Con il Trattato di Lisbona (2007) l’Unione Europea ha personalità giuridica, come soggetto di diritto internazionale distinto dagli Stati che la compongono. In realtà è un soggetto zoppo, nato per rimediare al fallimento del Trattato istitutivo della Costituzione europea (2004) che prevedeva un ordinamento a sé e una relativa sovranità dell’Unione ma è stato affossato dai referendum contrari in Francia e in Olanda.
L’attuale ordinamento istituzionale è fondato non su una Costituzione ma sui Trattati (Accordi tra Stati). Prevede un Parlamento eletto direttamente da tutti i cittadini UE che co-decide normative e indirizzi generali insieme al Consiglio, composto da tutti i leader rappresentativi dei singoli Stati (quasi come un Senato federale), mentre la Commissione attua le normative e gli indirizzi (come un Governo federale). Anche la Commissione, il cui Presidente deve avere la fiducia del Parlamento, è composta da tanti Commissari quanti sono gli Stati, uno per Stato. Il Vice presidente della Commissione è l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza comune, a capo di un apposito Servizio. In pratica pesano ancora troppo i singoli Stati coi propri ordinamenti, le rispettive leadership nazionali e gli interessi nazionali prevalenti. Anche sulla politica estera e di sicurezza, che si esercita su due livelli. Quello dei singoli Stati, ciascuno con le sue forze armate, servizi segreti, diplomazia, ciascuno con la sua politica ma con un coordinamento a livello europeo, più consistente per diplomazia e forze di polizia, debole per il resto. Anche sulla politica estera, come sulla politica generale, s’è determinata un’intesa semipermanente tra Francia e Germania per coordinare le rispettive politiche nazionali e possibilmente esercitare un’influenza a livello europeo.
Questa evoluzione delle istituzioni europee s’è realizzata in parallelo all’allargamento della U.E. verso Est, ai paesi del disciolto Patto di Varsavia, a parti dell’ex Jugoslavia, ai paesi baltici, e contemporaneamente all’espansione della Nato nella stessa direzione, più o meno verso gli stessi paesi, compresi i baltici, nati dalla disarticolazione dell’URSS sui confini occidentali. Espansione avvenuta nonostante le assicurazioni fornite dall’Amministrazione americana dell’epoca e nonostante l’avviso contrario dei principali protagonisti americani del confronto con l’URSS durante la guerra fredda (Kissinger, Kennan ed altri), che temevano la reazione di contrasto della Russia a questa che le sarebbe apparsa come una manovra d’assedio. In realtà, questa espansione della Nato nell’ Europa dell’Est ha avuto come ragione di fondo una difesa dell’egemonia USA declinante a livello globale attraverso un rafforzamento della supremazia americana sull’Europa. Contro la Russia di Putin ma anche contro i tentativi di autonomia dell’asse franco-tedesco in Europa.
All’inizio degli anni 2000, la globalizzazione neoliberista dei flussi di denaro, merci, persone, dati, funzionale alla maggiore valorizzazione dei capitali finanziari, vedeva in posizione dominante rispetto al resto del mondo l’insieme dei paesi sviluppati ad economia di mercato, avente al centro la forza economica, politica e militare degli USA. Dominio esercitato anche attraverso il ruolo centrale del dollaro nella finanza e nel commercio mondiale, garantito dal controllo del FMI e rappresentato dal persistente squilibrio delle ragioni di scambio per le materie prime, i prodotti industriali, lo sfruttamento del lavoro. Squilibrio generato dal colonialismo, evoluto prima col neocolonialismo e poi con la globalizzazione. Questa, tuttavia, ha visto lo sviluppo delle economie cinese, indiana, brasiliana, russa, sudafricana (i BRICS) e di altre ancora, e il corrispondente declino del predominio USA/occidentale. Prima del 2000 l’80% degli Stati aveva più commercio con gli USA che con la Cina, nel 2018 questa percentuale si era ridotta al 30%, e continua a ridursi. I Diritti speciali di prelievo (DSP) sono emersi come strumento di liquidità internazionale alternativo al dollaro, ma non sviluppano questa potenzialità perché sono gestiti dal FMI controllato dagli USA, con un recente debole riconoscimento del ruolo della Cina.
Questo progressivo declino del predominio USA/occidentale è stato investito tre anni fa dal brusco venire in primo piano della questione ambientale. Perché è dilagata l’epidemia COVID, prodottasi nell’ambito della stessa questione, e perché la Conferenza di Glasgow ha dimostrato con le cifre il fallimento della strategia di controllo del riscaldamento globale. Si è generata così una situazione di contrasto generale sulla distribuzione degli oneri della crisi climatica, in particolare tra l’Occidente già sviluppato e il resto del mondo che si va sviluppando a velocità diverse. Perché il riscaldamento globale concretizza l’insostenibilità del modello di sviluppo imposto dalla valorizzazione dei capitali finanziari, basato sulla “crescita” dello sfruttamento di tutte le risorse naturali ed umane, della produzione di merci e di rifiuti, del consumismo di massa. L’estensione di questo modello a tutto il mondo si sta scontrando coi limiti dell’assetto fisico del pianeta: terra, aria, acqua, energia. Perciò la crescita rimbalza indietro e impatta sugli assetti del potere economico e politico in tutto il mondo, a partire dagli squilibri in atto tra l’Occidente e il non-occidente.
I due conflitti più recenti e più gravi, in Ucraina e in Palestina, nascono da questo aggravamento della contraddizione tra Occidente allargato e resto del mondo, che sta prevalendo sulle contraddizioni regionali che pure rimangono. L’ampliamento della quasi-coalizione dei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) ad altre decine di nazioni africane, asiatiche e sudamericane mette insieme paesi molto diversi ed anche in conflitto tra loro, come Arabia saudita e Iran. Contro l’egemonia del dollaro nella finanza globale, il predominio dei capitali finanziari e delle imprese multinazionali radicate nell’ Occidente, la conseguente iniquità nella distribuzione delle risorse mondiali. La nuova NATO globale, allargata ad Israele e ai paesi sviluppati nell’area del Pacifico, esprime la reazione militare dell’Occidente a guida americana in difesa della propria declinante egemonia. Sventolando le bandiere della civiltà occidentale, della democrazia liberale, dell’economia di mercato sostiene la guerra di Israele al popolo palestinese, manovra contro la Cina, combatte la Russia attraverso l’Ucraina coinvolgendo un’Europa subalterna e divisa, nella quale il peggioramento generale ha determinato un peggioramento specifico nella già debole politica estera comune, claudicante intorno a quella dell’asse franco-tedesco, parzialmente autonoma dagli USA. Politica che nella crisi ucraina aveva portato all’accordo di Minsk nel 2013, fatto saltare dalle successive rivolte di piazza, ed ai successivi tentativi di mantenere un rapporto diplomatico con la Russia. Di fronte all’esplosione del conflitto in Ucraina, nel quadro del contrasto globale tra Occidente allargato e BRICS allargato, l’autonomia franco-tedesca è venuta meno e con essa una politica estera comune della UE distinta da quella della NATO. Anche per l’atteggiamento anti russo dei paesi baltici o comunque confinanti con la Russia, e comunque per la spinta ad allinearsi ad una posizione di difesa della declinante egemonia dell’Occidente allargato sul resto del mondo. Anche a costo di farsi carico per intero dell’impegno militare e finanziario necessario in Europa a fronteggiare la Russia in una situazione di ritiro degli USA da tale impegno.
Analogamente, in Medio Oriente si va registrando un allineamento totale della politica estera comune della UE a quella della Casa bianca. La deflagrazione del conflitto in Palestina ha fatto saltare il “patto di Abramo” in via di definizione tra Israele e le monarchie sunnite del Golfo, per mantenere queste ancorate all’ Occidente e isolare l’Iran sciita coi suoi alleati. E garantire ad Israele il pieno controllo di tutto il territorio tra il Giordano e il Mediterraneo. La brutale reazione di Israele all’attacco di Hamas, col massacro dei palestinesi di Gaza e la pressione violenta sui palestinesi in Cisgiordania, ha determinato una sollevazione dell’opinione pubblica di tutti i paesi e le comunità islamiche del mondo contro Israele ed anche, almeno potenzialmente, contro l’Occidente. Il conflitto è in corso, con l’intervento degli alleati sciiti dell’IRAN a fianco di Hamas, che pure è sunnita, e si è allargato al confronto diretto tra IRAN e Israele. La politica dell’amministrazione Biden si trova lacerata tra le ragioni strutturali del sostegno ad Israele e la necessità di non mettersi contro l’intero Islam, spingendolo definitivamente nel campo dei BRICS. Nel pieno di questa crisi l’Europa resta incollata agli USA, seguendone pedissequamente le mosse sia a livello della politica estera comune sia a livello dei singoli paesi. Con una sfumatura più filoisraeliana della Germania, per le note ragioni storiche.
Questa è la situazione dell’Europa, una crisi di ruolo sui vari fronti e a livello globale. Le prospettive sono ancora peggiori, per il possibile allargamento del conflitto in Medio Oriente, la probabile vittoria di Trump e il crescente contrasto con la Cina. La radice di questa crisi sta nella dimensione esclusivamente o prevalentemente economica dei Trattati, gli atti di nascita e di sviluppo dell’Unione, del Mercato comune e dell’euro, moneta comune. Perché la spinta dell’opinione pubblica più avvertita verso l’unità europea dopo due guerre mondiali, su una comune base ideale e culturale, è stata assunta e utilizzata dalle forze economiche dominanti per realizzare alcuni obiettivi strategici. Unificazione dei mercati, ovvero libertà di movimento per capitali e merci, libertà di gioco delle imprese tra i diversi regimi giuridici, fiscali, del lavoro dei singoli Stati, controllo della spesa pubblica degli Stati e dell’Unione per garantire una gestione dei rispettivi debiti funzionale alla proficuità degli investimenti della finanza globale. Facendo crescere, sullo sfondo, le possibilità di controllo delle forze economiche dominanti sulla politica e sulle politiche settoriali delle istituzioni europee e dei singoli Stati. Più che un’Europa dei popoli, un’Europa dei padroni.
Queste forze, ovvero i grandi aggregati di capitale finanziario, seguono tutti la medesima logica dell’autovalorizzazione, ognuno per sé ma con modalità diverse, settore per settore, mercato per mercato. Alcuni sono fortemente radicati nel territorio e nell’ordinamento dei singoli Stati, altri meno, altri – i maggiori – operano a livello globale. Nel campo dei capitali finanziari si generano così contraddizioni tra strategie globali, magari articolate a livello europeo, e strategie nazionali, anche articolate a livello substatale. Queste strategie e queste contraddizioni vengono proiettate sulla politica ai vari livelli, dal globale al locale. Nel campo economico-finanziario le contraddizioni tra questi soggetti forti si risolvono con compromessi faticosi e spesso parziali, dei quali è maestro Mario Draghi. Nel campo della geopolitica intervengono fattori di altra natura, ma l’economia con le sue contraddizioni mantiene comunque un peso rilevante. Il capitale finanziario globale, ancora prevalentemente di matrice USA/occidentale, sta sulla linea di questa matrice a prevalenza USA e si interessa della UE quasi solo per la disciplina finanziaria. Il capitale finanziario impegnato nelle attività produttive sui territori (industria, commercio, immobiliare) è radicato nei diversi Stati e ne condiziona la politica presentando i suoi interessi come “interesse nazionale” soprattutto nella proiezione estera, come ad esempio la Francia nell’Africa del Nord. Le imprese e gli operatori a capitale debole sono ancora più legati ai territori e perciò in contrasto con la globalizzazione, l’europeizzazione, l’apertura dei mercati. Nel quadro di una crisi sistemica sempre più grave è questo assetto, dominato comunque dai grandi capitali finanziari, che si proietta sulle politiche dell’Unione e dei singoli Stati in modo tale da indebolire la presenza autonoma dell’Europa come soggetto di diritto internazionale. Se non per un aspetto, di primaria importanza per la logica dello “sviluppo” dei profitti e del valore dei capitali finanziari, che è quello della guerra. In un mondo dove le possibilità di investimenti proficui sono sempre più ridotte anche per la concorrenza dei BRICS, la guerra diventa la manifestazione primaria del capitalismo come “distruzione creatrice” perché crea un circuito tra produzione di armamenti, impiego dei medesimi con relativa distruzione di infrastrutture, e ricostruzione delle medesime, col capitale finanziario che investe e guadagna prima sugli armamenti e poi sulla ricostruzione, entrambi finanziati da una spesa pubblica comunque declinante. Creazione di valore economico e distruzione di vite umane, direttamente sul campo e indirettamente come compressione delle condizioni di vita, più forte nei paesi coinvolti ma rilevante ovunque. Soprattutto in Europa, oggi, oltre che in Palestina.
Nino Zucaro
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Eccellente spiegazione delle ragioni che rendono l’Europa debole e priva di autonome prospettive e, ricorrendo alla ricostruzione storica dell’involuzione della UE, motiva contemporaneamente la diffidenza e le speranze dei cittadini dei singoli stati europei verso di essa.