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La montagna sola

Pubblichiamo la prefazione al libro di Rojbîn Berîtan e Chiara Cruciati (edizioni Alegre) intitolato Gli ezidi e l’autonomia democratica di Șengal.- 

Il 3 agosto 2014 l’Isis ha attaccato Șengal, la regione vicino alla città di Mosul dove vivono gli ezidi della montagna. Quella mattina i figli del fuoco e del sole non videro l’alba. Quel giorno non recitarono la preghiera del mattino: “Oh mio potente dio, proteggi i popoli di tutto il mondo dal male e dalle disgrazie e non dimenticarti di noi”.

Per non cadere nelle mani dell’Isis decine di migliaia di ezidi che vivevano nella città di Șengal e nei villaggi circostanti si riversarono nel deserto sulla strada verso la montagna. Decine di bambini, anziani e malati rifugiatisi sul Monte Șengal morirono per la sete e per il caldo.

L’Isis ha ucciso cinquemila ezidi e fatto prigioniere migliaia di donne e bambini. Rapite e usate come schiave del sesso e come soldati, ancora oggi non si sa dove siano. Le famiglie ezide in lutto, che cercano i loro figli dispersi per tutto il mondo, tentano con scarsi mezzi di curare le ferite sanguinanti del genocidio.

Sono stata una delle giornaliste che ha assistito a quello che è successo in quell’inferno di agosto. I giorni in cui mi sono chiesta: “L’umanità può morire?” Sì, può morire. I giorni in cui il male è diventato comune…i giorni passati alla storia come una macchia scura. Questo non è stato il primo tentativo di genocidio contro gli ezidi, è stato il settantaquattresimo ordine di massacro. Questi giorni sono passati alla storia con il nome di Ferman.

Gli ezidi sono uno degli antichi popoli della Mesopotamia, forse una delle culture dal colore più bello di queste terre, hanno una lunga storia.

Non so come scrivere quello che ho visto e di cui sono stata testimone. Ma almeno voglio provarci. La brutalità a cui ho assistito è così profonda che inconsciamente ho scelto di dimenticarne la maggior parte. Ricordare rende la vita più dolorosa. Ho cercato per un po’ di proseguire sulla strada ignorando quegli eventi come se qualcun altro vi avesse assistito. Ma ero stata testimone della realtà e anche se l’avevo seppellita nel profondo non resta nascosta, alla prima occasione viene allo scoperto.

E ora sono vicina a queste terre. Stare lontana non mi faceva sentir bene, ho sempre pensato di averle lasciate sole. Alla prima occasione sono tornata dal mio popolo, in quelle terre sacre. Condividere con loro il calore di altri mesi d’agosto, mangiare insieme nella stessa ciotola, respirare la stessa aria, creava un legame diverso in quei giorni.

Lasciamo da parte l’essere una giornalista, nessuno può sopportare l’essere testimone di un genocidio. Poi assistere al massacro della propria gente, sulla propria terra…Forse la cosa più difficile è essere stata la giornalista che raccontava il massacro della sua stessa gente. In quel momento dimentichi di essere una giornalista. Non avrei mai pensato che un giorno sarei stata considerata anch’io una corrispondente di guerra perché non avevo abbastanza esperienza.

Ho scelto Șengal perché era la mia terra, c’era la mia gente. Scrivere e riflettere la verità è stata la cosa più difficile. E col tempo si diventa un bersaglio. Sono diventata un bersaglio per le notizie che ho raccontato in quei giorni. Come? Quei giorni hanno inferto traumi profondi ai curdi. Perché quando l’Isis ha attaccato i pêșmerge, responsabili della sicurezza della zona, sono fuggiti insieme alle loro armi. Non hanno dato le armi agli ezidi, li hanno lasciati davvero senza protezione. Ho assistito alla fuga dei pêșmerge e ho diffuso la notizia, è così che sono diventata un bersaglio. Ora non posso andare tranquillamente nella regione del Kurdistan meridionale in Iraq. A causa delle notizie che ho riportato, come giornalista, sono stata inserita nella lista nera. Non è triste? Loro sono curdi, anch’io sono curda, ma sono bandita.

È importante ricordare che i guerriglieri delle Hêzên Parastina Gel (Hpg) e delle Yekîneyên Jinên Azad (Yja-Star), braccio armato del PKK, in quei giorni erano sul Monte Șengal. Con un piccolo gruppo impedirono all’Isis di salire sulla montagna e aprirono un corridoio per gli ezidi in fuga. Gli ezidi li raccontano come una leggenda. Ho camminato con loro lungo quel corridoio.

Come giornalista ero dalla parte del popolo ezida. Ero parte di loro. Non riesco a trovare le parole per descrivere la difficoltà di assistere alla morte e alla fuga lontano dalla propria terra delle persone forse più pacifiche del mondo. Improvvisamente mi sono ritrovata nelle notizie che avevo raccontato. Quelle che stavo raccontando erano le persone di quel popolo. Avevo il dovere di diffondere le voci di quella gente silenziosa.

Ho cercato di attirare l’attenzione del mondo su quel massacro brutale, di far vedere ciò che sentivo e ciò che vedevo. Su quella strada ho preso parte alla marcia di coloro che fuggivano dal massacro dell’Isis. Ho camminato con loro per giorni. Il destino delle persone rapite era sconosciuto. Alcuni avevano perso la madre, alcuni l’intera famiglia, altri avevano perso i figli. In una notte disperata il loro destino era cambiato. Sono stati messi alla prova, sottoposti all’esame più difficile.

Gli esseri umani provano rimorso per essere sopravvissuti? Ho visto persone rimpiangere per essere sopravvissute, chiedersi perché non fossero morte. Ho visto bambini urlare, cercando di far sentire la propria voce, perché la loro madre era stata rapita dall’Isis.

Qui ho affidato i miei occhi al mondo intero, ho urlato perché vedessero con i miei occhi. Ogni notizia di morte era più difficile da raccontare. Ogni volta aggiungevo un centinaio alla conta dei morti, ho cercato di aiutare le persone a ricordare che i cadaveri che vedono in televisione sono sogni, piani futuri che non realizzeranno mai e persone care che hanno lasciato.

Essere curda, ancora di più essere ezida, era un peso di per sé. Trovarsi in una regione in cui la vita e la morte dipendevano dalla fortuna, sotto la costante pioggia di bombe, poi, era un’angoscia. Portare il peso di persone rifugiate oltre il confine, di famiglie decimate dal massacro, di vite distrutte che non hanno nemmeno il tempo di piangere i propri lutti.

E ora? Le ferite sono guarite? Certo che no.

Adesso sono con loro. Hanno una vita normale? Anche a questo rispondo di no. Ancora una volta le bombe stanno piovendo su quel popolo. Queste persone che non hanno superato questo immenso trauma vivono ancora sulle spine. Quello che queste persone hanno vissuto per giorni è stato oggetto di notiziari, ora viene visto come se fosse limitato a quel periodo. Ma non è così. Questo popolo ha bisogno di respirare. E il genocidio, le bombe, le morti, i rapimenti non sono il suo destino.

La sensibilità nei confronti degli ezidi non può accontentarsi di espressioni emotive. Come giornalista voglio dire di nuovo questo. Gli ezidi sono di nuovo soli. Non sono un popolo da ricordare solo nell’anniversario del Ferman.

 

Berfîn Hêzîl

(giornalista curda che il 3 agosto 2014 era a Șengal come reporter per la televisione del Rojava Ronahî Tv)

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