La crisi del coronavirus ha già ucciso centinaia di miglia di persone in tutto il mondo. I politici e la società nel suo insieme si sono giustamente concentrati sulla lotta contro il virus. Tuttavia, dietro la pandemia c’è una catastrofe ambientale che sta esplodendo al rallentatore. La crisi del coronavirus è solo una piccola parte di questo puzzle.
Il Covid-19 è stato identificato per la prima volta a novembre 2019 nella città di Wuhan. È una malattia contagiosa provocata da un virus che, molto probabilmente, ha compiuto il “salto di specie” da un pipistrello a un essere umano. Benchè queste informazioni siano ampiamente note, colpisce quanto poco si dica delle implicazioni effettive. Quali sono gli effetti quando gli esseri umani possono contrarre malattie mortali dagli animali? Accade normalmente o si tratta di un evento isolato?
Putroppo, i casi di virus trasmessi da animali vertebrati agli umani non sono eccezionali. Il 60% delle malattie contagiose che gli esseri umani contraggono originano dai vertebrati. Sono conosciuti come virus “zonotici” e il loro numero aumenta ancora di più quando guardiamo alle origini delle malattie infettive emergenti: il 75% dei nuovi agenti patogeni che fanno ammalare gli esseri umani si originano nella fauna selvatica[1].
Il coronavirus e la violazione dei confini planetari
Come si verifica ìl “salto” da un animale ospite a un umano? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un passo indietro ed esaminare il rapporto tra animali e umani all’interno del più ampio quadro dell’interazione umana con il mondo naturale. È significativo che il 2019, anno dell’“evento zoonotico” in cui il coronavirus ha superato la barriera delle specie per infettare gli esseri umani, sia stato anche l’anno più caldo mai registrato a livello globale. Questo richiama immediatamente alla mente la questione dei “confini planetari”. Il concetto di questi “confini” è stato sviluppato dagli scienziati dello Stockholm Resilience Centre[2]. Al momento, il “confine” osservato più attentamente e considerato più urgente è quello del riscaldamento globale. Rimane molto poco tempo per mantenere la temperatura globale al di sotto di un massimo di 1,5 ° C rispetto ai livelli preindustriali.
Eppure questo è solo uno dei tanti limiti globali: se continueremo a violare questi limiti negli anni a venire, il prezzo sarà il nostro annientamento. Se, come esseri umani, desideriamo garantire la continuità della nostra esistenza in un ambiente sicuro, non solo dobbiamo avvicinarci all’obiettivo di 1,5 ° C, ma anche proteggere gli oceani dall’acidificazione, preservare gli strati di humus per la nostra produzione agricola, salvaguardare la biodiversità naturale e molto di più. Ma anche qui la situazione sta peggiorando drammaticamente: tre di questi undici limiti sono già stati superati.

Nota: l’area interna (verde) rappresenta lo spazio operativo sicuro con i livelli limite proposti sul suo contorno esterno. L’estensione dei cunei per ciascun limite mostra la stima della posizione corrente della variabile di controllo. I punti mostrano la traiettoria del tempo recente stimata (dal 1950 ad oggi) di ciascuna variabile di controllo. Per la perdita di biodiversità, l’attuale livello limite stimato superiore a 100 estinzioni per milione di specie-anno supera lo spazio disponibile nella figura.
L’entità dell’estinzione delle specie ha già raggiunto proporzioni catastrofiche. Pertanto, gli scienziati chiamano la nostra epoca l’età della sesta estinzione di massa.
Ma cosa ha a che fare tutto ciò con la pandemia attuale? Due dei limiti planetari sono la biodiversità e il cambiamento del sistema terrestre, vale a dire la questione della riduzione delle foreste. Questi due “limiti” da soli contribuiscono a spiegare cosa ha causato il coronavirus in primo luogo: il fatto che gli umani interferiscano troppo nel mondo naturale.
Il Capitalocene e lo sfruttamento del Sud globale
La principlae causa del coronavirus e di crisi simile è la continua incorporazione di sempre maggiori settori dell’attività economica nelle catene di approvvigionamento capitalistiche internazionali. Dobbiamo chiarire che non sono gli “umani” in sé a essere responsabili. Ecco perché è meglio parlare di Capitalocene invece che di Antropocene. Quest’ultimo termine, infatti, suggerisce che l’uomo come specie sia responsabile dell’attuale livello di distruzione ambientale. Tuttavia, non si tratta di umani di per sé ma di accumulazione capitalistica e relazioni di potere[3].
La finanziarizzazione di un’economia improntata alla concorrenza porta i Paesi del Sud del mondo a essere costretti a sfruttare le loro risorse naturali a un ritmo sempre crescente e ad espandere ulteriormente i loro terreni agricoli. Una di queste “risorse naturali” è rappresentata, naturalmente, dagli animali, un numero crescente dei quali sono tenuti in condizioni terribili e vengono allevati in maniera intensiva. Sono proprio quei vertebrati che consideriamo “nostri” (pecore, mucche e maiali) che trasportano il maggior numero di ceppi virali (30 in media), mentre gli animali selvatici generalmente ne trasportano solo uno[4].
Il Capitalocene sta assistendo alla crescente distruzione di più aree della natura che erano in gran parte intatte. Gli animali che vivono in questi habitat sono messi a dura prova, tanto che intere specie si estinguono. I singoli animali sono sottoposti a elevati livelli di stress, il che danneggia il loro sistema immunitario e quindi rende più probabile il trasporto di agenti patogeni. Questi animali hanno quindi maggiori probabilità di entrare in contatto fisico con l’uomo. L’espansione su larga scala di strade e città è responsabile, insieme all’estensione dell’agricoltura e all’estrazione di risorse, di questa situaizone, poiché porta a livelli più elevati di deforestazione e traffico, che a loro volta possono aiutare i virus a diffondersi. A livello globale, l’industria aeronautica contribuisce, ovviamente, in via diretta alla rapida diffusione dei virus.
Nuovi approcci scientifici per una comprensione olistica della “salute planetaria”
Non è un caso che gli scienziati stiano attualmente discutendo di due concetti che corrispondono ampiamente alle critiche della sinistra sulla globalizzazione neoliberista. Il primo è quello di “Un’unica salute”, che propugna la cooperazione tra medici umani e veterinari, che lavorano a fianco di antropologi ed economisti per promuovere la salute olistica. L’altro progetto si chiama “Salute planetaria” e “si concentra sui legami tra la salute umana e i sistemi politico, economico e sociale, nonché sui sistemi naturali del nostro pianeta, da cui dipende l’esistenza della civiltà umana”[5].
“Dalla salute pubblica a quella planetaria: un manifesto” propone interessanti punti di partenza per pratiche diverse e ribelli. Il manifesto discute la necessità di una nuova “filosofia di vita”, che condanna apertamente l’ordine mondiale neolibersita dominante e spiega i legami che uniscono gli esseri umani tra di loro ma anche al mondo naturale, come pre-condizione necessaria per raggiungere una “nuova comprensione del planetismo e del benessere di tutti”. Queste parole costituiscono le basi del progetto di una “buona vita per tutti”, per il quale la sinistra globale ha già da lungo tempo promosso una campagna.
Il cartesianismo occidentale si sta aprendo ad altre epistemologie
Questa nuova consapevolezza e il nuovo linguaggio che crea offrono chiari punti di connessione alle epistemologie (teorie della conoscenza) e alle prassi delle società del Sud globale. Gli esempi includono i concetti latinoamericani di sumak kawsay e buen vivir, che sono noti oggi, ma anche principi purtroppo discussi raramente in Europa, come quelli dei movimenti Sarvodaya o Gram Sabha in India, l’Ubuntu in Sud Africa o l’ujamaa di Julius Nyerere.
Negli Stati Uniti e nell’Unione Europea, l’espressione “Green New Deal” è stata ampiamente discussa, soprattutto a partire da marzo 2019. Sebbene questo progetto estremamente diversificato abbia subito una battuta d’arresto significativa con il ritiro di Bernie Sanders dalle primarie presidenziali del Partito Democratico degli Stati Uniti l’8 aprile 2020, all’interno degli ampi movimenti di sinistra del Nord globale rimane l’unica proposta capace di unificare tutti coloro che partecipano al dibattito sulla trasformazione.
Come è discusso all’interno dei circoli di sinistra negli Stati Uniti e in Europa, il Green New Deal offre molti fantastici punti di partenza, ma sfortunatamente, in entrambi i casi, i pacchetti di misure suggerite sono progettati solo per i rispettivi continenti. La sinistra su entrambe le sponde del Nord Atlantico ha molto da imparare dai progetti politici ed epistemologie sviluppati dalle società del Sud del mondo. Questo è uno dei motivi per cui quest’anno transform! europe ha lanciato una serie di webinar in collaborazione con la fondazione Rosa-Luxemburg (sedi di Bruxelles e New York e Istituto transnazionale). In queste occasioni discuteremo della forma che potrebbe assumere un “Global Green New Deal” internazionalista. Si tratta di un progetto politico in base al quale l’Europa sarebbe chiaramente “provincializzata”.
Un’Europa provincializzata come parte di un progetto radicale globale
Negli anni ‘90 si è tenuta una fantastica “iniziativa di dialogo” filosofico tra filosofi della liberazione latinoamericani e rappresentanti della teoria del discorso europeo. L’obiettivo era discutere la questione di come una filosofia transculturale potesse essere efficace dal punto di vista degli oppressi e degli esclusi. Questa discussione si è svolta sullo sfondo del rifiuto delle teorie di “realizzare la comunità di comunicazione ideale”, che è stata principalmente associata ad Habermas e Karl-Otto Apel[6]. La “rivolta” contro i rappresentanti europei della “modernità incompleta” (Habermas) è stata guidata da Enrique Dussel, il sostenitore più ampiamente riconosciuto della filosofia della liberazione. Da quando è stato vittima di un attentato dinamitardo alla sua vita nella sua terra natale in Argentina nel 1973, Dussel ha vissuto e lavorato in Messico, da dove il suo progetto di transmodernità, incentrato sugli esclusi e sugli oppressi, ha aiutato le epistemologie anti-egemoniche a guadagnare popolarità.
E ora?
È evidente che il coronavirus non è apparso dal nulla. Il virus è una crisi particolarmente terribile e manifesta che colpisce la società globale, ma non è un evento isolato. Il coronavirus è il risultato di un modo insostenibile di vivere, esacerbato dalla logica del capitale e dal consumismo che va di pari passo con esso. La ricerca di alti profitti, la guerra di classe condotta contro gli oppressi e la costante valorizzazione della natura all’interno del sistema capitalista sono le cause di questa crisi devastante. Se non creiamo una buona vita per tutti gli esseri umani e le loro comunità locali, questa crisi impallidirà rispetto a quelle che devono ancora venire.
[1] K. Jones, N. Patel, M. Levy et al. (2008), “Global trends in emerging infectious diseases”, Nature, 451, pp. 990-993.
[2] J. Rockström, W. Steffen, K. Noone et al. (2009), ‘Planetary boundaries: exploring the safe operating space for humanity”, Ecology and Society, 14 (2), http://www.ecologyandsociety.org/vol14/iss2/art32/.
[3] Su questo punto si veda anche la critica la concetto di Capitalocene di Elmar Flatschart (2017, “Anthropozän oder Kapitalozän? Der emanzipatorische Gehalt ökologischer Krisenbearbeitung zwischen Gesellschaft und Technik”, in P. Buckermann, A. Koppenburger, S. Schaupp, Simon, Kybernetik, Kapitalismus, Revolutionen. Emanzipatorische Perspektiven im technologischen Wandel, Unrast, Münster, pp. 127-161.
[4] C.K. Johnson, P.L. Hitchens, P.S. Pandit, J. Rushmore, T.S. Evans, C.C.W. Young, M.M. Doyle (2020), “Global shifts in mammalian population trends reveal key predictors of virus spillover risk”, Proc. R. Soc., B 287.
[5] O. Müller et al. (2018), “Planetary Health: Ein umfassendes Gesundheitskonzept”, Dtsch Arztebl, 115 (40): A-1751 / B-1473 / C-1459.
[6] K.-O. Apel (1992), “Die Diskursethik vor der Herausforderung der ‘Philosophie der Befreiung’. Versuch einer Antwort an Enrique Dussel”, in R. Fornet-Betancourt (ed.), Diskursethik oder Befreiungsethik?, Aachen, p. 17.