I tempi della campagna elettorale francese sono strettissimi. Questo ha richiesto decisioni rapide per compiere scelte tutt’altro che semplici. Domenica 30 giugno, gli elettori si sono presentati ai seggi in gran numero per esprimere le loro preferenze e domenica 7 luglio, nel secondo turno, decideranno, con un sistema elettorale maggioritario che può deformare l’effettivo orientamento degli elettori, quale sarà il nuovo scenario politico della Francia.
I dati fondamentali del primo turno sono abbastanza chiari ma lasciano aperto esiti sensibilmente diversi. L’estrema destra del Rassemblement National, con un piccolo sostegno dei Repubblicani di Eric Ciotti, si assesta al 33%, diventando la prima forza politica del Paese. Con un terzo dei voti può ancora conquistare la maggioranza assoluta dell’Assemblea Nazionale, imponendo quindi il giovane Jordan Bardella alla carica di primo ministro, in coabitazione con Macron.
Il campo presidenziale, col 20%, ha parzialmente recuperato sulla disfatta delle europee, ma questo recupero, avvenuto soprattutto grazie ad elettori di centro-sinistra che si erano orientati sulla lista di Raphael Glucksman, non ha cancellato la sconfitta politica del macronismo. Non avrà più una maggioranza per governare, le varie componenti della coalizione che ha sostenuto il Presidente (con il Modem di Bayrou e Horizons di Edouard Philippe) pensano al dopo muovendosi in autonomia. Se il primo ministro Gabriel Attal, che ha fatto campagna elettorale chiedendo il voto per sé e cercando di separare il proprio destino da quello di Macron, puntava già alle presidenziali del 2027, il risultato gli tarpa le ali.
Il campo presidenziale (la “macronie”, come viene sarcasticamente definita da molti) non è riuscito a formulare una posizione chiara ed univoca sull’atteggiamento per il secondo turno. Alla fine la gran parte dei candidati arrivati al terzo posto si sono ritirati, ma le indicazioni restano contraddittorie. Resta per molti esponenti di quest’area il rifiuto di sostenere i candidati che appartengono a La France Insoumise, considerata troppo estremista ed equiparata, quando va bene, al Rassemblement National. Sembra difficile che il progetto politico di Macron orientato a superare il bipolarismo tradizionale destra-sinistra (dove la destra era quella di tradizione gollista e la sinistra quella socialista), affermando un’egemonia centrista possa sopravvivere. Il “né destra, né sinistra” si è trasformato, con qualche eccezione sui diritti civili, in politiche di destra.
Certamente Macron è in buona misura l’espressione di quelle che, in Italia, chiamiamo le ztl delle città. I suoi elettori sono i beneficiari delle politiche liberiste o quelli che pensano di poterli diventare grazie alle innovazioni tecnologiche e a quegli spazi sempre più ridotti di ascensore sociale che ancora esistono. Il problema strutturale per la “macronia”, al di là dei molti errori compiuti dallo stesso Macron, è che questi settori sono numericamente minoritari anche se convergono con l’orientamento di una parte importante delle classi dominanti. A questo si aggiunga l’incapacità propria all’attuale Presidente di avere un minimo di connessione sentimentale con la grande maggioranza dei francesi.
La sinistra, che si è riunita nel Nuovo Fronte Popolare, è in questi giorni fortemente impegnata nell’impedire che il Rassemblement National ottenga la maggioranza assoluta o che, avvicinandovisi possa, nella prossima Assemblea Nazionale, governare con il supporto di una parte degli eletti Repubblicani che non hanno seguito Eric Ciotti.
Più difficile pensare che si possa determinare una maggioranza assoluta della sinistra tale da introdurre una cesura significativa con le politiche della presidenza di Macron. La sinistra deve gestire nei pochissimi giorni della campagna elettorale un difficile equilibrio tra la strategia del “fronte repubblicano”, che Julia Cagé suggerisce di chiamare “fronte democratico”, per coalizzare tutti coloro che vogliono fermare l’estrema destra e contemporaneamente rendere percepibile, attraverso la formula del “fronte popolare”, la propria volontà di realizzare una politica che migliori le condizioni di vita delle classi popolari.
Il voto della sinistra, che complessivamente raccoglie il 28%, un paio di punti percentuali più della Nupes, ma almeno 4 meno di quanto ottenuto dalle singole liste alle europee, è un successo difensivo. Ha respinto la manovra del campo presidenziale di aggregare intorno a sé il voto non RN dipingendo la sinistra come l’espressione di una deriva estremista, e collocandosi a non grande distanza dall’estrema destra.
Ha mantenuto o recuperato un forte insediamento elettorale non solo nelle città ma anche nelle grandi periferie popolari cittadine, come si vede dall’elezione al primo turno di diversi suoi esponenti proprio in queste zone. Tra queste la storica cintura rossa parigina che pure in certi momenti aveva vacillato di fronte all’offensiva ideologica dell’estrema destra.
L’estrema destra non è la rappresentante politica in modo omogeneo dei settori popolari perché si è determinata una frattura che li attraversa. Quelle urbane sono molto più eterogenee e multiculturali di quanto non sia la Francia profonda. La xenofobia, la paura dell’immigrato, la sensazione di non riconoscere più il paese nel quale si è cresciuti, sentimenti sui quali l’estrema destra gioca spregiudicatamente, sono molto più diffuse nelle zone rurali e nei piccoli centri che non nelle periferie urbane. Un dato che conferma una tendenza più generale, se si hanno presente i dati della Brexit o la rappresentazione cartografica del voto negli Stati Uniti. Lo stesso emerge dalla raffigurazione del voto francese: i grandi centri urbani prevalentemente rossi o rosa sono circondati da una crescente marea bruna.
In tutto questo la sinistra francese non ha ancora trovato una vera strategia vincente anche se ha saputo reagire con prontezza al cambiamento di situazione politica.
Melenchon aveva proposto di andare alle elezioni europee con una lista della Nupes, idea non accolta per vari motivi dalle altre forze che hanno preferito contarsi. Il risultato è stata una campagna elettorale in cui non sono mancati gli accenti polemici tra le varie componenti della sinistra. Di fronte all’avventuristica decisione di Macron di indire elezioni anticipate, la scelta di unirsi e di dar vita al “nuovo fronte popolare” era giustificata e necessaria. Per altro frutto anche di una enorme pressione dal basso che si è subito innescata nei confronti degli eletti e dei dirigenti politici della “gauche”.
Il programma è stato caratterizzato da scelte nette sul piano sociale e redistributivo, ma su un sostanziale continuismo in politica estera, in particolare sulla guerra in Ucraina. Tema per altro quasi totalmente ignorato in campagna elettorale da tutti e sul quale il partito della Le Pen, che in altri momenti era sembrato sostenere la linea trattativista, ha molto annacquato la propria proposta per renderla NATO-compatibile.
La campagna elettorale non poteva cancellare i dissensi strategici tra i vari partiti che si erano riproposti dopo la rottura della Nupes. Un bilancio più approfondito si potrà fare dopo il voto di domenica ma non c’è dubbio che restano elementi significativi di differenziazione, benché questi non abbiamo impedito un’alleanza che va dall’ex presidente Hollande ai trotskisti (di due fazioni diverse) Philippe Poutou e Jerome Legavre, quest’ultimo già eletto in quota France Insoumise nel 2022.
Si potrà accennare molto brevemente ad alcuni nodi irrisolti. Il Partito Socialista, uscito fortemente indebolito dalla presidenza Hollande, ha dimostrato alle europee di poter ridiventare il partito principale della “gauche”, ma al suo interno convivono anime diverse. Da un lato una componente che vuole tornare a riaffermare il primato della “sinistra di governo” con tutti gli adattamenti alle politiche liberiste di cui è stato protagonista nel passato, dall’altro chi ritiene che si debbano introdurre elementi di rottura significativa con quelle politiche.
Il bilancio della France Insoumise presenta, per usare una formula un po’ logora, “luci ed ombre”. Melenchon si è certamente confermato un politico carismatico e dotato di grandi doti retoriche. La radicalizzazione imposta alla campagna elettorale per le europee sulla questione di Gaza e le posizioni nette e combattive assunte in molte occasioni, hanno consentito alla France Insoumise di consolidare il proprio consenso in molte periferie cittadine, tra i giovani e gli originari delle recenti immigrazione, soprattutto musulmani.
Questi elementi di radicalità si sono accompagnati a polemiche eccessivamente aspre nei confronti delle altre forze di sinistra (il segretario del PCF paragonato a Doriot che passò dal comunismo al collaborazionismo coi nazisti, per fare un esempio) e una contraddizione di fondo non risolta nella struttura della France Insoumise. In questa formazione, nella quale il ruolo di Melenchon resta dominante, convivono la tesi del partito “gassoso”, privo delle tradizionali strutture di partecipazione e di condivisione delle decisioni presenti nei partiti tradizionali, insieme ad un crescente richiamo alla disciplina rivolto agli eletti che costituiscono la vera ossatura formale di LFI. Lo si è visto con la decisione di escludere dalla rielezione alcuni esponenti critici e ampiamente conosciuti della France Insoumise dalla candidatura per l’Assemblea nazionale.
Una scelta che ha sollevato molte polemiche, soprattutto perché la decisione non riguardava una lista di partito bensì una coalizione unitaria nella quale si cercava di far confluire tutta la sinistra. Gli esclusi si sono ugualmente candidati contro un esponente ufficiale della France Insoumise. Di loro solo Raquel Garrido è stata battuta dal candidato patrocinato da Melenchon.
Il leader di LFI si trova ad essere contemporaneamente un punto di forza in un settore ben definito dell’elettorato di sinistra ma ad essere visto come eccessivamente ingombrante da tutti gli altri. E’ stato oggetto di polemiche violente quanto strumentali, ad esempio su un presunto ed inesistente antisemitismo, ma resta il fatto che la sua strategia finora si è dimostrata valida per consolidare LFI come partito influente della sinistra, molto meno come capacità di diventare leader dell’intera sinistra e di portarla fuori dalla trincea delle periferie urbane.
La gran parte dei grandi media hanno operato per normalizzare il Rassemblent National e contemporaneamente per “diabolizzare” Melenchon, ottenendo qualche successo grazie anche ad atteggiamenti e scelte discutibili dello stesso leader di France Insoumise.
Il PCF di Roussel ha provato a delineare un progetto politico orientato soprattutto a recuperare un rapporto con quei ceti popolari che negli ultimi decenni si sono rivolti all’estrema destra, con una forte sottolineatura del rapporto con il lavoro salariato, sia in termini di programma che di candidature. Il risultato ottenuto alle europee, di poco sopra al 2%, così come la sconfitta del segretario nazionale, Fabien Roussel, nella sua circoscrizione della Regione Nord che eleggeva un comunista dal 1962, sembra indicare che questa strategia non ha ottenuto finora i risultati sperati. Per il partito sarà importante riuscire ad ottenere abbastanza seggi da mantenere il gruppo parlamentare, sempre in bilico nelle ultime scadenze elettorali.
Infine l’altra componente è quella ecologista che è riuscita, per poco, a restare rappresentata al parlamento europeo. Nelle ultime settimane è stata apprezzata, anche al di fuori del suo partito, la leader Marine Tondelier che è maturata politicamente in un comune da tempo conquistato dal Rassemblement National. Ha potuto verificare l’aggressività e l’implicita violenza con cui l’estrema destra gestisce le istituzioni e, anche per questo, ha avuto parole durissime per quei macroniani che hanno preso posizioni ambigue sulla questione del “fronte repubblicano”. Ma anche per gli ecologisti francesi, che non hanno ancora del tutto seguito quella svolta a destra nella quali si sono incamminati i Verdi tedeschi, resta aperto il problema di come collegare questione ambientale e questione sociale. Per tacere delle posizioni oltranziste assunte dai Verdi europei sul tema della guerra.
Il voto di domenica prossima ci dirà se l’estrema destra riuscirà a conquistare il potere governativo in Francia con tutte le conseguenze che questo evento potrà avere anche a livello europeo. L’altro scenario è che questo non avvenga e si apra così una situazione comunque complicata che porrà le forze di sinistra di fronte a scelte non facili. In ogni caso si può solo auspicare che il Nuovo Fronte Popolare riesca ad ottenere questo obbiettivo ed esca con la maggior forza possibile dal voto del 7 luglio.
Franco Ferrari