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La strada di Mimmo Lucano

di Stefano
Galieni

La condanna di Domenico (Mimmo) Lucano, di cui ormai tutto o quasi si è detto – anche ancora in attesa di sentire le motivazioni – ci scandalizza, indigna, ci lascia esterrefatti ma ci impone anche una riflessione più a vasto raggio. Una riflessione che parte dal contesto del piccolo ma ormai famosissimo borgo jonico ma che si allarga, temporalmente e coinvolge l’intero Paese, con spunti che dovrebbero spingere ad un confronto anche con il resto dell’UE. Quando nel 1998, con pochi mezzi, un’associazione di militanti e senza alcun programma istituzionalizzato, a Riace si cominciò ad accogliere negli appartamenti svuotati dall’emigrazione, non esisteva alcun programma per i richiedenti asilo. Otto anni prima la Puglia era stata interessata dalla prima ondata dell’emigrazione albanese. Si giunse a rinchiudere i fuggitivi della nave Vlora, nello stadio di Bari per poi rimpatriarli in massa con l’inganno e nel 1995 (“Legge Puglia”) si aprirono definitivamente le porte alla militarizzazione dell’accoglienza in funzione del respingimento. Nel 1997, sempre governo di centro sinistra, si procedette al blocco navale verso l’Albania, dopo il crollo delle finanziarie che avevano portato all’indebitamento e alla fuga per povertà altre migliaia di persone, ma ancora a nessuno venne in mente la necessità di dare agli arrivi che si andavano succedendo, anche sulle coste siciliane e calabresi, nonché sulla frontiera balcanica, e che non rappresentavano certo un’invasione, un progetto di governo. Si continuava a considerare tali avvenimenti come episodici e non come costante del secolo che si avvicinava. Il 1998 è anche l’anno della prima legge realmente organica – già allora piena di limiti – sull’immigrazione, la c.d. “Turco Napolitano”. Sta di fatto che quando iniziano a realizzarsi spazi di accoglienza informali in Calabria, da Badolato a Riace ad altri comuni jonici, non esiste né una legge né un piano sui ricorrenti asilo. Su pressioni Unhcr, e grazie anche all’intervento dell’ANCI, nel 2001 nasce il PNA (Programma nazionale asilo). Fra gli obiettivi del Programma, creare una rete di accoglienza per accompagnare i richiedenti asilo durante tutto l’iter del riconoscimento dello status e attivare interventi a sostegno dell’integrazione dei rifugiati. Il PNA ha portato ad oltre 420 progetti territoriali, con oltre 200 enti locali coinvolti. Poco dopo con la legge “Bossi Fini”, che all’inizio sembrava voler non sostenere il PNA, si comincia a decentralizzare la procedura di richiesta d’asilo attraverso Commissioni Territoriali, con il compito di esaminare le istanze di riconoscimento della protezione internazionale nelle rispettive aree geografiche di competenza. Fino ad allora era solo una Commissione Nazionale a dover gestire tutte le pratiche. Il PNA cambia allora nome e diventa SPRAR (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati), successivamente SIPROIMI ed ora SAI (Sistema di accoglienza e integrazione). Al di là dei cambi di nome due sono gli elementi interessanti da notare e che riportano alla vicenda di Riace: intanto il sistema, che nelle intenzioni del legislatore doveva veder coinvolti gli enti locali nei progetti di accoglienza che, in quanto basati sull’idea della stabilizzazione e l’autonomizzazione dei beneficiari, si sarebbe dovuto estendere, in proporzione alla densità abitativa e alle condizioni economiche di ogni singolo comune a tutto il Paese ma che invece, nel suo massimo fulgore, non riesce a raggiungere più di un quarto dei comuni italiani. E poi le leggi restano per troppo tempo sulla carta.

A Riace, come in molte altre realtà italiane di frontiera, l’accoglienza informale prevale su quella istituzionalizzata. L’esperienza di Mimmo Lucano e dell’Associazione Città Futura – Don Pino Puglisi, nasce in tale contesto, solo con molta fatica e facendo conoscere i fattori innovativi che a Riace si andavano sperimentando, si giunge ad un ingresso di tale progetto in sede istituzionale. La realizzazione di attività di artigianato, di botteghe, un frantoio, un piccolo caseificio, la lavorazione del tessuto ricavato dalle piante di ginestra, la raccolta differenziata compiuta con l’ausilio di asinelli, l’apertura di una taverna e di un circuito di turismo sostenibile in cui richiedenti asilo, riacesi e turisti si incontravano, rappresenta una vera e propria positiva bomba sociale. Riace diviene un esempio di cui si comincia a parlare non solo in Italia, Lucano viene eletto nel 2004 sindaco (carica che ricoprirà per 3 mandati) fino all’indagine “Xenia”, che lo porta alla sospensione dell’incarico e addirittura, dopo gli arresti domiciliari, al suo esilio dal paese. Siamo a questo punto al mese di ottobre del 2018, quando il calvario di monitoraggi ed ispezioni porta a formulare contro Lucano un carico impressionante di accuse e mentre nel frattempo venivano sospesi i finanziamenti ai progetti Sprar. Andando però a spulciare nei capi di imputazione che gli vengono contestati, conoscendo bene come – per pronunciamento della Corte di Cassazione nel 2019 – Lucano e le persone con cui ha lavorato, non hanno tratto beneficio alcuno dai finanziamenti ricevuti nell’accoglienza di centinaia, forse migliaia di persone passate a Riace, si coglie un nodo di fondo che va ben fuori dal piccolo comune calabrese. Nonostante il dl 142/2015 sia intervenuto per favorire i Comuni che si facevano carico dei progetti di accoglienza – ad esempio intervenendo positivamente in merito ai vincoli di bilancio – la macchina che portava e che porta a poter gestire l’accoglienza resta lenta e obsoleta. Gran parte dei progetti vivono giorno dopo giorno non sapendo quando giungeranno le risorse per andare avanti, pagare fornitori, personale degli enti gestori che devono garantire corsi di italiano e avviamento al lavoro, affitti delle abitazioni, spese vive dei richiedenti asilo. Nei centri gestii dagli enti locali i richiedenti dovrebbero restare per un periodo non superiore ai sei mesi, al massimo rinnovabile di altri sei, ma per l’ottenimento dell’asilo o di altra forma di protezione umanitaria, spesso si impiega almeno un anno e mezzo. Dove debbono andare queste persone? Salvini aveva risolto il problema vietando l’accesso a questi centri a chi non aveva ottenuto lo status di rifugiato, abolendo la protezione umanitaria e tagliando i fondi a tali modalità di accoglienza, col risultato di far finire in strada quasi 50 mila persone. Alla faccia della sicurezza che dichiarava di portare nel Paese. Il suo predecessore, Marco Minniti, aveva provveduto ad eliminare un grado di giudizio nelle udienze che dovevano definire o meno il diritto a restare in Italia. Risultato? Aumento dei dinieghi, intasamento dei ricorsi in Cassazione per evitare l’espulsione, espulsione che non si poteva nel 70% dei casi realizzare o per mancanza di accordi bilaterali di riammissioni o per le condizioni oggettivamente esplosive dei paesi di provenienza. E si badi bene, tutto questa parte riguarda la tipologia di accoglienza in cui spesso si sono prodotte le esperienze più virtuose, quelle gestite dai Comuni. Il 75% delle persone che arrivano prive di documenti e che chiedono protezione o asilo, finiscono ancora nei CAS (Centri di accoglienza straordinaria) scelti e imposti in alcune località dalle prefetture e in cui molti dei servizi di inclusione sociale non vengono garantiti. È in questi centri che si è concentrato gran parte del malaffare, dell’appropriazione di denaro pubblico a fini privati, delle truffe – c’era chi segnava come “ospiti” persone inesistenti o chi dichiarava, senza alcun obbligo di fatturazione, di erogare servizi mai prestati – insomma un business che ha alimentato la rabbia nei confronti degli immigrati e aumentato notevolmente il fatturato di numerose cooperative, fondazioni, onlus e affini. Ma in questi casi le indagini sono state poche e rarefatte. Persino con l’esplosione di “Mafia capitale” e di un sistema di corruttela di dimensioni micidiali, tanto da portare a dire ad uno degli imputati intercettati “se guadagna più co’l’immigrati che con l’eroina”, si è badato a non rompere l’intera catena di comando criminale. I principali condannati per un sistema che ha visto convivere esponenti politici di diversa appartenenza, criminalità comune, ambienti eversivi della destra, settori delle istituzioni, hanno avuto pene inferiori rispetto a quella inflitta in primo grado a Mimmo Lucano. Ma il punto di maggiore gravità è un altro. Nella gestione emergenziale dovuta ai ritardi con cui venivano elargiti i finanziamenti, nel tentativo di dare risposte a tutte/i coloro che chiedevano aiuto, Lucano ha messo come primo punto del proprio agire il benessere delle persone accolte. Per farlo ha, probabilmente – saranno i successivi gradi di giudizio a definirlo – ad ospitare persone per un tempo superiore al consentito, a non avere tutte le fatture e gli scontrini necessari a dimostrare le spese effettuate, a non prestare sufficiente attenzione a tutto il carteggio burocratico necessario. Magari non saranno stati riempiti moduli, osservati con zelante scrupolo, tutti i vincoli, ma – sempre riprendendo quanto affermato dalla Suprema Corte – per fini superiori.

A maggior ragione bisognerebbe affrontare le responsabilità reali che hanno portato anche a commettere errori veniali che è inaccettabile definire reati. L’associazione a delinquere, di cui è accusato Mimmo Lucano, dovrebbe essere reato ascrivibile ai tanti che in 30 anni di immigrazione sono stati incapaci di sistematizzare l’accoglienza, garantire controlli, evitare il lucro sulla disperazione. La truffa continuata – di cui Lucano è accusato – non è forse continuamente compiuta grazie a coloro che considerano gli operatori nei centri di accoglienza come lavoratrici e lavoratori da sfruttare con contratti capestro e i beneficiari come pacchi da trasportare là dove rendono meglio? Il peculato e la sottrazione di denari pubblici non sono forse da considerare a carico di chi ha preferito la concentrazione di persone in grandi e redditizi centri – spesso in condizioni di invivibilità – evitando di fare pressioni maggiori sugli enti locali, magari fino all’obbligatorietà, per garantire una distribuzione sul territorio di chi è arrivato per trovare futuro. E, da ultimo, è giusto condannare Mimmo Lucano a 2 anni e 10 mesi per aver rilasciato un documento ad una ragazza, poi perita nell’incendio di una baracca o intervenire su chi quei documenti doveva provvedere a rilasciarli e non ha agito obbedendo a leggi disumane? La vicenda politica e umana di Mimmo Lucano, prima che giudiziaria, è la cartina di tornasole di un sistema che continua a utilizzare, per convenienza l’accoglienza come un fenomeno emergenziale. Nell’emergenza si guadagna meglio, si va in deroga agli appalti, ci sono meno controlli e il business è più fiorente. Se poi qualcuno dà all’accogliere un senso politico e tenta di bypassare un sistema affaristico, allora bisogna colpirlo, cercare ogni suo errore per crocefiggerlo come il peggiore dei criminali. L’importante è che si torni al quieto vivere in cui 70 mila ospiti nei quasi mille centri di accoglienza, garantiscano profitto, creino lavoro a basso salario, determinino un indotto che porta al clientelismo più bieco senza minimamente doversi occupare del futuro dei beneficiari. Magari se una o uno di loro riescono ad uscire da tali contesti come esempi “positivi” (campioni sportivi, impegnati nel sociale, eroi per una notizia) questo è anche meglio perché contribuisce a definire le eccezioni che confermano una regola non scritta. Quella per cui il richiedente asilo è una fonte di profitto; più resta dipendente dalle istituzioni più continua a rendere. E anche poter additare i troppi accolti come fonte di problema – vissuti sempre come emergenza – serve a garantire una stabilità politica fondata sulla tensione e nessuna modifica strutturale di sistema come si è provato a realizzare in altri paesi, soprattutto nel Nord Europa. Per questo Mimmo Lucano va colpito, per questo bisogna restare dalla sua parte.

 

Stefano Galieni

immigrazione, politiche pubbliche
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