui 65 fra docenti e studenti provenienti da 15 atenei italiani.
Alla luce di questi esempi la relatrice ha richiamato il pensiero di Antonio Mazzeo (promotore dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università) che, lucidamente, invita a sul riflettere sulla pericolosità dello scivolamento semantico del termine di sicurezza ( tanto che una forza armata che viene vista come protettiva!) e i processi militarizzazione della società civile che potrebbero condurre a “familiarizzare” con eventi di guerra divenuti ormai scontati quando non ineludibili.
Tra gli attori privati che gestiscono progetti di collaborazione fra università e mondo militare, la relatrice ha indicato la Leonardo Italia SpA, e realtà israeliane ( fra le quali l’Israel Innovation Authority (IIA) e Ramot, Technology Transfer Company che è in stretta collaborazione con l’Università di Tel Aviv) E’ interessante notare che la Leonardo Italia SpA, uno dei primi dieci operatori mondiali nel settore aerospaziale, della difesa e della sicurezza, si autodefinisce “un partner affidabile per Governi, Istituzioni e clienti privati” nella realizzazione di tecnologie all’avanguardia, in campo prettamente militare.
E’ utile sottolineare che le partnership fra Leonardo e realtà israeliane sono sostenute e coordinate dall’Ambasciata d’Italia in Israele, con il contributo dell’Ambasciata d’Israele in Italia e la Missione Economica d’Israele a Milano.
La relatrice denuncia che non è semplice ricostruire le forme di collaborazione fra il pubblico e il privato militare anche perché sono molteplici le attività comprese in queste collaborazioni, si va dal finanziamento di borse di studio, all’implementazione di nuovi programmi di studio, alla ridefinizione di curricula, ad attività di scouting e start up…
Francesca Biancani ha sottolineato l’importanza di monitorare, in particolare, i prodotti “dual use” che permettono il trasferimento di conoscenze o attività dal pubblico al privato militare ed un uso spesso improprio dei prodotti di tale trasferimento.
Se da un punto di vista normativo la UE rende legittime queste collaborazioni va detto che alcune restrizioni sono previste perché i progetti di “dual-use” dovrebbero riguardare prodotti da utilizzare per fini civili. Nella realtà tali progetti vengono traslati in campo militare senza che vi siano sanzioni precise se non prese di posizioni politiche importanti senza dubbio ma con scarsamente efficaci.
Alcuni esempi: nel 2019 un drone prodotto da un consorzio pubblico-privato finanziato anche da Israele che avrebbe dovuto essere usato nelle crisi ambientali viene usato per attacchi su Gaza. Lo stesso vale per un drone progettato per trasporto di medicinali il cui utilizzo reale ha riguardato il controllo militare del territorio di Cisgiordania e Gaza.
Vista la complessità della situazione servirebbe che questi argomenti diventassero materia di dibattito pubblico. Anche per poter raccogliere un maggior numero di notizie, informazioni, conoscenze.
In Italia qualcosa si muove in alcuni Atenei le rappresentanze studentesche hanno rivolto interrogazioni specifiche ai Senati Accademici ed in alcuni casi si è assistito ad una modifica o al tentativo di modifica dei progetti o delle partnership esistenti con industrie o soggetti militari.
Sarebbe necessario conoscere di più e meglio sui progetti in essere anche per poter produrre una “mappatura delle complicità” e poter agire con maggior consapevolezza.
In ogni caso, conclude la relatrice, quel che conta è allargare il perimetro della discussione perché questi temi riguardano tutte e tutti.

Nicoletta Pirotta

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