È tardo pomeriggio di giovedì 2 novembre quando la tempesta Ciaran, allertata con livello arancione dal sistema meteo regionale, si abbatte sulla Piana toscana, colpendo in particolare le aree di Prato, Carmignano e Campi Bisenzio.
In poche ore nuvole cupe inghiottono il Montalbano a sud, il Monte Javello, la Calvana e il Monte Morello a nord, con una pioggia scrosciante, come se ne registrano sempre di più per effetto del riscaldamento globale in questa crisi climatica, di quelle monsoniche con lampi che fanno giorno e la battitura dell’acqua fragorosa come quella dei telai tessili.
Nel disagio quotidiano del rientro domestico girano anche i primi messaggi di strade impraticabili, di sottopassi allagati ed un traffico sempre più intenso, mentre si invita a non spostarsi dalle abitazioni per motivi di sicurezza.
Peccato che poche ore dopo, con l’esondazione del torrente Furba a Seano, seguita dalla piena del fiume Bisenzio sopra i livelli di guardia, neppure le abitazioni saranno un posto sicuro. Così girano i primi video di auto bloccate dall’acqua, fino alla rottura dei torrenti Bardena e Vella a nord di Prato e un’onda di acqua, fango e detriti che travolge le auto e le trascina giù per strade diventate torrenti.
Poco dopo esonda anche lo stesso Bisenzio, nei pressi del centro del Comune di Campi, prima di rompere anche nella zona settentrionale di Santa Lucia a Prato.
Fra i messaggi che si susseguono sui social, di spostarsi ai piani alti ed imbottire porte e finestre con stracci; mancano quelli della protezione civile, che non emana note ufficiali di raccomandazioni, mentre i numeri d’emergenza sono subissati di chiamate per black-out, incidenti, frane, a molti dei quali non viene neppure data risposta; fino ai video pubblicati dal Presidente della Regione Giani e da alcuni sindaci, visibilmente in apprensione per la situazione e pronti a dichiarare lo stato di calamità naturale.
Che di naturale ha solo una parte, probabilmente quella conclusiva, che si riprende il terreno mangiato dalla speculazione edilizia e dalla cementificazione.
Di lì a breve poi arrivano anche le immagini dell’allagamento dei sotterranei del nuovo ospedale di Prato, il Santo Stefano, costruito appena dieci anni fa in una zona alluvionale dalla Regione con finanza di progetto e quindi in concessione a privati, al pari di quelli di Pistoia, Massa e Lucca. Un progetto quello della privatizzazione della sanità, che fa letteralmente acqua da tutte le parti: dagli spogliatoi, come dai solai, passando per gli infissi, fino a costringere all’evacuazione dell’intero pronto soccorso, l’unico della terza città più popolosa del centro Italia, tanto inadeguato quanto inagibile, addirittura fino al completo ripristino quasi tre giorni dopo il temporale, con ambulanze dirottate nel frattempo su Firenze e Pistoia.
Dopo gli ultimi contatti con familiari ed amici, chi può cerca di dormire, con un orecchio sempre vigile all’intensità della pioggia, che verso mezzanotte sembra attenuarsi.
Se non fosse stato per la breve durata tempesta tropicale con piogge superiori ai 190mm, come se ne registrano sempre più: dalla Lunigiana, alla Liguria, passando per l’Emilia-Romagna fino alle Marche; in un orario serale che ha trovato ancora molte persone sveglie, il bilancio delle otto vittime rinvenute sarebbe stato ancor più tragico, mentre la conta dei danni sembra aggirarsi sul mezzo miliardo di euro, secondo il presidente Giani.
Non solo le auto e gli arredi urbani, anche molte abitazioni, così come altrettante aziende a ridosso dei corsi d’acqua o in zone collinari sono state duramente colpite dall’alluvione, fino ad essere travolte da slavine di detriti e terreno.
La piana è piena del cemento, che soffoca affluenti e terreni e che precede il fango e detriti delle esondazioni.
E sulla superficie torbida della melma, dall’altro lato di questa speculazione predatoria di suolo e della cattiva manutenzione del reticolo idraulico superficiale, si riflette la solidarietà giovane e sorridente di una popolazione, ostinata ad organizzarla come congenita forma di sopravvivenza collettiva.
Nella corsa contro il tempo, in vista di una nuova perturbazione, prevista per il sabato successivo, grazie anche al mutualismo spontaneo – ed in alcuni casi politicamente strumentalizzato da chi cerca di lavarsi la coscienza delle responsabilità amministrative, mobilitando iscritti e volontari -; ai bordi delle strade si accatastano storie, fuoriuscite da cantine o ripostigli, memorie colate via con l’alluvione del Bisenzio, che diventano montagne di rifiuti da smaltire.
L’alluvione che ha squassato case e cose, sfollando e uccidendo persone dimostra quanto questa speculazione edilizia e di finanza di progetto erode beni comuni e servizi essenziali, al pari del terreno sottratto al drenaggio delle acque, con amministrazioni democratiche compiacenti ad interessi speculativi, tanto da ipotecare il territorio, cementificandolo per campare di rendita immobiliare.
Il rapporto sulla capacità di assorbimento idrico fra un terreno vergine ed uno cementificato infatti supera di 1 a 6 la propensione alla penetrazione. E l’intombamento di ampie porzioni di torrenti – come nello specifico il Furba, la Bardena e la Vella – non fa altro che aggiungere pressione ad una piena da nubifragio, fra i fenomeni più frequenti in un contesto di riscaldamento globale.
Appena pochi giorni prima dell’alluvione infatti il Social Forum di Prato aveva rilanciato la denuncia di eccessiva cementificazione del suolo con i dati allarmanti del rapporto “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”, prodotto dal Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA).
Sul 20% del territorio toscano si sono concentrate indicativamente il 40% delle alterazioni degli ultimi 5 anni, in particolare proprio l’ambito geografico di Firenze-Prato-Pistoia è stato interessato da 214 ettari di aree in trasformazione.
In questo panorama critico Prato registra un record negativo, scalando la classifica delle città più cementificate in Italia con 110 ettari di terreno consumati negli ultimi quindici anni di governo del partito trasversale degli affari e +14% di suolo cementificato, alla faccia delle promesse elettorali di “consumo di suolo 0”, decantate anche dall’attuale Giunta Biffoni.
Solo nel 2022 è stato stimato infatti che la superficie impermeabilizzata è pari a 4,99 ettari. Intanto a Prato fioriscono palazzi nuovi nei campi incolti, mentre sempre più stabilimenti versano in stato di abbandono e aumentano le persone sotto sfratto in emergenza abitativa, in un paradosso tutto capitalista di sfruttamento iniquo di territorio e persone.
In generale, “non solo cambiamenti climatici: a rendere il suolo cittadino ancora più caldo, contribuisce proprio il suo consumo che, nel 2022 in Italia accelera arrivando alla velocità di 2,4 metri quadrati al secondo, 90 campi da calcio al giorno e avanzando, in soli dodici mesi, oltre il 10% in più rispetto al 2021. I costi dei servizi ecosistemici dovuti alla perdita di suolo rilevata tra il 2006 e il 2022 ammontano a 9 miliardi di euro ogni anno”.
Inoltre, uno dei rischi derivanti dalla cementificazione è proprio l’incapacità di assorbire l’acqua: il 13% del consumo di suolo totale nazionale (circa 900 ettari) ricade nelle aree a pericolosità idraulica media, dove il 9,3% di territorio è ormai impermeabilizzato, un valore sensibilmente superiore alla media nazionale (con un aumento medio percentuale dello 0,33%). Più del 35% (oltre 2.500 ettari) poi si trova in aree a pericolosità sismica alta o molta alta. Infine, il 7,5% (quasi 530 ettari) è nelle aree a pericolosità da frana.
E nell’anno record di riscaldamento globale, certificato dal sistema Copernicus, con il mese di ottobre 2023 più caldo di sempre, con una temperatura superiore di 0,85°C rispetto alla media 1991-2020; urge rilanciare gli appelli di Legambiente ed Italia Nostra per investimenti contro il rischio idrogeologico, la manutenzione e la sistemazione razionale degli equilibri ecologico-ambientali, il risparmio, il recupero e la regimazione delle acque in un contesto di reale “consumo di suolo zero”, come scritto nelle leggi urbanistiche e nel Piano paesaggistico regionale anche in Toscana, a cui però vengono destinate sempre scarse risorse, anche nel quadro di investimenti PNRR.
Tommaso Chiti