Negli anni Ottanta l’Europa era sostanzialmente socialdemocratica. La libera impresa aveva ogni opportunità, il lavoro era dignitoso e protetto, i servizi pubblici funzionavano, vigeva una soddisfacente equità nella distribuzione della ricchezza, c’erano ancora tracce di ascensore sociale, che non solo offriva opportunità a tutti, ma garantiva anche qualche periodico rinnovamento della classe dirigente. In Italia vi era ancora, per quanto in sofferenza, il sistema delle partecipazioni statali, che aveva garantito dal dopoguerra in poi sostegno alla crescita e alla formazione manageriale, robustezza alla struttura economica nazionale, della quale ogni categoria beneficiava, e inquadramento generale alla politica industriale del nostro paese; aveva inoltre contributo alla stabilità sociale, ai livelli di potenza dell’Italia e all’espressione dei nostri interessi nell’intorno europeo e mediterraneo. In Europa non era ancora tramontato il disegno integrativo, né era cominciato il dissennato allargamento che avrebbe vanificato quel poco che era stato intanto costruito.

Considerato tutto questo, perché i popoli europei, e soprattutto quelli dei tre maggiori membri dell’Unione, avrebbero dovuto rivolgere in quota significativa le proprie speranze a partiti populisti o apertamente di destra? Che avevano da guadagnare? Ovviamente nulla. Hanno però visto liquefarsi, negli ultimi decenni, tutto il prezioso equilibrio che era stato raggiunto al costo di due guerre mondiali e di un lungo periodo di guerra fredda. Hanno visto assottigliarsi le politiche sociali, svanire ogni seria prospettiva di ascesa nei ranghi della società, hanno subito la precarietà del lavoro e della vita, hanno visto accrescersi a perdita d’occhio la concentrazione delle ricchezze da un lato e la povertà, talvolta anche per chi lavora, dall’altro. Hanno constatato il progressivo affievolimento del sogno europeo, che era comunque un’ancora di speranza per il futuro. Hanno visto le classi medie precipitare ai livelli di quelle più povere. E mentre questo succedeva, le cosiddette sinistre e l’Unione Europea, piuttosto che difendere, rispettivamente, i principi dell’equità sociale e del lavoro, e quelli della progressiva integrazione fra gli stati membri, si sono adagiate sul Washington consensus, sul neoliberismo senza regole e senza freni, sulla deregulation delle transazioni finanziarie, sui tagli alla spesa pubblica, e quindi dei servizi sociali, e sul totem del libero mercato; sviluppi che non hanno apportato vantaggi se non alle élites. Un interessante seminario dal titolo “La Socialdemocrazia e l’Europa”, organizzato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli nel luglio dell’anno scorso) ha fatto emergere con vivida lucidità, seppur in termini dialettici fra i diversi relatori, una serie di riflessioni; le riportiamo qui per sommi capi, facendo riferimento a quell’iniziativa (https://fondazionefeltrinelli.it/scopri/socialdemocrazia/).

I partiti socialdemocratici hanno attraversato il Novecento; eppure, la loro storia fatta di aspri dibattiti, congressi infuocati e battaglie ideologiche, sembra essere caduta nell’oblio e in una specie di reticenza, quasi che quello che è successo prima della caduta del Muro di Berlino dovesse suscitare riserbo, quando non addirittura imbarazzo. Oggi nel vecchio continente tutti i partiti di centro-sinistra si professano fieramente europeisti, e in tal senso hanno condotto le loro battaglie politiche degli ultimi anni. Possiamo dire che essere europeisti coincide oggi con l’identità socialdemocratica più profonda, e viceversa. Tuttavia, a partire dal 1989, la socialdemocrazia non è stata più la stessa, avendo sostanzialmente e acriticamente accettato le politiche neoliberiste dei partiti popolari europei in economia e le politiche atlantiste, non sempre favorevoli agli interessi dell’Europa, sul piano internazionale. L’evoluzione interna dell’Unione Europea ha di conseguenza privilegiato temi monetari e finanziari a detrimento dei temi della sicurezza, della difesa e della politica, nonché dei temi di rilevanza e protezione sociale, trascurando del tutto le politiche keynesiane in favore di una visione messianicamente neoliberale e di una fede cieca nel mercato, nel cosiddetto merito, nel settore privato e nella competizione; visioni che hanno portato allo smantellamento dello stato sociale, soprattutto nei paesi finanziariamente più deboli. La domanda finale dal seminario fu se la sinistra non sia stata in grado di rispondere ai processi di globalizzazione per “incompetenza politica” o “subalternità”, oppure se vi sia stata una intenzionalità deliberata, una precisa volontà politica di governare i processi storici nella direzione dell’iper-liberismo e del monetarismo europeo. Questa domanda, certo importante, per l’analisi fenomenologica e per cercare di immaginare il futuro, non è molto rilevante, ai fini del risultato attuale: l’integrazione economica senza adeguata integrazione politica e senza unione fiscale non è stata (e non sarà) sufficiente né alla vera integrazione sognata dai padri, né a qualsivoglia forma di equità e intervento sociale.

Basterebbero le interessanti e non sorprendenti conclusioni del citato dibattito a spiegare gli avanzamenti della destra, i cui partiti hanno avuto facile gioco a intercettare l’insoddisfazione degli elettorati. Ma v’è di più, e credo che anche quel che segue abbia contribuito a esasperare la gente. Sia la cosiddetta sinistra che l’Unione sono state colpite dalla sindrome del calviniano Cavaliere Inesistente. Questo Cavaliere era una semplice armatura del tutto vuota. Non potendo quindi esprimere una vera esistenza, ma dovendo comunque manifestarne qualcuna per la dignità di nobile paladino di Francia, il Cavaliere assumeva sempre gli atteggiamenti più pedanti, più estremi, più arroganti, più supponenti, affinché gli altri comunque in qualche modo lo riconoscessero.

Analogamente, le sinistre, a copertura dell’inazione sociale, si sono date a una strenua lotta per le libertà e i diritti, cioè per le sole cose che fortunatamente non ci mancano. Vi sono certo questioni in dibattito che meritano attenzione; ma queste vengono affrontate, anche dalla stampa e dai commentatori di parte, in chiave woke, su un piano ideologico, con approcci apodittici e modalità radicali del tutto prive di visione e dialettica politica. Come avviene per i temi delle minoranze LGBTQIA+, dove in generale non si fa differenza fra aspetti di vera rilevanza sociale e tutela degli interessati, temi di controversa fondatezza, e rivendicazioni che a molti appaiono prive di fondamento. Come avviene per i temi migratori, che certamente andrebbero affrontati in prospettiva lunga e con il concorso di tutta l’Unione, a tutela soprattutto degli stessi migranti, che meriterebbero integrazione, lavoro, casa, e soprattutto meriterebbero di non essere sfruttati come schiavi, dove invece le voci della sinistra e dell’Europa non suonano che in forma retorica e strumentale. Come accade per il lavoro, che, al di là di manieristiche e futili rivendicazioni, è stato abbandonato alle mani dei vari riformatori, e per l’economia e le attività produttive, defraudate di ogni pur minimo abbozzo di politica industriale e affidate completamente alle regole del rigore e alle magnifiche sorti e progressive del libero mercato. L’Unione, dal canto suo, come ha provato a mostrare di esistere nella propria armatura istituzionale carente di vera sostanza politica e integrativa? Anche lei come il Cavaliere Inesistente, prodigandosi in asfissianti normative burocratiche, in regole prive di autentico contenuto politico, in complessi e pedanti meccanismi istituzionali, in regolamenti e direttive elaborate a tavolino o, peggio, al servizio di lobbies, nella stucchevole aderenza al peggio del politically correct. Sul piano internazionale e su quello economico, dove pure in passato avevano avuto momenti di protagonismo utili a loro stesse e agli altri, sia la cosiddetta sinistra che l’Europa hanno abdicato a ogni velleità di pensiero autonomo, pur nella cornice delle alleanze, e si sono miseramente appiattite sulle visioni, le politiche e gli interessi degli Stati Uniti d’America, in politica (piaccia o meno ammetterlo, anche questo delude molto gli elettorati, che non sempre, anzi quasi mai, condividono le retoriche e le propagande sbandierate da chi governa o da chi vorrebbe governare), e si sono sottomesse alle imposizioni dei grandi interessi multinazionali e finanziari, in economia.

Il Cavaliere Inesistente, racconta Italo Calvino, si trovò a un certo punto nel castello della dama più bella e vogliosa delle contrade nelle quali peregrinava. Dopo cena, una cena che aveva prolungato con mille futili pretesti e insulse conversazioni al fine di non arrivare al dunque, non potette spogliarsi, per non dover manifestare la propria inesistenza al di sotto dell’armatura. E così prese a perdere tempo fino al mattino, arrampicandosi su assurdi e interminabili pretesti e sostenendo che le lenzuola non erano mai ben posizionate, tanto che si dovette rifare il letto varie e svariate volte. Finché si fece giorno, e il Cavaliere perse l’occasione, occasione che del resto non avrebbe mai potuto sfruttare. Ecco: la sinistra e l’Europa, a fronte delle grandi occasioni che si presentano in un mondo in trasformazione, in un’economia internazionale che necessita correzioni, in presenza di drammatici temi sociali e internazionali sui quali si dovrebbe intervenire con urgenza, non hanno fatto altro, almeno finora, che fare e rifare il letto sul quale mai si adageranno. Anche perché, proprio come il calviniano Cavaliere, mancano della risorsa necessaria: l’esistenza.

In questo confuso momento, per l’Europa e per il mondo, l’allarme è alto, e ben venga qualunque sconfitta della destra. La ricetta per evitarne la progressione, tuttavia, non può essere quella di “eroiche” reazioni per evitare la breccia proprio quando il castello sta per essere espugnato; non solo perché, come disse Bertold Brecht, sono beati i popoli che non hanno bisogno di eroi; ma anche perché se lasciamo che questa progressione continui, prima o poi finirà per imporsi, e anche ove ciò non avvenisse, comunque continuerebbe a corrodere e ad avvelenare la società. Insomma, l’”infezione” (la deriva destrorsa) c’è, e si è stabilita perché chi avrebbe dovuto tutelare la società non le ha consentito una “vita sana e salutare” (basata su equità sociale, tutela del lavoro, protezione dai guasti del neoliberismo, integrazione europea…); per questo, la società ha perso “difese immunitarie” (benessere, soddisfazione, speranza, equilibrio sociale…), e l’”infezione” ha attecchito; come tutte le infezioni, debilita e fa danno anche quando non arriva al punto di “ospedalizzare il malato” (andare al governo). Quindi, se cura ci deve essere, questa non deve limitarsi a “interventi d’urgenza in pronto soccorso” (desistenze, manovre, mobilitazioni popolari alla disperata…), ma deve provvedere a restituire alla società serenità, equità, fiducia e saldezza. La medicina preventiva non solo preserva la salute, ma previene il pronto soccorso.

Sembra quindi arrivato il momento delle grandi domande. Basteranno anche in futuro artifici e mobilitazioni dell’ultimo minuto, gloriose prese di coscienza degli elettorati che evitino il successo dei partiti di destra, ma non per questo ne arrestano la penetrazione nella società? Penseranno la sinistra e l’Europa a elaborare strategie politiche e sociali atte a scongiurare il pericolo, ad allontanare gli spettri e a eradicare ogni infezione dalla società stessa, e non solo dagli esiti elettorali? Trarranno da tutto ciò lezioni per l’avvenire, o continueranno a essere (non essere) la stessa sinistra e la stessa Europa che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni, strenuamente antifasciste (e va bene) ma anche strenuamente neoliberiste, acriticamente atlantiste, tenacemente woke, e incapaci di indipendenza, di azione sociale, di autentico impulso integrativo? A queste domande bisogna che entrambe rispondano, e rispondano ora, prima che il resto del mondo prenda il sopravvento imponendo paradigmi e valori, o disvalori, alieni alla nostra cultura e alla nostra storia.

L’autore di quest’articolo, oltre che amante di Italo Calvino e della letteratura, è convintamente socialista, europeista e sostenitore dei diritti, che non devono essere messi in concorrenza, ma entro i quali dovrebbero essere compresi anche quelli sociali, dei quali purtroppo si è persa la bussola. Proprio per questo ritiene che questa pseudo-sinistra e questa Europa abbiano fallito le rispettive missioni storiche, e abbiano necessità di radicali ripensamenti.

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