focus

La memoria affondata

di Stefano
Galieni

Di Stefano Galieni – Di fronte ai cadaveri che affiorano, ai superstiti terrorizzati, ai condannati al ritorno nei campi di tortura in Libia, diviene inevitabile un pensiero rozzo e forse inutile. Con quale faccia noi, quelli che si affacciano dal lato Nord del Mediterraneo, ci apprestiamo ad andare a votare alle prossime elezioni europee? E con quale faccia guardiamo i tg, ascoltiamo i notiziari, ci lasciamo scorrere nella testa l’elenco cupo e interminabile delle vittime? Cosa pensiamo quando si affacciano, da entrambe le sponde, i carnefici di questo olocausto legalizzato nell’avvicinarsi del “Giorno della memoria”? Ce l’abbiamo una memoria o l’abbiamo affondata, come un gommone. Ce la scarichiamo da un paese all’altro come i colpevoli di essere nati dalla parte sbagliata del pianeta, la lasciamo distrarre dal panico inutile dei privilegiati quando attraversiamo le nostre città comunque opulente nel momento in cui urtiamo addosso ad una povertà nostrana o giunta da lontano. Ogni tanto qualcuno ci costringe al risveglio. Sono i solidali che rischiano, schierandosi dalla parte degli sconfitti di oggi, le donne e gli uomini che si mettono in mare cercando di strappare anche una sola persona, quelli e quelle che disobbediscono a leggi inumane, in cui si mischiano il fallimento sociale e individuale del modello neoliberista, la logica del mors tua vita mea, la solitudine rancorosa in cui ci vorrebbero perennemente costretti a vivere, rinchiusi in gabbie di cui spesso non vediamo neanche le sbarre. Ci risveglia, come una doccia fredda, ogni esplosione di vita meticcia che irrompe nella staticità innaturale di una identità fittizia e priva di futuro. Non si tratta di moralismi utili a far mordere qualche coscienza – se ancora esiste -nei palazzi italiani ed europei dove il crimine si commette e si istituzionalizza ma di provare a pensare ad un dopo. Il presente è quello dei porti chiusi, dei gommoni lasciati al gelo o, tuttalpiù riportati nelle galere da cui si fuggiva, degli SOS raccolti solo da una piccola organizzazione, Watch the med mediante un collegamento telefonico, un “Alarm phone” a cui si rivolgono i naviganti in difficoltà. Ma a quel grido spesso non giungono risposte neanche dalla Libia che pure ha ricevuto ingenti finanziamenti per potenziare gli strumenti di salvataggio. E per provare ad uscire dall’aspetto emotivo torniamo ai soldi e agli interessi che ci sono in ballo. Il tratto di mare che separa il paese africano dall’Europa è uno dei più controllati del pianeta; per fermare coloro che provano a forzare la frontiera dei ricchi, si spendono centinaia di milioni di euro, agenzie come Frontex si sono trasformate in vera e propria Guardia costiera e di frontiera europea. I respingimenti collettivi, proibiti dalle convenzioni internazionali, sono divenute la norma, sia perché la Libia è oramai considerato “paese sicuro”. Il sedicente governo Serraj, riconosciuto internazionalmente, si è dotato (è stato dotato) di ben 2 guardie costiere (una sotto il comando del ministero dell’interno, l’altra di quello della difesa) composto per lo più da militari che fino a poco tempo fa guidavano le milizie in cui è diviso il territorio, ex trafficanti, personale che si è riciclato nello Stato mantenendo i propri lauti guadagni con i traffici clandestini di petrolio e persone. Questo ha permesso la creazione intorno alle coste libiche di una “zona SAR” (Search And Rescue), in cui ad intervenire per i soccorsi devono essere le autorità di Tripoli deresponsabilizzando quelle europee, in particolare maltesi e italiane nonché quelle con targa UE. Una zona SAR che semplicemente non esiste: i libici hanno avuto in regalo mezzi inadeguati ai salvataggi, che spesso necessitano di manutenzione (mezzi italiani) con personale a cui non è stato offerto neanche adeguato addestramento. Col risultato che intervengono solo quando chi fugge sui gommoni non solo è preda facilmente raggiungibile ma, una volta recuperata, può fruttare ancora col ricatto alle famiglie, con il lavoro schiavo, con il business della detenzione. Alla fine nel tratto di mare che nel solo 2019 ha già inghiottito almeno 300 persone o intervengono i militari di Tripoli o le poche Ong che ancora hanno le navi libere per rischiare. E arriviamo quindi al terzo livello. Se i governi europei, di diversa collocazione politica, hanno per pochi mesi gioito per la diminuzione delle partenze oggi il clima è cambiato. Serraj ha perso anche la fiducia dei suoi luogotenenti e controlla solo alcuni quartieri di Tripoli. La tanto decantata Conferenza di Palermo è fallita miseramente e il vero uomo forte, il generale Khalifa Haftar, che già controlla la Cirenaica (est della Libia) ha stretto alleanze con alcune brigate e milizie di stanza a Tripoli e dintorni, cerca accordi con Misurata ed è entrato nel sud del paese, nel Fezzan, con l’appoggio degli islamisti Tubu che contendono il controllo del territorio ai Tuaregh. Il sud, desertico è oggi di importanza strategica, per i ricchi giacimenti petroliferi, per gli impianti di estrazione fermi a causa dei conflitti, perché è la frontiera porosa attraverso cui fuggono le persone dai paesi Sub Sahariani. Haftar, forte della sponsorizzazione dell’Egitto di Al Sisi e della Francia, promette di divenire argine per l’emigrazione (bastano 20 miliardi di euro) e di far ripartire la produzione di greggio. Un affare che potrebbe portare le sue brigate anche a prendersi l’intero paese e comunque ad una recrudescenza del conflitto mai interrotto. Si è in una fase di interregno in cui ci sono pochi mesi per fuggire e si fugge a qualsiasi costo, sapendo che il rischio di lasciarci la vita è alto e che partire è diventato anche più costoso. Ma da noi ministri da social e procuratori in cerca di riflettori continuano a prendersela con le Ong, con chi accoglie, con l’egoismo degli altri governi e con chi, come Mimmo Lucano rappresenta quasi l’emblema dell’alto tradimento, la dimostrazione che accogliere non solo è giusto e possibile ma è l’unica reale soluzione praticabile. E se a Lucano impediscono ancora di tornare a Riace, senza peraltro fornire neanche motivazioni giuridiche adeguate, si guarda con sospetto anche al sindaco di Torre Melissa e ai suoi abitanti che, di fronte all’arrivo di 51 persone, sono corse in spiaggia con coperte, cibo, calore umano. E sono tanti, in Italia, Grecia, Spagna e Francia, come nel Nord Europa, i segnali interessanti di uomini e donne che resistono e che hanno semplicemente compreso, col puro buon senso che lasciare annegare le persone non solo è un crimine che macchierà la storia di questi anni ma corrisponde a scelte che alludono ad altro, ad un modello di società rigidamente separato fra esclusi e inclusi, fondato su gerarchie etniche e di classe. Chissà che da questa consapevolezza non nasca finalmente un risveglio di cui in tante e tanti abbiamo bisogno?