editoriali

La posta in gioco della guerra in Ucraina

di Franco
Ferrari

Il primo anniversario dell’inizio della guerra in Ucraina ha portato i vari soggetti in campo a riformulare e a rimotivare la rispettiva visione del conflitto. Della guerra al momento non si vede la fine. E i discorsi che si sono sentiti in questi giorni riaffermano con molto vigore che nessuno verrà sconfitto. Quindi, per ora, si possono prevedere due prospettive possibili: una guerra di lunga durata o un’escalation dagli esiti non prevedibili. L’alternativa sperata ovviamente è, invece, la vittoria e anche in tempi brevi. Ora l’interrogativo è: che cosa intendono per vittoria i partecipanti al conflitto?

La “vittoria” per Putin

Non è ancora del tutto chiaro, almeno a me, quali fossero gli obbiettivi del Presidente russo nel momento in cui ha preso la decisione di iniziare l’invasione dell’Ucraina. Non credo ai sogni imperiali che gli sono stati attribuiti e nemmeno penso che volesse occupare permanentemente l’Ucraina per portarla sotto il proprio controllo. Non aveva la forza militare e, dietro alla forza militare, il supporto economico e tecnologico per farlo.

Poteva pensare, più ragionevolmente che, con l’avvicinamento delle colonne militari a Kiev e le progressioni nell’area del Donbass per allargare la zona già di fatto controllata dai russi, ci fosse un ribaltone interno e il ritorno di un governo più sensibile alle esigenze di Mosca.

In questo caso la Russia avrebbe ottenuto il ritorno dell’Ucraina alla situazione pre-Maidan 2014, il consolidamento di un’area di influenza tra i paesi confinanti e la riaffermazione del diritto di essere considerata quanto meno una media potenza mondiale, con diritto di parola in situazione dove ha propri interessi strategici.

Obbiettivi che non ha ottenuto. Ora per la Russia la “vittoria” diventa soprattutto un problema di resistenza. All’interno deve mantenere o addirittura consolidare il regime identificando le opposizioni filo-occidentali come agenti del nemico esterno, sulla scena mondiale deve dimostrare che uno Stato può reggere sul piano economico all’esclusione quasi totale dal mercato capitalistico (economico, tecnologico, finanziario) più direttamente controllato dagli Stati Uniti. Putin si può presentare ai suoi concittadini come difensore dell’integrità e del ruolo della Russia sulla scena mondiale di fronte al più potente schieramento politico-militare che possa scendere in campo contro un singolo Paese.

Il fatto che questa posizione si accompagni ad una visione reazionaria sui temi attinenti i diritti civili, non impedisce che possa trovare consensi all’interno del Paese e anche in molte aree del mondo che non sono inserite nell’area ricca del blocco occidentale. Quando Putin ricorda, sulla base di dati forniti da un’Università degli Stati Uniti che mi pare nessun fact-checking abbia contestato, che le guerre avviate dagli Usa nel “terzo mondo” in nome della guerra al terrorismo hanno procurato 900.000 morti dei quali circa la metà civili, è evidente che trova ascolto consenziente. E le opinioni pubbliche di questi Paesi si rendono bene conto che gli interventi militari degli Stati Uniti, ben lungi dal produrre democrazia, libertà e prosperità hanno lasciato dietro di sé situazioni talmente disastrose da richiedere, ben che vada, decenni per ritrovare un minimo di normalità.

Quindi a questo punto, per la Russia, la vittoria potrebbe essere la “non sconfitta”. Per questo è anche necessario ristrutturare il proprio blocco dominante. I vecchi oligarchi, che estraevano ricchezza dal Paese in cambio di nulla e in più la trasferivano all’estero. ora sono invitati a darsi da fare e ad investire sulla crescita industriale e tecnologica della Russia. Putin li ha invitati, senza ovviamente utilizzare questa terminologia, a trasformarsi da “borghesia compradora” a vera borghesia industriale.

Naturalmente le incognite per la Russia sono molte, a partire dalla tenuta del fronte interno. Al momento non sembra ci possano essere le condizioni per una “Maidan” moscovita, se non altro perché i russi hanno ancora presente l’esperienza passata con Eltsin quando, in nome della democrazia e del libero mercato e della piena subalternità al blocco occidentale, hanno avuto poca democrazia, niente libero mercato e abbondante miseria.

Sul piano militare, data la sproporzione di mezzi che può mettere in campo (probabilmente anche per la scarsa convinzione delle truppe che davvero questa guerra fosse necessaria) Putin non può fare a meno di far tintinnare il rumore sinistro delle armi nucleari senza avere l’intenzione, almeno si spera, di utilizzarle realmente.

La “vittoria” di Zelenski

Nel caso di Zelenski l’obbiettivo della vittoria, così come viene proclamato, risulta abbastanza chiaro e prevede il ritorno dell’esercito di Kiev nei territori che aveva già perso prima della guerra attuale. Oltre questo a Kiev si spera nella futura gratitudine dell’Occidente e che, una volta finita la guerra con successo, continuino a piovere miliardi per la “ricostruzione”.

Riportare l’esercito ucraino in Crimea e nel Donbass, zone abitate da russi, una parte significativa dei quali preferisce far parte della Russia piuttosto che tornare ad essere cittadino di serie B in Ucraina, ammesso che sia possibile militarmente, solleverebbe il tema del destino di queste popolazioni. Mi pare che nessuno abbia chiesto informazioni a Zelenski di questo dettaglio non da poco. La guerra ha amplificato un processo che era già in corso, il predominio delle correnti ultranazionaliste e russofobe, che per molti anni erano rimaste minoritarie in Ucraina. Le stesse minoranze dell’ovest, ungheresi e romene, cominciano ad avere qualche problema di convivenza con un regime via via più intollerante.

La possibilità di una guerra lunga ha per l’Ucraina un’altra implicazione, oggi non difficilmente valutabile. Quale sarà l’impatto degli 8 milioni di rifugiati (prevalentemente donne e minori) in un paese che aveva già subìto il più forte tracollo demografico nei trent’anni succeduti al crollo del blocco socialista. “Le Monde”, che ha dedicato nei giorni scorsi un ampio resoconto al tema, segnala come molti di questi profughi attestino già una scarsa propensione al ritorno nel Paese d’origine. Tanto più che, a differenza di quanto avviene per profughi meno “bianchi”, il loro insediamento ha avuto ampie facilitazioni. Più la guerra sarà lunga e meno profughi torneranno.

Nel caso di Zelenski l’oggetto della vittoria risulta chiaro: ripristinare il controllo dell’esercito e del governo di Kiev sui confini di quella che era l’Ucraina sovietica. La praticabilità di tale obbiettivo sul piano militare è quantomeno incerta. Il raggiungimento di un tale obbiettivo al prezzo di una guerra lunga può determinare alla fine un tracollo demografico del Paese. La rioccupazione delle zone a predominanza russa potrebbe determinare una nuova pulizia etnica. La presenza di un potenziale vicino permanentemente ostile come la Russia, potrebbe richiedere un alto tasso di militarizzazione permanente.

La “vittoria” della von der Leyen

Anche le retorica dei governi europei e quella della Commissione si è accodata al tema della “vittoria”. Che cosa possa vincere la UE è meno chiaro. L’impatto economico, soprattutto in Germania (si sono calcolati 100 miliardi di PIL potenziale persi) è stato significativo. L’Unione Europea si è rimilitarizzata integrandosi sempre più con la Nato. Ha accantonato ogni velleità di autonomia strategica dagli Stati Uniti.

La presenza di un nemico alle porte, ostile e minaccioso o considerato tale, può essere utile a consolidare i legami interni. Un’idea nata come risposta alla guerra si rafforzerebbe grazie al fatto di diventare protagonista di una guerra.

Una parte importante delle classi dominanti ritiene che in un contesto mondiale considerato più minaccioso (e qualsiasi contesto nel quale emergano altre potenze economiche lo diventa per chi ha affermato nei secoli la propria supremazia e ne ha goduto i vantaggi), non ci possa essere soluzione se non un allineamento dietro gli Stati Uniti.

Biden, nel suo discorso di Varsavia, ha potuto citare l’Europa dicendo “noi”. In questo modo riaffermandosi, non come presidente di uno Stato, ma come guida suprema di un blocco. Contemporaneamente l’Europa subisce gli sgambetti economici e tecnologici della potenza americana ma, hanno spiegato i rappresentanti di Washington agli europei, il predominio statunitense nel mondo è anche nell’interesse di questa parte dell’Atlantico. Una grande potenza militare e finanziaria quale solo gli Stati Uniti possono essere è una condizione essenziale per poter fronteggiare i pericoli che vengono da fuori. Dalla “giungla” che ci sta intorno, come l’ha definita Borrell.

Per ora l’Unione Europea sta vedendo diminuire il suo peso economico globale, così come avviene per gli Stati Uniti, ma a differenza di questi, non ha gli strumenti imperiali che mantenere il proprio predominio. Della guerra si vedono i costi, più difficile scorgere i benefici.

Tanto più che le posizioni che emergono dai paesi dell’Europa centro-orientale ma anche dalla stessa Commissione e dal Parlamento europeo diventano sempre più oltranziste. Forse anche per reagire gridando più forte al mancato successo delle sanzioni.

Quali sono gli obbiettivi della guerra e quindi quando si potrà dichiarare la “vittoria”? Il ritorno alla situazione precedente all’invasione russa risulta del tutto insufficiente. Quindi si è posto ormai l’obbiettivo della riconquista dell’intero Donbass e della Crimea. A cui si dovrebbe aggiungere l’obbligo alla Russia di pagare le riparazioni di guerra (come fu per la Germania a Versailles) e possibilmente un processo alla leadership politica e militare russa, attraverso un tribunale ad hoc istituito dai vincitori. Ora però anche questo non risulta più sufficiente. Il partito al governo in Polonia, insieme ad altri settori dell’ultranazionalismo baltico, ucraino e di altri paesi, ritiene che la Russia sia un pericolo per il fatto stesso di esistere. E quindi occorre favorirne la disgregazione in decine di staterelli, i quali, come sempre avviene in questi casi, tenderanno a farsi la guerra tra loro. Insomma uno scenario libico ma con qualche migliaio di bombe nucleari nelle mani di una qualsiasi di queste nascenti repubbliche.

La “vittoria” di Biden

L’interesse degli Stati Uniti nella guerra è piuttosto trasparente e chiaramente affermato nelle elaborazioni degli esperti, più sinceri della propaganda rivolta all’opinione pubblica. Si tratta di confermare il proprio predominio globale per garantire un mondo nel quale gli Stati Uniti possano mantenere i propri livelli di ricchezza, in misura significativa garantita da un enorme debito pubblico, e il peso delle proprie imprese (industriali, digitali, finanziarie, ecc.).

Per alcuni decenni, il predominio Usa si era tradotto nell’impegno militare in Stati marginali del sistema globale (Afghanistan, Irak, Libia, ecc.). La svolta di Biden è stata di mettere, per ora, fine alle guerre periferiche con il ritiro dall’Afghanistan per concentrarsi sui conflitti esistenziali. La Cina in primo luogo e la Russia subito dopo, soprattutto per poter isolare la prima.

L’intervento di alcuni specialisti della Rand corporation ha espresso perplessità all’idea che gli Stati Uniti si impegnino in una guerra lunga. Le preoccupazioni per un eccessivo protrarsi del conflitto derivano dai rischi connessi ad un’escalation di tipo nucleare o ad una guerra più vasta che impegni direttamente la NATO ad intervenire non più solo per interposti militari ucraini.

Questo timore si rafforza se la situazione sul campo non può finire con una vittoria netta di una delle parti. Ma dal lato degli obbiettivi ciò che si voleva (indebolire la Russia, riallineare e riarmare gli europei) è già stato raggiunto. Continuare la guerra non può dare più benefici agli Stati Uniti di quanti già ne abbiano già avuti.

Dal campo militare sono emerse voci che ritengono che nessuno possa vincere la guerra sul terreno. Ma finora la leadership politica USA, all’interno della quale è radicata una corrente ossessionata dal “pericolo russo” anche prima che nascesse l’Unione Sovietica, non sembra aver elaborato un’ipotesi alternativa a quella della continuazione del conflitto. Anche se, contemporaneamente, sembra più vaga nel definire il contenuto della “vittoria”.

Bush, con grande fragore mediatico, dichiarò, stando su una portaerei, a proposito dell’Iraq: “missione compiuta”. Poi gli Stati Uniti se ne andarono silenziosamente dal paese che avevano distrutto per dedicarsi a nuovi scenari. Inoltre per gli Stati Uniti contano i tempi della politica interna. Non tutti i repubblicani ritengono così cruciale la guerra in Ucraina e almeno una parte non è insensibile alla retorica “anti-gender” putiniana.

Con l’avvicinarsi delle prossime elezioni presidenziali Biden, che punta a ricandidarsi e a guidare gli Stati Uniti per un altro quadriennio, potrebbe aver bisogno di dare qualche segnale di vittoria. Anche se la tolleranza dell’elettorato statunitense per le guerre, quando non vi sono loro militari impegnati sul terreno, è sempre piuttosto elevata. L’asticella della vittoria potrà salire o scendere a seconda delle convenienze.

Conclusioni

Naturalmente, in questa situazione di incertezza e legittima preoccupazione per l’esito del conflitto, non possiamo dimenticare che qualcuno sta già vincendo e sono, classicamente, i produttori di armi. Per i quali non si pone tanto il problema di chi vince la guerra, perché la guerra è già la vittoria.

Franco Ferrari

 

 

 

 

 

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