articoli, unione popolare

La metafora del mare aperto

di Stefano
Galieni

Negli anni Settanta, soprattutto, si manifestarono in Italia, generalizzando, due forme di costruzione di soggettività afferenti alle diverse culture della sinistra. La prima più tumultuosa e in perenne mutamento, rifiutava la possibilità di ricercare una rappresentanza nelle istituzioni, ritenute già luogo impermeabile alle istanze sociali e dominato dai partiti della borghesia. Le elezioni erano semplicemente ignorate o sbeffeggiate, celebre il manifesto raffigurante il volto di Karl Marx con la scritta “Il nostro candidato non ha trovato posto in alcuna lista”, e alla ricerca di un consenso per via elettorale si preferiva la costruzione di contesti sociali autonomi dalla politica, in cui si tentava di praticare con alterne fortune, forme a volte estreme di conflittualità. Attorno all’idea di una rivoluzione su cui ancora riporre speranze, si ritrovarono, in forme organizzative diverse, chi reputava l’operaio massa come centro del proprio intervento, chi cercava consensi nel sottoproletariato che già pagava le politiche di austerity successive alla svolta dell’Eur, chi addirittura pensava e praticava quelle che riteneva essere forme di contropotere territoriale. La società italiana era ancora in forte fermento tanto è che, accanto a queste forme di conflittualità radicale, si svilupparono – l’origine è già nel decennio precedente – soggettività con proprie culture politiche di rilettura del comunismo, sovente con forti elementi libertari, che cercavano però di entrare nelle istituzioni nella convinzione di potersi radicare, crescere, divenire punto di riferimento per il proletariato tutto.

La differenza fra quel periodo e i giorni odierni è immensa. Al di là della frantumazione dei soggetti sociali, della depoliticizzazione del Paese, della rigorosa egemonia esercitata dalla cultura neoliberista che impone un modello totalmente individuale, ci sono due fattori oggettivi a marcare l’abisso. Intanto non c’è più il PCI, che da “Stato nello Stato” era contemporaneamente il moloch contro cui confrontarsi ma la garanzia di forme di conflitto / mediazione nel rapporto capitale / lavoro, tale da determinare ancora ampi spazi di conquista e comunque di coesione sociale. Inoltre, il sistema proporzionale puro e il ruolo centrale del parlamento e dei partiti nell’attività politica facevano si che anche le piccole pattuglie che le forze collocate a sinistra del PCI, potessero contare, giocare un ruolo, determinare rappresentanza nelle istituzioni. Votare una forza che non raggiungeva nemmeno il 2% dei consensi a livello nazionale aveva un senso facilmente comprensibile. Che poi il voto delle classi subalterne andasse soprattutto verso i due grandi partiti di massa, PCI e DC, era cosa nota, ma un elettorato spesso colto, figlio anche delle conquiste del 68, presenti in diversi settori anche se soprattutto radicato nel ceto medio impiegatizio, spostava a sinistra l’asse del Paese.

Questa lunga premessa, molto generalizzata e in quanto tale carica di imprecisioni, è però utile a parlare di oggi, a cercare di comprendere di quale tipo di spazio politico dobbiamo cercare di costruire. Non esistono, nel nostro Paese, nessuna delle condizioni del passato a cui fare riferimento. Le aree di conflittualità sociale in cui realizzare casematte del mutualismo utili a determinare contesti in grado di estenderci, ad oggi non ci sono o sono al massimo rarefatte e frammentate. Rassegnazione e solitudine sono l’alfa e l’omega, in mezzo unicamente la ricerca disperata e disperante di soluzioni individuali in cui non c’è spazio per la militanza e tantomeno per cercare rappresentanza politica. La rappresentanza politica stessa è in parte già svuotata da trent’anni di delegittimazione, passo dopo passo si erodono i principi fondanti della democrazia parlamentare, dei luoghi istituzionali come spazi e/o di mediazione fra interessi diversi. I tempi della democrazia non collimano con i tempi del mercato, della guerra, delle decisioni prese unicamente in nome della salvaguardia del profitto di pochi. Applicando un semplice principio di realtà e pur considerando necessario in tempi brevi ambire anche ad una rappresentanza parlamentare, nazionale ed europea, il combinato disposto fra sistemi elettorali nemici (maggioritario, soglie di sbarramento insuperabili, riduzione del numero delle persone negli organi collegiali) e logica imperante del “voto utile” o della “riduzione del danno” – sovente falsa – rendono inutile l’esistenza di forze piccole e residuali alle competizioni elettorali. Da queste si esce o con l’ennesimo senso di sconfitta che provoca ulteriori emorragie in termini di persone attive, o peggio ancora, accettando logiche di compromesso destinate unicamente a trovare una simbolica quanto inutile presenza in qualche scranno parlamentare.

Il percorso che a mio avviso uno spazio ancora in fase embrionale, come Unione Popolare potrebbe e dovrebbe intraprendere deve tenere conto di questo contesto che va stravolto nel profondo e che deve porsi alcune condizioni di fondo. Evitare ogni forma di settarismo, soprattutto se ancorato ad esperienze passate. Gli spazi di rifugio, le proprie organizzazioni di appartenenza sono utili se divengono strumento di servizio ad un processo ampio in cui, senza perdere in autonomia e indipendenza, se diventano gabbie, con sbarre fra cui ci si parla ma che non si contaminano, sono un ostacolo, non frantumano la bolla in cui da anni e anni sono rinchiuse. Il loro radicamento serve nella misura in cui non diviene respingente ma è capace di interagire con la realtà superando ogni forma di autoreferenzialità e soprattutto deve offrire qualcosa di utile e di profondamente diverso. Deve essere un radicamento capace di far avvicinare chi al limite, ad ogni competizione elettorale, si barcamena fra l’astensionismo ed un voto di disperazione – perennemente fluttuante – e quindi non può costituirsi nell’avvicinarsi di tali scadenze ma far divenire queste uno spazio in cui potersi confrontare e nulla più. UP deve quindi realmente andare oltre le forze fondatrici, divenendo luogo di formazione, crescita, socialità, valorizzazione di competenze. Luogo di credibilità capace di proporre non uno stantio programma che somiglia sempre più ad una lista della spesa o ad un elenco di ciò che non si deve essere o fare, ma di declinare un’altra proposta di società. Non ci si possono insomma proporre obiettivi limitati, nè pensare che il radicalismo in quanto tale, prima o poi paghi, lo spazio da costruire deve essere percepito e cercato come possibile alternativa al presente. Questo significa che non bastano più le antiche forme spesso rappresentate con l’idea di un perimetro segnato da basse soglie d’ingresso e riempito, come un campeggio, da tende di elaborazione politica e sociale. Forse la metafora più adeguata è quella del mare, in cui occorre elaborare strategie per evitare predatori e non farsi prendere da reti o esche, ma che deve essere realmente aperto. Gran parte delle ragioni che hanno portato, in una prima fase molte e molti ad avvicinarsi a noi sono tutt’ora valide e ci accomunano, sono principi fondanti e valoriali non negoziabili, a partire dal no alla guerra. Il mondo che ancora non ha avuto modo di riconoscersi in un’appartenenza, variegato nella propria composizione sociale, culturale, generazionale e di formazione politica, ha ancora l’occasione di ritrovarsi in uno spazio in cui poter partecipare e ritrovare cittadinanza. Certo questo non può essere limitato e frenato dalla maniera, spesso subalterna, con cui si rischia di presentarci agli appuntamenti elettorali. A mio avviso, nella necessità di marcare una propria alterità al sistema intero e nel voler proporre, anche in tali scadenze una proposta di alternativa popolare, bisogna preservare un approccio laico. Laico significa evitare di cadere, soprattutto nei contesti locali, tanto nella ricerca spasmodica di alleati più forti, qualsiasi essi siano, quanto nel rifiuto di interloquire con chi si muove con gli stessi obiettivi.

Le persone che contribuiscono a far crescere UP devono, sempre a mio avviso, potersi confrontare su contenuti, programmi, interventi e vertenze, mobilitazioni condivise e istanze da far valere in ogni sede. Guai a ricadere in dinamiche cristallizzate, incomprensibili al di fuori della nostra bolla e guai ad esaminare le proposte che giungono da ambiti a noi vicini, con la lente di ingrandimento di chi cerca di scorgere le impurità tali da impedire qualsiasi interazione. Ed è altrettanto necessario che coloro che UP la stanno concretamente realizzando, continuino ad elaborare proposte atte ad ampliare l’ambito delle soggettività individuali e collettive con cui connettersi e con cui costruire partecipazione paritaria. A mio modesto avviso aprire la fase costituente deve tradursi in questo, non in assemblee territoriali ingessate composte da chi è già parte attiva nel processo, la campagna di adesione da far partire deve e può divenire il punto di incontro per un coinvolgimento che includa e non si traduca in compartimenti. E mi permetto due ultime riflessioni. Al nostro interno, per quello che è ad oggi Unione Popolare, esistono divergenze ad esempio nelle relazioni sindacali. Nessuno può imporre che queste spariscono ma ciò non può indebolire o restringere il campo d’azione dello spazio politico che si intende costruire. Ed infine, anche per fare chiarezza. Sempre al nostro interno esistono culture e storie politiche molto diverse che si traducono anche in parole identificative. C’è chi si definisce comunista, socialista, ambientalista, antifascista, femminista ecc… La necessità comprensibile di nuovi linguaggi non deve però rimuovere queste culture e queste parole. Lo spazio che può conquistare UP è ampio laddove riesce a comprenderle senza renderle vincolanti o preclusive. Trattasi di un lavoro di ricerca e di prassi quotidiana che richiederà tempo, impegno e disponibilità all’ascolto reciproco che non può essere liquidato fra poche e pochi ma deve implementarsi giorno dopo giorno. La confluenza da realizzare è possibile solo attraverso un reciproco e continuo riconoscimento capace di produrre ibridazione.

Ho iniziato questo tentativo di ragionamento a partire dagli anni Settanta in ragione del fatto che mi vado sempre più convincendo di come lo spazio da occupare e in cui acquisire una nostra dimensione politica, debba per forza di cose divenire ampio, al limite anche contraddittorio, ma ricco di pluralità e di democrazia reale. La forma con cui si potrà realizzare è per noi una sfida. Forse quella per cui vale più la pena lavorare.

Stefano Galieni

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