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La morte in tempo di coronavirus

di Maria
Pellegrini

di Maria Pellegrini – L’immagine shock della pandemia di Covid-19 negli Stati Uniti è quella della fossa comune, con decine di bare interrate, a New York, ad Hart Island, il camposanto utilizzato – da ormai 150 anni – per i newyorkesi senza parenti stretti o che non possono permettersi un funerale. Anche in Brasile, le fosse comuni per vittime del virus sono sempre più frequenti, come in altre parti del mondo, le immagini dall’alto sono impressionante: una distesa di bare pronte ad essere deposte nelle buche scavate.

Si è detto che il coronavirus è democratico perché ha colpito tutti gli strati della popolazione senza distinzione, cambia soltanto il numero dei contagiati e dei morti: maggiore quello degli anziani e dei vecchi, minore quello delle donne rispetto agli uomini e dei giovani e dei bambini rispetto a tutto il resto della popolazione. Nelle grandi epidemie della storia i più colpiti sono sempre stati i meno abbienti, per problemi di alimentazione, di igiene, di necessità. Oggi possono essere colpiti tutti, diverso è il modo di superare la quarantena che sicuramente è più agevole per chi è relegato in appartamenti spaziosi o in ville e villette con giardino, per chi può provvedere ai bisogni giornalieri senza la preoccupazione della propria attività chiusa per troppo tempo, e per chi, nonostante il pericolo del contagio, continua a lavorare perché è di pubblica e necessaria utilità: i commessi dei supermercati e di altri esercizi commerciali, i farmacisti, e soprattutto i medici, prime vittime, come è accaduto in altre epidemie della storia. Per tutte le morti avvenute nella solitudine della propria casa o nelle residenze degli anziani, la sorte è stata la stessa, sono stati privati dei riti funebri, del saluto di amici e parenti, di aver chiuso gli occhi soli senza il conforto di un affetto. Desolante vedere il numero di bare portate via dai camion militari e le cremazioni di massa.

Durante la secolare storia di Roma, fin dall’età più antiche, chi aveva possibilità economiche voleva lasciare un ricordo di sé deponendo la sua salma in un sepolcro, piccolo o grande secondo la carica rivestita durante la vita, la sua ricchezza o la sua modesta condizione: da un semplice sepoltura in terra, con una stele su cui è scolpita la dedica funeraria, ai grandi e monumentali edifici sepolcrali. Anche nella morte non tutti però erano uguali. I poveri e gli schiavi finivano in fosse comuni insieme a carcasse di animali, rifiuti, escrementi. A volte i malati erano lasciati morire all’aperto o, se in casa, gettati subito nelle strade, dove erano cibo per cani o uccelli.

Sull’Esquilino sul finire del secolo XIX fu scoperto un cimitero d’età repubblicana di ampia estensione, noto al tempo di Augusto con il nome di “Campus esquilinus” descritto come una zona malsana di fosse comuni, dove era possibile vedere sporgere dal terreno ossa umane. Orazio scrive in una satira: «Qui un tempo gli schiavi facevano portare in casse miserevoli i cadaveri dei compagni gettati fuori dalle loro celle anguste; qui si trovava l’ossario comune dei derelitti» (I, 8). Poi tra il 42 e il 35 a.C. il terreno fu bonificato da Mecenate che lo rese edificabile e vi costruì la sua lussuosa villa e vi realizzò i giardini che Orazio celebrò, nella satira sopra citata, con queste parole: «Ora sull’Esquilino risanato si può abitare e passeggiare al sole sui bastioni dove prima su quella terra desolata con raccapriccio si vedeva il biancheggiare d’ossa».

Chi apparteneva ai ceti dominanti, o disponeva di ingenti patrimoni, non aveva alcuna difficolta a farsi costruire, mentre erano in vita o per disposizione testamentaria, un sepolcro ampio e artisticamente apprezzabile. Trimalcione, il liberto arricchito, noto personaggio del “Satyricon” di Petronio, vissuto sotto Nerone, nel momento culminante della favolosa cena offerta agli amici, descrive il suo monumento funebre in costruzione che annuncia fastoso perché dichiara: «è proprio un’assurdità averci da vivi le case eleganti, e non curarsene proprio quando ci dobbiamo abitare più a lungo». La grandiosità dell’opera rivela la smania di assicurarsi un riconoscimento sociale, che sfocia invece nell’ammissione soddisfatta della sua ignoranza, infatti nell’epitaffio vuole che si scriva: «Pio, forte, fedele, venne su dal niente, lasciò trenta milioni di sesterzi, e non ascoltò mai i filosofi». Vuole essere sicuro che questo testo sia letto e adotta perciò un curioso stratagemma: fa porre sul suo monumento funebre un orologio «in modo che chiunque guardi l’ora debba leggere anche il nome, voglia o non voglia».

Ma la rozzezza dell’uomo si manifesta con un ultimo provvedimento preso a salvaguardia del suo monumento funebre: «Metterò un liberto a guardia fissa della mia tomba, perché sul mio sepolcro la gente non corra a cacarci sopra».

Non sappiamo come si comportassero gli uomini comuni nel momento della morte, ci sono state tramandate da alcuni scrittori le morti di alcuni importanti personaggi della storia e le loro ultime parole, ma delle classi subalterne non si sa molto, e raramente si è scritto sugli ultimi momenti di una donna, fosse pure di famiglia aristocratica. Memorabile è stata la morte di Seneca e le sue ultime parole, riportate da Tacito:

«Dopo aver rivolto l’ultimo saluto agli amici, abbracciò la moglie commosso dinnanzi alla sorte che in quel momento si compiva. La pregò e la scongiurò di placare il suo dolore e di non lasciarsi per l’avvenire abbattere da esso, ma di trovare nel ricordo della sua vita virtuosa dignitoso aiuto a sopportare l’accorato rimpianto del marito perduto. La moglie dichiarò, invece, che anche lei voleva morire e chiese l’aiuto di un carnefice. Allora Seneca, sia che non volesse opporsi alla gloria della moglie, sia che fosse mosso dal timore di lasciare esposta alle offese di Nerone colei che era unicamente cara al suo cuore: “Io ti avevo mostrato” disse “come alleviare il dolore della tua vita, tu, invece, hai preferito l’onore della morte: non sarò io a distoglierti dall’offrire un tale esempio luminoso”. Dette queste parole, a entrambi furono tagliate le vene del braccio». (Annali, XV, 63)

Sempre da fonti letterarie sappiamo del terrore degli uomini di morire rimanendo insepolti, finiti nei gorghi del mare o uccisi in battaglie e arsi tra mucchi di cadaveri o gettati in fosse comuni. Questa paura è testimoniata da Virgilio nel VI libro dell’Eneide. Quando Enea, sceso nell’Ade accompagnato dalla Sibilla, vede una grande folla sulla riva dell’infernale fiume Acheronte, tutti a mani tese chiedono di essere i primi a salire sulla barca, ma l’iroso nocchiero Caronte traghetta soltanto i morti che sono stati sepolti, gli altri devono errare per cento anni aggirandosi sulle rive per essere infine ammessi ad attraversare il fiume e raggiungere la sede loro assegnata e scontare la propria pena o ricevere il premio dei loro meriti. Virgilio tra le anime degli insepolti incontra il nocchiero Palinuro che, caduto in mare e rimasto perciò insepolto, supplica il suo condottiero di dargli sepoltura, esortandolo a cercare il suo corpo disperso tra i flutti. La sepoltura è dunque una condizione necessaria che permette al defunto di sentirsi in pace.

Anche la morte in terre lontane senza il conforto di una persona cara è stato espresso in molte epigrafi e nel canto dei poeti. Catullo dopo aver visitato la tomba del fratello morto nella lontana Bitinia, nella Troade, scrive versi, ultimo triste saluto rivolto al defunto in un sommesso colloquio con lui esprimendo l’idea della lontananza fra la terra dove è nato e quella dove è avvenuta la morte:

«Venuto fra tante distese di genti e di acque, / giungo, o fratello, alle tue spoglie sventurate / per rendere l’omaggio supremo dovuto alla tua morte / e dire vane parole al tuo cenere muto» (Carmi, C1).

Ovidio relegato per ordine dell’imperatore Augusto nella lontana e inospitale Tomi (oggi Costanza, sulla riva occidentale del Mar Nero, presso la foce del Danubio), non vuole morire solo ed abbandonato da tutti, perché proprio questa è la sorte più infelice che può attendere un uomo. Scrive alla moglie: «Tanto lontano dunque morirò, in contrade sconosciute, / né il mio corpo languirà nel consueto letto / né ci sarà qualcuno che mi pianga cadavere/ né una mano amica chiuderà gli occhi che si spengono/ ma senza cerimonie funebre, senza l’onore del sepolcro, / una barbara terra coprirà il capo illacrimato».

È molto preoccupato e vorrebbe ottenere, almeno da morto, il ritorno a Roma: «La mia ombra di romano vagherà tra quelle sarmatiche / e sarà sempre straniera tra anime selvagge. / Fa’ in modo che le mie ossa siano riportate in una piccola / urna: così non sarò esule anche da morto». (Tristia, III, 3)

Il terrore della morte e il dolore di lasciare le gioie dell’esistenza sono stati motivo di ispirazione nei poeti latini, anche se la fine della vita è considerata una dolorosa necessità. Scrive Lucrezio, poeta d’età di Cesare:

«Eppure v’è una fine certa dell’esistenza che attende i mortali, /né possiamo evitare la morte, sfuggire al suo agguato. […] Ti è lecito dunque seppellire vivendo quante generazioni vuoi, / tuttavia ti aspetterà non meno quell’eterna morte» (De rerum natura III, 1078sgg.).

In Orazio, poeta d’età augustea, unico conforto al sopraggiungere della morte è il pensiero che essa giunge inesorabile per tutti:

«La pallida morte batte con piede uguale le povere capanne / e le torri dei re. O mio felice Sestio, / il breve corso della vita vieta lunghe speranze». (Odi, I, 4)

«Tutti siamo sospinti a un medesimo luogo, /nell’urna si volge la sorte di ognuno: prima o poi / essa uscirà, deponendoci sulla navicella /per l’eterno esilio». (Odi, II, 3)

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