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La protesta non si arresta. Il respiro è quel dettaglio che ci rende uguali

di Tommaso
Chiti

Lo scorso fine settimana un altro fenomeno ha attraverso larga parte degli stati europei ed occidentali, più dell’epidemia da Covid19, ovvero le manifestazioni di indignazione per l’omicidio di George Floyd ed in generale di contrasto agli abusi di potere della polizia.

La vicenda del quarantaseienne afroamericano, morto soffocato a Minneapolis il 25 maggio, durante un arresto, in cui uno dei quattro agenti poi arrestati lo ha strangolato premendogli il ginocchio sul collo per 8 minuti e 46 secondi, ha ormai fatto il giro del mondo, scatenando proteste contro la repressione e le discriminazioni.

Il pretesto per l’intervento ed il fermo di Floyd ha dell’incredibile: utilizzo di valuta contraffatta, ovvero venti dollari probabilmente non autentici secondo i dipendenti del discount, che hanno così chiamato il 911.

La reazione tanto violenta degli agenti è indubbiamente riconducibile a quel clima di intolleranza e di discriminazione, che attraversa larga parte dei comandi di polizia non solo negli Stati Uniti e che porta ad un accanimento di tipo razzista nei confronti di sospetti di origine straniera, o appartenenti a minoranze.

L’uso spropositato della violenza della polizia negli USA è un fatto tristemente ricorrente nel paese di “Bowling a Colombine” e delle armi automatiche reperibili nei supermercati. Questo aspetto, legato alla diffusione di armi fra la popolazione civile è senz’altro un fattore scatenante ed un utile pretesto a mascherare spesso accanimenti e ritorsioni.

Un simile retaggio appartiene del resto anche ad altri paesi occidentali, tanto che in Gran Bretagna, Francia, Italia, ma anche in Israele si sono susseguite manifestazioni di solidarietà ed antirazzismo, che hanno evidenziato i diversi rimandi di questa vicenda ai rispettivi contesti nazionali.

A Bristol ad esempio il movimento locale di #BlackLivesMatter durante la manifestazione di sabato scorso ha abbattuto la statua del mercante seicentesco di schiavi africani, Edward Colston della Royal African Company, gettandola nel fiume.

Le controversie del passato coloniale riaffiorano anche in chiave tutta attuale, rispetto ad esempio ai tentativi di annessione israeliana della Cisgiordania. Perciò, domenica in piazza Rabin a Tel Aviv, oltre una trentina di sigle della sinistra anti-governativa e della minoranza araba sono scese in piazza per affermare che “Palestinian lives matter!”, denunciando gli abusi su Floyd, ma anche sul trentenne autistico palestinese, Iyad Hallaq, ucciso senza motivo dieci giorni fa da un poliziotto israeliano.

A Parigi, dove sono note le violenze dei reparti antisommossa durante le manifestazioni dei Gilets Jaunes; e dove la diffidenza reciproca esaspera interventi delle autorità in contesti marginali come nelle banlieues, si parla molto di implicazioni razziste nelle azioni di certi reparti di polizia e di istituzione di nuovi organismi disciplinari.

In questo senso, l’Italia è il fanalino di coda di tutta Europa, con la totale assenza di numeri di matricola identificativi degli agenti, il corporativismo asfittico delle caserme, una troppo recente e tenue legge sul reato di tortura e l’arretratezza sulle dotazioni di monitoraggio degli atteggiamenti deviati. I casi più noti, in analogia con quello di George Floyd sono gli omicidi di Roberto Magherini, morto a Firenze per soffocamento, i casi di Stefano Cucchi, Aldovrandi, Uva, tutti deceduti in circostanze controverse, con l’eccezione della verità emersa da poco sul pestaggio di Cucchi da parte dei carabinieri che lo avevano in consegna; e con l’unica certezza di esser morti però sotto la custodia delle autorità statali.
A Roma, Firenze ed in molte altre città fra sabato e domenica centinaia di manifestanti, pur seguendo le prescrizioni anti-contagio, si sono radunati ed inginocchiati per commemorare l’assassinio di Floyd, denunciando altrettanti episodi. Nel Belpaese tuttavia rispetto ad altri contesti, questi rimangono spesso vicende a sé stanti che, almeno finora, non solo hanno raramente perseguito le responsabilità delle cosiddette “mele marce” degli apparati, ma non hanno neppure innovato il sistema di controllo e polizia. Sul piano politico poi rispetto a paesi anglofoni o francofoni, fortemente implicati nel retaggio colonialista, le discriminazioni assumono meno i tratti di ritorsioni contro intere minoranze, come invece si connotano le azioni violente di gruppi neofascisti ai danni di migranti, rom, sinti ed asiatici; e l’indignazione civile verso questi crimini non assume così i tratti di coscienza collettiva o addirittura di classe.

Eppure qui come negli USA di Trump e negli altri stati che rivendicano il ruolo di “esportare la democrazia” con campagne internazionali; dalla repressione militare delle manifestazioni del G8 di Genova nel 2001, gli apparati dello stato hanno riproposto atteggiamenti di ritorsione contro la loro stessa popolazione, simili a quelli delle dittature fasciste, oltre ad istituzionalizzare la discriminazione, con leggi che tendono a criminalizzare le persone prive di documenti e non per eventuali reati commessi, come per la promulgazione dei cosiddetti “decreti Salvini”.

Le mobilitazioni mondiali, che hanno riguardato anche il Brasile e l’Australia, rimettendo al centro della discussione l’emarginazione di popolazioni indigene o aborigene, hanno senz’altro rappresentato la saldatura fra istanze antirazziste sulla discriminazione e quelle dei movimenti antifascisti, contro la repressione da parte del potere statale.

Non è un caso perciò che in una fase di crescenti disuguaglianze, acuite dalla pandemia che colpisce le classi più povere delle società – come appunto gli afroamericani statunitensi o gli indigeni in Amazzonia – , che queste rivendicazioni abbiano riguardato aspetti legati anche alla giustizia sociale e all’equità, focalizzandosi sulle condizioni socio-economiche, alla base della tendenza ad un maggior livello di criminalità in certi contesti.

Così, mentre l’ex-Presidente Obama ha esortato le giovani generazioni a “non accettare ciò che era considerato normale fin’ora”, il paradosso è che la ‘fase 2’ delle misure anti-contagio da Covid19 e di ritorno alla normalità negli Usa coincida con la morte per soffocamento, provocata non dal virus, ma dall’abuso di un agente di polizia.

A due settimane dall’omicidio la protesta non si arresta e, anzi, coinvolge ed interroga sempre di più la comunità globale, probabilmente perché, come ha scritto in una sua canzone Paolo Benvegnù, “il respiro è quel dettaglio che ci rende uguali”.

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