Con la cortese autorizzazione del Direttore di “Alternative per la Sinistra”, pubblichiamo questo articolo di Andrea Amato che apparirà sul N° 72 della rivista, attualmente in stampa.
Così, dopo tanto discutere, il Patto di Stabilità è tornato. Una vicenda alla quale si addirebbe il titolo shakespeariano Molto rumore per nulla; ma che evoca anche un’altra commedia, Così è se vi pare di Luigi Pirandello, dove la realtà oggettiva perde ogni significato, ciò che conta sono le diverse narrazioni che se ne fanno. Invece la realtà esiste, in tutta la sua spietatezza e questa tragicommedia dovrebbe piuttosto essere intitolata “Così è, punto e basta”, anche per rappresentare appieno il carattere autoritativo delle regole che determineranno i destini delle economie di gran parte degli Stati membri dell’Ue nei prossimi anni.
Con la votazione del 23 aprile 2024 del Parlamento Europeo si conclude il lungo processo di gestazione del nuovo Patto di Stabilità (e Crescita) o, per meglio dire, di “riesumazione” di quello vecchio. Un processo iniziato nel 2021 – dopo la sospensione decisa nel 2020 a causa della pandemia – con un dibattito, lanciato dalla Commissione europea, che ha coinvolto le istituzioni europee e i principali portatori di interessi, i cui risultati sono contenuti in una Comunicazione della Commissione del novembre 2022, che avanza primi orientamenti per una riforma della governance economica dell’Unione Europea1.
Le proposte della Commissione europea
Sulla base delle reazioni ricevute a questi orientamenti, la Commissione nell’aprile 2023 ha presentato tre proposte legislative. La prima, rappresenta il cosiddetto “braccio preventivo” del Patto di Stabilità, un insieme di misure per “coordinare” le politiche economiche e di bilancio dei Paesi membri, con lo scopo di farle rientrare nei famosi parametri di Maastricht. La seconda, il “braccio correttivo”, riguarda la procedura d’infrazione per i disavanzi eccessivi; la terza, le regole comuni che gli Stati membri debbono adottare nella predisposizione dei bilanci nazionali.
Nel primo caso si tratta di una proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio2 che dovrà sostituire il Regolamento del Consiglio del 1997 che istituiva il Patto di Stabilità – era solo del Consiglio perché in base al Trattato di Maastricht non era ancora materia sottoposta alla “procedura ordinaria” che prevede la codecisione tra Parlamento e Consiglio. Il secondo provvedimento dovrà rimpiazzare il Regolamento del Consiglio del 19973; mentre con il terzo si intende aggiornare la Direttiva del Consiglio del 20114. Solo per il primo si è dovuto trovare un’intesa tra Consiglio e Parlamento; per gli altri due il Parlamento è stato soltanto consultato.
A metà dicembre 2023, la Commissione per i problemi economici e monetari del Parlamento europeo (Econ) ha approvato, per ciascuno dei tre provvedimenti, una relazione con proposta di Risoluzione da sottoporre alla plenaria per definire così la posizione del Parlamento5. Parallelamente, andava avanti il negoziato tra i Governi, iniziato già dal maggio 2023 con le schermaglie tra i “frugali”, capeggiati dal ministro delle Finanze della Germania, Christian Lindner, e i “solidali” che per un lungo periodo hanno trovato il loro paladino in Bruno Le Maire, ministro francese dell’Economia e delle Finanze. A partire dall’estate 2023, i negoziati sono diventati più istituzionali, fino a concludersi il 20 dicembre, nella riunione del Consiglio Ecofin (ministri dell’Economia e delle Finanze), con un sofferto compromesso.
I testi delle tre proposte legislative, rivedute e corrette dai Governi6 sono quindi stati inviati al Parlamento europeo, il quale – relativamente al Regolamento del “braccio preventivo” (per il quale si applica la “procedura ordinaria”) – anziché approvare la Relazione della sua Commissione Econ, facendola diventare la posizione del Parlamento in prima lettura e fare proseguire la procedura con una seconda lettura (in risposta alla posizione del Consiglio di dicembre) ed eventualmente con il Comitato di conciliazione – il 17 gennaio 2024 ha dato il via ai negoziati interistituzionali informali nella famigerata forma del “trilogo” (Parlamento, Consiglio, Commissione), con il mandato ai propri negoziatori di rappresentare le posizioni contenute nella Relazione approvata dalla Commissione Econ.
Il 10 febbraio 2024, i negoziati del “trilogo” hanno prodotto un testo di compromesso7 Nella riunione del 4 marzo, la Commissione Econ ha approvato i testi prodotti dal negoziato del trilogo: quello relativo al Regolamento del “braccio preventivo” nonché quelli degli altri due provvedimenti (su cui il Parlamento è consultato). Mentre si scrive questo articolo, la ratifica (o respingimento) definitiva di questi testi da parte del Parlamento europeo non è ancora avvenuta, ma si può prevedere, con pressoché fondata certezza, che questi sono i testi definitivi del nuovo Patto di Stabilità, ed è su di essi che si possono esprimere valutazioni non più provvisorie.
Una indubbia regressione
Il giudizio sull’accordo non può non partire dal confronto con i due principali precedenti: il vecchio Patto, sospeso nel 2020, e la proposta di riforma presentata nell’aprile 2023 dalla Commissione europea.
Per alcuni aspetti, il nuovo Patto è meno gravoso del vecchio. Basti pensare alla eliminazione dell’obbligo di ridurre il debito annualmente di un ventesimo della quota eccedente il 60% del Pil; per l’Italia oggi significherebbe una riduzione annua del 4%, impossibile da sostenere, mentre per Francia, Spagna, Portogallo e Belgio la riduzione, anch’essa onerosa, sarebbe del 3%. Per converso, l’introduzione della spesa primaria netta come variabile principale su cui si basa l’aggiustamento, rende il controllo da parte della Commissione più diretto e meno eludibile, in definitiva più vessatorio. Ma non si deve dimenticare che le regole di quel Patto non venivano mai applicate, perché insostenibili o perché non era politicamente agevole sanzionare Paesi forti come la Germania e la Francia. Tant’è che da molte parti, anche in Italia, si sarebbe preferito ritornare al vecchio Patto, formalmente draconiano ma concretamente innocuo, piuttosto che averne uno più ammorbidito ma efficace8.
Per contro, il confronto con la proposta della Commissione è oltremodo deludente per le modifiche peggiorative imposte dal compromesso intergovernativo del 20 dicembre a un insieme di regole che, nonostante i roboanti proclami e la frequente accoglienza entusiastica, annunciavano già la loro incapacità di ammendare i vizi del vecchio Patto, a cominciare dal loro potenziale carattere prociclico.
Innanzi tutto il nuovo Patto amplifica la contraddizione, già presente nella proposta della Commissione, sull’impianto generale delle regole e cioè la compresenza dell’obiettivo della sostenibilità del debito – affidato alla Dsa (Debt Sustainability Analisis) – e quello della sua riduzione, da raggiungere con una serie di soglie numeriche9. La Dsa – pur criticata per un certo margine di aleatorietà a causa della notevole sensibilità delle ipotesi di partenza – non prende in considerazione solo la riduzione della spesa ma anche fattori di incremento della crescita (per esempio demografia, riforme, investimenti) che possono rafforzare l’economia e, di conseguenza, alleggerire il peso del debito. Per contro i vincoli numerici impongono ai Paesi fortemente indebitati restrizioni pesanti con inevitabili spirali procicliche. La contraddizione è ancora più eclatante se si pensa che nell’attuale testo, insieme ai vincoli numerici, viene mantenuto l’indicatore della spesa netta nei percorsi di aggiustamento, che la Commissione aveva introdotto non solo per il suo carattere anticiclico ma anche con l’intento di semplificare le farraginose regole del vecchio Patto. E, infatti, la prima vittima di questa stridente compresenza è proprio la semplificazione delle regole che, in qualche modo, la proposta della Commissione perseguiva.
La norma in peggio voluta dal governo tedesco
Il peggioramento più rilevante deriva dall’introduzione, imposta dal Governo tedesco, di ulteriori e più gravose salvaguardie con benchmark numerici. La Commissione, venendo incontro alle pressioni dalla stessa provenienza, ne aveva già introdotte alcune nella proposta di aprile 2023, modificando in peggio gli Orientamenti di novembre 2022. Gli ulteriori peggioramenti riguardano sia il debito che i disavanzi. Per quanto riguarda il debito, nella proposta della Commissione ci si limitava a indicare che, alla fine della cosiddetta “traiettoria tecnica”, il rapporto debito/Pil avrebbe dovuto essere inferiore rispetto a quello dell’anno precedente l’inizio del piano di aggiustamento. Nel nuovo Patto questa indicazione è stata soppressa e sostituita da una riduzione fissa annua, differenziata secondo la categoria dei Paesi ad alto debito, denominata “Salvaguardia della sostenibilità del debito”. Per i Paesi che hanno un rapporto debito/PIL superiore al 90%, la riduzione dovrà essere dell’1% all’anno; mentre per quelli in cui questo rapporto si colloca tra 60 e 90% sarà dello 0,50%.
Peggioramenti anche dal lato dei disavanzi. Mentre nella proposta della Commissione l’obiettivo dei percorsi di aggiustamento era quello del Trattato di Maastricht – cioè non superare un rapporto deficit/PIL del 3%, per raggiungere il quale si chiedeva un aggiustamento annuo della spesa netta pari allo 0,5% – con la “Salvaguardia della resilienza al disavanzo”, il traguardo da raggiungere passa dal 3% all’1,5% del rapporto deficit/PIL, un target uguale per tutti a prescindere dall’incidenza dell’eccesso di debito pubblico. Per conseguirlo occorre un “miglioramento del saldo primario strutturale” (saldo al netto degli interessi, degli effetti del ciclo economico e delle misure temporanee) dello 0,4% del PIL nelle traiettorie di quattro anni, ridotto allo 0,25% in quelle settennali.
Questi i peggioramenti delle regole relative al “braccio preventivo” del Patto, oggetto della proposta di revisione del Regolamento 1466/97, del Parlamento e del Consiglio, cioè sottoposto alla procedura legislativa ordinaria, ex codecisione Consiglio-Parlamento.
Gli aspetti regressivi delle nuove regole
Prima ancora delle conseguenze nefaste sulle politiche di bilancio nazionali, conviene soffermarsi su due aspetti di regressione politica delle nuove regole, sempre relativamente al “braccio preventivo”. Il primo riguarda le ripercussioni negative, in termini di incremento dell’ “effetto stigma”, della nuova classificazione dei Paesi nella fase d’ingresso nei percorsi di governance. Nella proposta della Commissione, i criteri di input rispondevano a una classificazione binaria: da una parte i Paesi che rispettavano tutti i parametri di Maastricht (i “buoni”), dall’altra quelli che non li rispettavano (i “cattivi”). Nel nuovo testo si è tornati alle tre fasce di rischio – presenti negli Orientamenti di novembre 2022, poi abbandonati per le critiche ricevute – a seconda che il rapporto debito/PIL sia inferiore al 60%, si collochi tra il 60 e il 90%, ovvero sia superiore al 90%; cioè i buoni, i cattivi e i pessimi. La differenza è che nella prima classificazione i “cattivi” erano 13, in questa i “pessimi” sono solo 6: Grecia, Italia, Francia, Spagna, Belgio e Portogallo. Certo, tutti gli investitori sanno bene che questi sono i Paesi più indebitati dell’Ue, ma sapere fin d’ora che sono quelli che saranno sottoposti ai più duri percorsi di aggiustamento non potrà non influenzare la valutazione del rischio da parte dei mercati, innescando circoli viziosi di instabilità per l’intera Zona euro.
La seconda regressione riguarda la sconfessione delle due qualità più enfatizzate della proposta della Commissione: la “flessibilità” e la “titolarità”. Con le traiettorie tecniche nazionali si sarebbe dovuto superare la “stupidità” di regole uguali per tutti i paesi e perseguire una differenziazione che avrebbe permesso di adattare l’aggiustamento alla situazione e alle potenzialità di ogni singolo Paese. Se questa “flessibilità” era già stata minata dalle salvaguardie introdotte nella proposta della Commissione, ora è completamente cancellata dal rullo compressore delle nuove salvaguardie che appiattisce ogni specificità.
La “titolarità” si riferiva al fatto che le traiettorie dovevano essere frutto del dialogo della Commissione con ciascuno Stato membro, proponendo una sorta di riappropriazione democratica, dopo anni di imposizioni da parte dei vari strumenti della governance economica europea. Vale la pena di sottolineare “europea” e non dell’Unione europea, perché una parte di questa governance si colloca al di fuori dell’Ue. Anche in questo caso, la cieca meccanicità dei vincoli numerici introdotti con le salvaguardie hanno predeterminato percorsi obbligati in cui gli spazi di negoziazione per gli Stati membri, già abbastanza ridotti nella proposta della Commissione, sono diventati del tutto esigui.
Questo significa che la Commissione, anche con il rafforzamento delle prerogative del Semestre europeo, avrà il potere di verificare – cioè di decidere – quali spese dovranno essere tagliate, quali investimenti saranno possibili e, soprattutto, quali riforme mettere in atto, non solo come condizionalità per l’estensione del percorso di aggiustamento. Una generalizzazione del metodo Pnrr e abbiamo visto quali siano le riforme pretese da Bruxelles, a cominciare dalla concorrenza: una frustata di neoliberismo impressa ai sistemi economici nazionali. Con la differenza che in quel caso si trattava di imporre condizionalità su finanziamenti europei, qui, invece, si decide su come debbono essere spesi i soldi dei contribuenti nazionali. Niente di eretico, se solo questi ultimi avessero nei confronti delle istituzioni europee la possibilità di esprimere la loro sovranità così come ce l’hanno nei confronti di quelle nazionali.
Un altro peggioramento in relazione alla titolarità degli Stati membri è stata apportato per quanto attiene il monitoraggio dei percorsi di spesa netta. In primo luogo sulla frequenza della verifica che sarà annuale e non più alla fine del percorso; in secondo luogo sulla indipendenza dei verificatori. La proposta della Commissione assegnava un ruolo importante di verifica agli Enti di bilancio indipendenti (Indipendent Fiscal Institutions – Ifi) – per l’Italia l’Ufficio parlamentare di bilancio – che avrebbero dovuto fornire una valutazione sulla conformità dei dati di bilancio riportati nelle relazioni annuali presentate dai Governi sui progressi compiuti nell’attuazione dei piani strutturali nazionali di bilancio. Nel nuovo testo, invece, gli Stati membri “possono chiedere” all’Ente nazionale di bilancio indipendente di fornire una valutazione della conformità dei dati sui risultati di bilancio riportati nella relazione annuale, ed eventualmente anche di analizzare i fattori alla base di una deviazione dal percorso della spesa netta. Queste valutazioni e analisi “dovrebbero essere non vincolanti e aggiuntive rispetto a quelle fornite dalla Commissione”. Per contro, tutte le funzioni di valutazione, analisi e consulenza sugli orientamenti di bilancio sono centralizzate in capo al Comitato europeo per le finanze pubbliche. In sostanza i Governi sono riusciti ad allontanare da sé i rischi di valutazioni indipendenti, ma con il risultato di cadere sotto il controllo esclusivo di un Comitato europeo retto dalle salde mani della Commissione e del Consiglio.
I limiti ai poteri della Commissione
Vanno invece riconosciute alcune limitazioni poste ai poteri della Commissione, ritenuti da più parti esorbitanti. Si tratta, per esempio, della eliminazione dal “braccio preventivo” delle “missioni di sorveglianza rafforzata”, in cui la presenza della Bce evocava il fantasma della troika. Queste, come già nel vecchio Patto, possono essere effettuate nel “braccio correttivo” per gli Stati membri oggetto di raccomandazioni o intimazioni nell’ambito dell’Edp (Excessive Deficit Procedure).
Preoccupanti, peraltro, i cambiamenti introdotti anche nel testo del “braccio correttivo” (Regolamento Edp – Procedura per i disavanzi eccessivi). Viene confermata la regola che richiede ai Paesi sotto procedura tagli annuali del disavanzo strutturale pari allo 0,5% del Pil. Nella proposta della Commissione si prevedeva che lo stesso aggiustamento dovesse applicarsi alle traiettorie dei Paesi che superano la fatidica soglia del 3% del rapporto deficit/PIL, a prescindere dall’apertura di una procedura per disavanzo eccessivo. Questo, da un lato, pur imponendo lo stesso obbligo di aggiustamento, evitava ai Paesi trasgressori di sfuggire ai vincoli, alle eventuali sanzioni e, soprattutto, allo stigma della Edp, dall’altro rendeva problematica l’interazione tra le due norme.
Le nuove modifiche del braccio correttivo risolvono “brillantemente” la problematicità. Gli Stati membri che superano il 3% debbono prima di tutto essere messi sotto procedura e solo quando – dopo un percorso di redenzione, di solito triennale, con tagli annuali di almeno lo 0,5% – il loro deficit sarà riportato al di sotto della soglia del 3%, potranno intraprendere il percorso di aggiustamento del braccio preventivo (traiettoria di riferimento, piano nazionale strutturale di bilancio).
L’introduzione di vincoli numerici anche nel braccio correttivo rende più severe le condizioni per far partire la relazione della Commissione, prevista dall’art. 126 del Trattato sul Funzionamento dell’Ue, che dà inizio alla procedura per disavanzi eccessivi; non solo il superamento dei parametri di Maastricht, ma anche il pareggio di bilancio (ritorno al Fiscal Compact) e “deviazioni nel conto di controllo” – cioè dal percorso di spesa concordato – non superiori allo 0,3% del Pil all’anno o dello 0,6% cumulativamente.
È indubitabile che la preoccupazione di introdurre misure anticicliche, che pure aveva ispirato le proposte della Commissione, è stata del tutto ignorata dai Governi nella riformulazione dei due principali Regolamenti.
I modesti e temporanei allentamenti alle nuove rigidità
A fronte di questi peggioramenti – che non solo ci riportano al vecchio Patto ma che rendono più duri gli stessi vincoli di Maastricht – sono stati introdotti alcuni correttivi, per lo più temporanei, al fine di allentare le ferree regole del nuovo Patto. Nelle norme transitorie deI Regolamento relativo al “braccio preventivo” si dice che, ai fini della definizione degli aggiustamenti annuali, “saranno presi in considerazione” i prestiti contratti nel 2025 e nel 2026 per i progetti del dispositivo per la ripresa e la resilienza (Pnrr), nonché quelli per il cofinanziamento nazionale dei Fondi dell’Ue. Inoltre, nel Regolamento Edp, si prevede che la Commissione, nel valutare il rispetto dei parametri relativi al disavanzo e al debito, terrà conto dell’aumento degli investimenti pubblici nella difesa, mentre verrà “prestata particolare attenzione ai contributi finanziari volti a promuovere la solidarietà internazionale”. Inoltre, nel valutare la procedura per deficit eccessivo, “alla luce del contesto di tassi di interesse notevolmente modificati, la Commissione può, per un periodo transitorio nel 2025, 2026 e 2027 – al fine di non compromettere gli effetti positivi della Recovery and Resilience Facility – adeguare il benchmark per tenere conto dell’aumento dei pagamenti di interessi”.
Le conseguenze economiche e sociali
Nonostante questi allentamenti, le conseguenze della ripartenza di questo nuovo Patto di Stabilità si prospettano a dir poco catastrofiche per i sei Stati membri più indebitati (a cui si aggiungerebbe l’Ungheria) e per l’intera zona euro, della cui economia i sei Paesi “pessimi” rappresentano poco meno della metà.
Immediatamente dopo l’accordo intergovernativo di dicembre, il think tank europeo Bruegel ha elaborato una tabella in cui figurano le proiezioni degli aggiustamenti di bilancio – in altri termini i tagli alla spesa – che gli Stati membri dovranno fare in base all’accordo10 Poiché i benchmark in esso introdotti sono stati confermati dall’accordo del trilogo, si possono ritenere ancora valide queste proiezioni. Esse partono, per ciascun Paese, da tre dati (previsioni della Commissione per il 2024): rapporto debito/PIL, rapporto deficit/PIL, saldo primario strutturale. Applicando i diversi percorsi ipotizzabili di aggiustamento per il debito e per il deficit, si arriva a calcolare l’entità dell’avanzo primario da raggiungere ad ogni step del percorso di aggiustamento a seconda della sua durata: 4 o 7 anni.
L’Italia è tra i Paesi con le previsioni più gravose sia per quanto riguarda i saldi primari strutturali da conseguire (differenza tra entrate correnti e spese correnti al netto della componente ciclica e degli interessi passivi) che per le medie annuali di aggiustamento di bilancio. Nel caso di un percorso di aggiustamento di quattro anni, il bilancio italiano dovrà prevedere un avanzo primario di almeno il 3,7%, con una riduzione annua della spesa pubblica dell’1,15%, pari a circa 23 miliardi di euro. Se, invece, il percorso sarà di sette anni l’avanzo primario minimo sarà del 3,3% e l’aggiustamento annuo dello 0,61%, pari a circa 12 miliardi. In più, alla fine del percorso di aggiustamento, si dovrebbe mantenere un avanzo primario del 4,1% (dopo 4 anni) o del 4,6% (dopo 7 anni). Se poi si considera che l’Italia paga ogni anno quasi 100 miliardi di interessi sul proprio debito, diventa difficile immaginare come si possa riuscire a ottemperare simultaneamente a questi impegni senza un salasso nel bilancio dello Stato di portata gigantesca, foriero di una pesante e lunga recessione, di cui il primo segno sarà, con ogni probabilità, il ritorno alla spending review.
Occorre ribadire che il complesso meccanismo dei percorsi di aggiustamento previsti nel “braccio preventivo” si applica solo agli Stati membri non sottoposti a una procedura di deficit eccessivo, (deficit/Pil inferiore al 3%). Per contro, I Paesi che ricadono nel “braccio correttivo” devono invece prima uscire dall’infrazione, riportando il deficit al disotto del 3%, e solo dopo dovranno presentare il piano nazionale di aggiustamento e sottoporsi alla traiettoria di riferimento. Ciò dovrebbe offrire ai Paesi ad alto deficit la possibilità di rispettare la salvaguardia.
In una economia di guerra
La procedura di infrazione prevede un percorso di aggiustamento (con eventuali sanzioni), di solito di durata triennale, in cui il Paese in questione, per riportare il deficit al disotto del 3%, deve effettuare una riduzione della spesa netta di almeno lo 0,5% del Pil all’anno. L’Italia – in cui, per il 2024, si prevede un rapporto deficit/Pil del 4,3% – è, insieme alla Francia, tra i Paesi (una decina in tutto) per i quali, nel giugno 2024, si apre la procedura d’infrazione per disavanzi eccessivi.
Che si prospetti una stagione che richiederà alla maggior parte dei Paesi dell’Unione “tagli di bilancio inutili” è sostenuto anche da uno studio congiunto della New Economic Foundation e della Confederazione europea dei sindacati, nel quale si sottolinea come questo ritorno all’austerità avvenga in un momento in cui esiste già una sofferenza degli investimenti sociali e ambientali rispetto alle impellenti esigenze. Con il nuovo Patto di Stabilità, soltanto tre Stati membri (Danimarca, Svezia, Irlanda) potranno permettersi di far fronte a queste esigenze di investimento. “Quand’anche le sovvenzioni del Dispositivo per la ripresa e la resilienza (Rrf) dovessero continuare dopo il 2026, soltanto cinque Paesi (Danimarca, Svezia, Irlanda, Croazia e Lituania) sarebbero in grado di soddisfare le esigenze minimali di investimento sociale ed ecologico. Per consentire a tutti gli Stati membri di soddisfare le loro esigenze d’investimento pubblico in materia sociale ed ecologica, sarebbero necessari ulteriori 300-420 miliardi di euro all’anno (2,1-2,9% del PIL dell’Ue)”11.
L’entrata in un lungo periodo di recessione, la contrazione della spesa pubblica (corrente e per investimenti) nei servizi sociali essenziali, la disoccupazione crescente, il peggioramento delle condizioni economiche e di vita di larghe fasce sociali, tutto questo non è il solo lascito del nuovo Patto di Stabilità. C’è anche la sua sinergia con l’ingresso dell’Unione europea in una vera e propria economia di guerra; la sua torsione bellicista, coerente con l’aria del tempo. Non considerare gli investimenti militari nel calcolo del deficit – come prevede il nuovo Patto – risponde all’ingiunzione della Nato che la spesa militare raggiunga il 2% del Pil. Il che significa per l’Italia e la Germania raddoppiare l’attuale spesa: da 20 a 40 miliardi per l’Italia, da 40 a 80 per la Germania. E non è escluso che si vada oltre se è vero, come sostengono diversi esponenti del mondo militare tedesco, che c’è bisogno di un periodo di incremento degli armamenti, che va dai cinque ai dieci anni, per far fronte alla guerra contro la Russia.
Nel mare aperto dell’incertezza politica
Il quadro poco rassicurante delle prospettive economiche e sociali è senza dubbio probante, visti i numerosi studi indipendenti. Ma si sbaglierebbe non poco se si pensasse che ciò che succederà sarà una conseguenza pressoché matematica delle norme definite nel nuovo Patto di Stabilità, tale è l’ampiezza dell’alea costituita dall’incertezza con cui esse saranno applicate. Un’incertezza che non deriva soltanto, né soprattutto, dalla criticità del contesto geoeconomico, geopolitico e geostrategico, ma dalle caratteristiche intrinseche del quadro normativo appena definito, in una parola dall’ampio margine lasciato al compromesso politico e alla discrezionalità di cui Commissione e Consiglio dispongono in ognuna delle fasi applicative. Non ci si riferisce soltanto al modo con cui saranno definite le “traiettorie di riferimento” ma soprattutto alla indefinitezza degli “sconti”, in particolare quelli previsti nel periodo transitorio, per quanto concerne gli investimenti.
Partendo dal presupposto che non è stata concessa nessuna golden rule per gli investimenti, anche per quanto riguarda gli investimenti specifici per cui c’è stata un’apertura, non si tratta di uno scorporo. Per i progetti del Dispositivo per la ripresa e la resilienza nonché per il cofinanziamento dei Fondi europei, si dice che “saranno presi in considerazione”; l’incremento delle spese militari “può essere considerato fattore rilevante”. Insomma, tutto rimane “fluido”.
In particolare c’è da rilevare, su questi aspetti specifici, la diversità di espressione tra i “considerando” e l’articolato, in cui le norme sono più criptiche se non addirittura latenti. È il caso della misura relativa agli interessi sul debito pubblico. Nei “considerando” si dice che “la Commissione può, per un periodo transitorio nel 2025, 2026 e 2027 – al fine di non compromettere gli effetti positivi del Dispositivo per la ripresa e la resilienza – adeguare il benchmark per tener conto dell’aumento dei pagamenti degli interessi nel fissare il percorso correttivo…”. Pur nella vaghezza della formulazione è una disposizione che ha riempito i giornali, soprattutto italiani, per l’importante, ancorché temporaneo, risultato conseguito e l’importante breccia aperta nel muro teutonico. Peccato che di questa norma non c’è traccia esplicita nell’articolato. E a questa latenza nessuno ha fatto caso, né tra gli osservatori dei media né tra gli attori politici. Certamente non per sbadataggine, ma perché ormai, dopo anni di informalità e di governance europea non si dà più importanza giuridico formale nemmeno alle norme; siamo entrati in una fase storica di consociativismo, dove tutto è negoziabile politicamente.
Si potrebbe sostenere che in un contesto del genere le previsioni degli economisti potrebbero essere corrette in meglio da intese tra Commissione e Stati membri più favorevoli a questi ultimi; ma considerando la pressoché totale subordinazione della Commissione al Consiglio, dove il sistema intergovernativo – chiusa la parentesi del momento hamiltoniano – lascia nuovamente campo libero all’ideologia ordoliberale, non si può certo essere ottimisti.
Ma come si è arrivati a un tale disastro? Di chi la responsabilità? Volendo dare una risposta sommaria, ma non inappropriata, si potrebbe dire che il negoziato è il frutto dello strabismo e della miopia politica dei Governi e della irrilevanza del ruolo del Parlamento europeo.
Il negoziato dei Governi, tra strabismo e miopia politica
Ciò che risulta più irrazionale nel lungo negoziato sulla riforma della governance economica europea è il comportamento del Governo tedesco. Certo, la pervicacia nell’imporre i benchmark del ministro Christian Lindner può essere spiegata in vari modi: con la fedeltà ai dogmi dell’ordoliberalismo, con la volontà di ridare credibilità alla Germania dopo lo scandalo dei 60 miliardi di debito nascosti e, ancora, con le preoccupazioni elettorali per il suo partito, Fdp, in una crisi di consenso alla quale egli sta rispondendo con la messa in vetrina di un ruolo autonomo, di maggiore riconoscibilità rispetto alla coalizione “semaforo” (Spd, Fdp, Verdi) al Governo. Un andare controcorrente confermato anche dalla propensione (in compagnia dei Verdi) all’invio dei missili Taurus all’Ucraina, e dal ruolo avuto in sede Ue nel rinvio dello stop alle auto a benzina.
Tutto questo è evidente, ma ciò che rimane inspiegabile, e anche deprecabile, è che questa vittoria politica sia conseguita facendo pagare a milioni di cittadini un prezzo così alto. E questo non riguarda solo i Paesi “cicala”, tra i quali la Francia è ormai entrata a pieno titolo, ma anche la stessa Germania in cui le ricadute economiche della rinnovata austerità saranno pesanti. Innanzitutto per le sue esportazioni nell’Ue; per esempio nel 2023 l’interscambio con l’Italia si è ridotto del 2,5% e nel 2024 si prevede che il totale delle esportazioni tedesche diminuirà dell’1,5%. Il combinato disposto tra inflazione, livello dei tassi d’interesse, che continua a mantenersi elevato, e riduzione draconiana del deficit pubblico (da 87,4 a 76 miliardi nel 2024 e a 44,6 miliardi nel 2025) ha portato a una conclamata recessione, a una “Germania paralizzata” secondo l’espressione usata dall’ Istituto Ifo di Monaco nelle previsioni economiche di primavera 202412, o come è stato detto, una Germania nella trappola del rigore, impiccata al palo dell’austerità da essa stessa piantato. Un caso di evidente strabismo politico.
Nel caso di Francia, Spagna e Italia, più che di strabismo si è trattato di miopia politica. Fino alla riunione del Consiglio Ecofin del giugno 2023, la Francia è stata il Paese che più si è opposto alle richieste di vincoli numerici fissi e uguali per tutti propugnati dalla Germania e dagli altri Paesi “frugali”; con il sostegno di Spagna e Italia, anche se meno proclamato e senza dichiarazioni roboanti. In realtà la fermezza francese, più che dipendere da un autentico rifiuto dell’austerità, è sembrata essere un’opposizione a che questa fosse imposta dall’Ue.
Il cedimento ha cominciato a palesarsi nella riunione informale dei ministri Ecofin del 15 settembre, e confermato nelle successive riunioni del 17 ottobre e 9 novembre, per il ruolo di “mediazione” della presidenza spagnola che nella riunione dell’8 dicembre ha presentato testi di compromesso sulle tre proposte legislative, in cui in sostanza si accettavano i paletti posti dal ministro delle Finanze tedesco in cambio di una possibile apertura sulla esclusione degli investimenti dal calcolo del deficit. Sul comportamento spagnolo sono state date diverse spiegazioni. Da quella più “nobile”, secondo la quale Sánchez ha voluto a tutti i costi concludere l’accordo entro l’anno per evitare alla sua presidenza di turno dell’Ue l’ “onta” di un clamoroso insuccesso. A quella più prosaica, che la ministra dell’economia Nadia Calviño ha cercato di spianarsi la strada per la Banca europea degli investimenti, di cui poi è stata effettivamente nominata presidente.
Le mosse dell’Italia
L’Italia, anziché rafforzare la posizione francese di resistenza alle imposizioni tedesche, ha tentato la via traversa del baratto con la Germania: accettazione dei vincoli numerici in cambio della golden rule sugli investimenti. Quando poi il ministro Giorgetti, nonostante gli incontri bilaterali, non ha trovato nessuna apertura da parte di Lindner, ha tentato la via del rinvio della decisione. In sostanza, un rinvio a dopo le elezioni europee. Quando, alla fine, anche questa possibilità si è rivelata impraticabile, ha minacciato di giocare l’ultima carta, quella di non votare il provvedimento.
La Francia, lasciata praticamente sola, ha deciso di recuperare il suo ruolo di “potenza” europea, rispolverando l’asse franco-tedesco. Il 19 dicembre, a cena, la sera prima della riunione online dei Ministri Ecofin che ha sancito l’accordo, Bruno Le Maire e Christian Lindner hanno raggiunto un compromesso – al quale gli altri Paesi si sono dovuti accodare – in cui in cambio dei diktat tedeschi la Francia ha ottenuto la fase transitoria, fino al 2027. Si accettano i benchmark, nonostante il loro carattere prociclico, purché la Francia e gli altri Paesi che entreranno in procedura d’infrazione possano ridurre più lentamente il proprio deficit.
Nei prossimi tre anni, come si è detto, non si applicano le traiettorie del “braccio preventivo” ai Paesi in cui il rapporto deficit/Pil è superiore al 3%; essi dovranno sì riportarlo al di sotto del fatidico parametro, ma godranno di possibili franchigie nel calcolo del deficit, per quanto riguarda determinati investimenti, in primo luogo quelli per la difesa, nonché gli interessi da pagare sul proprio debito. Molti hanno visto la coincidenza della scadenza del 2027 con quella della fine del mandato presidenziale di Emanuel Macron. Il fatto che nello stesso anno termina anche quello del Governo italiano può essere all’origine delle dichiarazioni del ministro Giorgetti di moderata soddisfazione per il compromesso raggiunto.
D’altra parte, cosa ci si può aspettare da un consesso di governanti in cui nessuno guarda alle sorti comuni dell’Unione, e ognuno si preoccupa solo di conservare il consenso che lo tiene al potere, spacciando questo per interesse nazionale? Ovviamente, una parte di responsabilità va attribuita alla statura politica degli attuali governanti, ma non vi è dubbio che questi comportamenti poco commendevoli sono consustanziali al sistema intergovernativo, anzi è proprio questo che ne produce le esasperazioni. Una situazione da tempo denunciata da parti importanti dell’opinione pubblica, ma rispetto alla quale non si può che constatare un atteggiamento rinunciatario, se non di disinteresse, da parte delle forze politiche e delle organizzazioni della società civile che si professano europeiste.
L’irrilevanza del Parlamento europeo
Nella vicenda politica che ha portato alla nascita del nuovo Patto di Stabilità non ha pesato solo l’assenza di visione o la visione distorta dei Governi, ma anche l’irrilevanza del ruolo del Parlamento europeo. Un’irrilevanza che si spiega soprattutto con la subordinazione dei parlamentari dei principali Gruppi politici ai propri Governi, persino ai propri Commissari, che non possono essere sconfessati, come ha sostenuto la vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picerno, riferendosi al ruolo che Paolo Gentiloni, Commissario agli affari economici e monetari, ha avuto nella “riforma” del Patto di Stabilità. Niente di nuovo; una cachessia politica, quella del Parlamento europeo, che potrebbe essere mitigata solo dall’esistenza di veri partiti politici europei che sostituiscano gli attuali simulacri rappresentati dalle reti di partiti nazionali, alle quali viene attribuito abusivamente il nome di “partito europeo”. Abusivi perché sono finanziati dal bilancio dell’Unione in quanto partiti europei, ma in realtà non lo sono e, quel che è peggio, non lo vogliono essere.
Nella grigia storia del Patto di Stabilità al Parlamento europeo, il ruolo di protagoniste è stato svolto dalle due correlatrici, l’olandese Esther De Lange del Gruppo dei Popolari e la portoghese Margarida Marques del Gruppo dei Socialisti e Democratici, quindi appartenenti entrambe alla maggioranza che governa il Parlamento. Il sostanziale appiattimento sulla proposta della Commissione è stato fin dall’inizio palese nella Relazione13 da loro predisposta e presentata per l’approvazione alla Commissione Econ. Molte le proposte di modificare il testo della Commissione su elementi secondari, come per esempio cambiare il nome delle “traiettorie tecniche” in “traiettorie di riferimento”, per dare l’impressione che non si tratti di strumenti automatici imposti dall’alto ma di dispositivi riferiti alla specifica situazione di ciascun Paese.
Ancora una volta la comunicazione, la narrazione per mistificare la realtà. Una Relazione infarcita di buoni propositi: spazio agli investimenti, dialogo tra la Commissione e gli Stati membri. Si insiste molto sul coinvolgimento del Parlamento europeo: nel Semestre europeo e nelle varie fasi dei piani nazionali e dei percorsi di aggiustamento. Si chiede di escludere dal calcolo della spesa netta quella per i Programmi interamente finanziati dall’Ue e, parzialmente, del cofinanziamento nazionale di Programmi europei. Si chiede un aumento della durata delle traiettorie; si arriva anche a chiedere lo scorporo degli investimenti ma solo in casi eccezionali. Accanto a queste parziali proposte positive ma non fondamentali, la Relazione Econ tocca, in negativo, un punto nevralgico: introduce la famosa “salvaguardia della sostenibilità del debito” (riduzione annua del debito dell’1% o dello 0,5%); e questo, qualche settimana prima che essa fosse inclusa, dopo mesi di discussione, nell’accordo intergovernativo del 20 dicembre. Un aiuto sfacciato al ministro Lindner e alla sua battaglia.
È comprensibile che una Relazione così congegnata non potesse trovare pieno consenso nella Commissione Econ14. Infatti è stata approvata con 34 voti a favore (Popolari, Socialisti e Renew), 22 contrari (Verdi, Sinistra, Destre e Non Iscritti) e 3 astenuti. Da notare che l’unico italiano che ha votato a favore è stato Giuseppe Ferrandino (Gruppo Renew) di Azione.
Il Parlamento europeo sotto il ricatto dei Governi e della Commissione
L’altro momento importante nel Parlamento europeo, per la vicenda del Patto di Stabilità, è stato quando il 17 gennaio 2024 si è dovuto decidere se approvare in plenaria la Relazione della Commissione Econ e, sulla base di questa posizione di prima lettura, proseguire nella procedura ordinaria o, al contrario, dare il mandato ai relatori, affiancati dai cinque relatori ombra (uno per ogni Gruppo), di aprire il negoziato informale nel trilogo. È stata scelta questa seconda opzione. Ha giocato il ricatto, proveniente dalla maggior parte dei Governi e dalla stessa Commissione, di bruciare i tempi per rendere operativo il Patto prima delle elezioni europee di giugno. Nel non voler rimandare la questione al prossimo mandato legislativo, oltre alla preoccupazione dell’allungamento dei tempi, ha giocato lo spettro di dovere ricominciare tutto da capo, nell’incertezza di un nuovo quadro politico. Tutto questo è sembrato inaccettabile ai fautori del ritorno, ancorché camuffato, all’austerità.
Prima della votazione, nella breve ma accesa discussione che si svolta in aula, le posizioni dei Gruppi sono state ribadite15 Date per scontate le argomentazioni (responsabilità, stabilità dell’eurozona, ecc.) della correlatrice De Lange, intervenuta a nome dei Popolari, va rilevato il doppio linguaggio dell’altra correlatrice, Margarita Marques, intervenuta a nome dei Socialisti e Democratici, che ha sostenuto la sostanziale resa alle posizioni del Consiglio con un altisonante “no all’austerità, sì agli investimenti”. In netto contrasto con queste altre parole: “Votare queste regole vuol dire scegliere per l’Unione europea un lento suicidio ambientale, economico, geopolitico e democratico”, pronunciate, a nome del Gruppo dei Verdi, da Philippe Lamberts che è stato, prima ancora d’intervenire, oggetto degli anatemi dei rappresentanti del Ppe e di Renew. Da rilevare la posizione, a favore del mandato, dei Conservatori dell’Ecr, che però in Commissione avevano votato contro la Relazione. Trascurabile l’intervento del rappresentante di Democrazia e Identità che ha parlato a favore del mandato mentre poi il Gruppo si è diviso a metà nella votazione. Senza sorprese l’intervento fortemente contrario di José Gusmão a nome della Sinistra. D’altra parte, il Gruppo della Sinistra aveva già stigmatizzato l’approvazione in Commissione Econ della Relazione De Lange/Marques, chiamando il nuovo Patto “Austerità 2.0”16
La votazione per l’avvio dei negoziati nel trilogo
Significativo è stato il risultato della votazione17 sulla decisione per l’avvio dei negoziati informali nel trilogo, approvata con 431 voti a favore (PPE, S&D, Renew, Ecr, italiani e austriaci di Id), 172 contrari (principalmente Verdi, Sinistra e l’altra metà di Id) e 4 astenuti. Da notare la spaccatura verticale all’interno del Gruppo Id: la Lega a favore, dall’altra parte gli altri, in primo luogo i francesi del Rassemblement National e i tedeschi di Alternative für Deutschland. Un voto che ha marcato l’avanzata dell’alleanza tra Popolari, Socialisti, liberali (Renew), Conservatori e italiani (Lega) di Id, che molti vorrebbero determinante nel dopo elezioni europee. Interessante il voto degli italiani: come si è detto, i parlamentari di Fratelli d’Italia, della Lega e di Forza Italia hanno votato compattamente a favore del passaggio al trilogo; con loro quelli del Pd e il non iscritto Giarrusso. Tra i voti contrari quelli dei deputati del Movimento 5 Stelle, di Cozzolino dei Non Iscritti, del dissidente socialista Massimiliano Smeriglio e dei deputati italiani del Gruppo dei Verdi. Infine, non va sottovalutato il significato del voto contrario, in dissenso dal Gruppo Socialista, del francese Raphaël Glucksmann.
Da qualche parte si è cercato di spiegare il massiccio voto a favore con il fatto che, in fondo, si è trattato di esprimersi per una procedura, per aprire un negoziato. L’inconsistenza di una tale giustificazione si scontra con l’evidenza di un voto per una posizione di partenza del tutto rinunciataria, quella della Relazione Econ, di cui tutti conoscevano i contenuti. Così come nessuno può avere seriamente pensato che nel trilogo si sarebbe potuta addomesticare la dura posizione del Consiglio. Ancora una volta l’antinomia tra realtà e narrazione, la realtà di un voto per l’austerità e la narrazione di un semplice consenso all’apertura di un negoziato. Questo il commento del Gruppo della Sinistra: “I Gruppi politici della destra, dei liberali e dei socialisti hanno spudoratamente adottato con la forza un testo cruciale che definisce le politiche economiche e di bilancio per il prossimo decennio, attraverso il Parlamento, eludendo il dibattito democratico”18
L’epilogo di questa ingloriosa storia parlamentare è avvenuto il 13 febbraio 2024, con la conclusione dell’accordo con il Consiglio, dopo un mese di negoziati nel trilogo19. Una debacle totale per il Parlamento che ha dovuto ingoiare i benchmark numerici – nonché le altre misure peggiorative della proposta della Commissione – introdotti nel compromesso intergovernativo del 20 dicembre. Per contro, sono state respinte le poche richieste significative contenute nella posizione del Parlamento (estensione della durata delle traiettorie, scorporo degli investimenti dal calcolo del deficit). Sono state ovviamente accettate le proposte già contenute nel compromesso intergovernativo, nonché tutte le richieste di maquillage del testo del Regolamento; dal cambiamento della denominazione delle traiettorie, ai riferimenti (del tutto accademici) al Green Deal e al Pilastro europeo dei diritti sociali, al dialogo tra Commissione e Stati membri. “I negoziati del trilogo hanno portato a regole più severe sul deficit, a un controllo più restrittivo sulla spesa pubblica degli Stati membri e a zero garanzie per gli investimenti pubblici. L’austerità è tornata e sappiamo chi ha firmato l’accordo”20. Così José Gusmão, relatore ombra della Sinistra nel commentare l’accordo.
Come si è detto, il 4 marzo 2024 la Commissione Econ ha formalmente approvato (con più o meno la stessa distribuzione di voti) i risultati dell’accordo raggiunto nel trilogo. Un passaggio formale obbligato, questo in Commissione, prima del suggello finale in plenaria il 23 aprile.
L’ingannevole alternativa
Negli ultimi due anni, da quando è venuto meno il momento hamiltoniano e si è interrotto il processo virtuoso che aveva introdotto strumenti finanziari comuni (Next Generation Eu, Sure), si assiste nell’Unione europea a una sorta di schizofrenia. Da un lato gli Stati membri sono obbligati a cercare soluzioni nazionali ai loro problemi economici, dall’altra, a livello centrale, si è continuato a fissare, nell’ambito delle transizioni ecologica/energetica e digitale, obiettivi ambiziosi, a cui si aggiunge ora quello della difesa europea. Obiettivi che gli Stati membri hanno sempre più difficoltà a perseguire. In questa situazione, si è manifestata la reale incapacità dell’Ue di gestire le transizioni, soprattutto di perseguire concretamente le tanto proclamate transizioni giuste. Le rivolte in agricoltura ne sono state la dimostrazione palmare.
D’altra parte, la riedizione di un Patto di Stabilità la cui unica preoccupazione è che nessun Paese, con i suoi “disordini” finanziari, danneggi gli altri, e non quella del coordinamento delle politiche di bilancio, è la prova provata che l’Ue è già quella confederazione di stati nazionali tanto agognata dai nostri sovranisti. In questi ultimi mesi si sono ripetuti molti moniti sul declino, se non la catastrofe, a cui condurrà questa rinuncia a “fare l’Europa”. Molte sono le preoccupazioni che la crescita della sfiducia nell’Unione europea, iniziata, dopo la crisi dei debiti sovrani, con l’austerità e l’avvento della governance economica, venga incrementata dal nuovo Patto di Stabilità, e con essa una ulteriore ascesa del populismo sovranista.
Di fronte a questa situazione, le alternative al ripiegamento nazionalista partono proprio dal problema principale che il nuovo Patto lascia insoluto: la capacità di prevenire nuove crisi del debito; da un lato per la difficoltà/impossibilità degli Stati membri a rispettare le sue stesse regole, dall’altra per la riduzione e prossima eliminazione degli interventi della Bce a sostegno dei titoli di Stato.
Giustamente, si dice, la soluzione non può essere nemmeno quella adombrata dalle opzioni più ottimistiche di orientamento del Patto, e cioè la strada delle flessibilità nazionali – soluzione che finirebbe per divaricare ancora di più le scelte strategiche nazionali da quelle comuni europee – ma quella di una cessione di sovranità all’Europa che dovrebbe essa occuparsi delle scelte macroeconomiche atte a contrastare le avversità cicliche e a realizzare il rafforzamento strutturale. E così, nel recente dibattito pubblico, le alternative hanno preso i nomi di: debito comune, capacità fiscale europea, politica di bilancio comune. Insomma, un’Europa in grado di risolvere i problemi che gli Stati non sono in grado di affrontare da soli.
Il ritorno alla ribalta di Mario Draghi
Il più autorevole tra coloro che hanno manifestato queste preoccupazioni e formulato proposte alternative in questa direzione è senza dubbio Mario Draghi, con le sue esternazioni di questi ultimi mesi. La prima, il suo discorso al Mit del 6 giugno 2023, è la più sorprendete e, al tempo stesso, la più rivelatrice. Così, in un breve passaggio su un auspicabile avvenire dell’Europa: “Il cammino verso un’unica entità politica, economica e sociale, seppur lungo e difficile, diventa inevitabile”. Soprattutto, egli vede nella guerra e nella difesa comune l’opportunità per procedere in questa direzione: “La risposta europea alla Russia rappresenta una svolta”21. In un articolo su The Economist del 6 settembre 2023, si concentra sulla questione della capacità fiscale europea e sull’esigenza di una maggiore “sovranità condivisa” per una politica di bilancio comune. “Un debito e una spesa federale porterebbero maggiore efficienza e spazio fiscale, perché i costi complessivi del debito sarebbero minori”22. Concetti ribaditi l’8 novembre in un intervento alla Global Boardroom Conference del Financial Times23 Molti economisti e commentatori mainstream hanno condiviso questo messaggio, sottolineando che non vi è nessuna possibilità che si affermi una politica economica espansiva a livello nazionale ed europeo in assenza di una politica di bilancio comune.
Il 28 novembre, durante la presentazione di un libro, Draghi è andato oltre: “Oggi il modello di crescita si è dissolto e dobbiamo reinventare un modo di crescere, ma per farlo dobbiamo diventare uno Stato”24 Nei successivi interventi – fatti nella veste ufficiale di incaricato dalla Commissione di elaborare un rapporto sulla competitività dell’Europa – non si è spinto troppo sulle questioni politico-istituzionali, mantenendosi nell’ambito economico, pur con tutti gli immancabili risvolti politici, soprattutto geoeconomici e geopolitici. Per non rimanere schiacciata tra Usa e Cina e avere un ruolo a livello globale, nonché per mantenere la coesione sociale interna, l’Unione deve fare investimenti per 500 miliardi all’anno nelle transizioni e nella difesa. Per questo servono “scelte coraggiose”.
È appena il caso di aggiungere che nella concezione di Mario Draghi, sia per quello che ha detto esplicitamente che per quello che ha lasciato intendere, il Patto di Stabilità dovrebbe essere gettato alle ortiche insieme, ovviamente, ai parametri di Maastricht.
Uno Stato europeo che gestisca in modo efficace ed equo la politica macroeconomica è, senza dubbio, l’unica prospettiva in grado di mettere al riparo gran parte degli Stati membri dalla minaccia dell’austerità e della recessione. Ciò che fa nascere non poche perplessità non è solo il carattere neoliberista che questo Stato europeo avrebbe, ma l’assenza di una chiara connotazione democratica, che non emerge in modo chiaro dalle dichiarazioni di Draghi, ma che non è azzardato intravvedere in controluce. Non basta, infatti, il richiamo all’unità; l’unità è la precondizione. Né il fatto che egli, per qualificare le soluzioni proposte per il governo dell’economia, abbia usato l’aggettivo “federale”. Non è sufficiente la cessione di sovranità perché un sistema possa definirsi federale. La nozione di federalismo è indissolubilmente legata a quella di democrazia e, nel caso specifico, questo significa, da un lato, un sistema istituzionale che assicuri la rappresentanza dei cittadini europei, garantendone la sovranità, dall’altro, il fermo ancoraggio a principi costituzionali risultanti da un confronto popolare sui valori e sui diritti che questi principi debbono difendere.
Ora, tutto questo, nell’Unione dei Trattati, non esiste. Ma non esiste nemmeno nelle proposte di Mario Draghi. Ciò che si può intuire, anche dagli accenni al gradualismo, è che certamente egli pensa a una eliminazione della unanimità nelle decisioni del Consiglio; è probabile che non sia nemmeno contrario a una modifica più incisiva dei Trattati, anche se non si è sbilanciato in questo senso. Ma tutto questo ha poco a che fare con uno Stato federale. Anzi, un Consiglio senza unanimità, in cui si affermi il potere di una sorta di direttorio degli Stati più forti, è il superamento della stessa attuale confederazione di fatto verso un modello di autocrazia confederale, una forma diversa di intergovernativismo, presumibilmente più efficace ma sicuramente ancor meno democratico di quello attuale. Un modello che certamente si attaglierebbe all’idea di Stato forte, dal punto di vista economico e militare, da lui più volte evocato. A voler pensare male, forse è proprio a questo modello che egli pensa, anche nell’ipotesi di diventare presidente del Consiglio europeo.
Il nodo della democrazia
Come nel caso del Mes25 e di tutti gli altri meccanismi della governance economica, il nuovo Patto di Stabilità non può essere valutato soltanto per le ricadute sulle economie e sulle condizioni di vita dei cittadini, ma anche, se non soprattutto, per la regressione sul terreno della democrazia. Si è sufficientemente detto della gestione centralistica e sostanzialmente autoritaria che il Patto promette, anche a causa degli ampi margini di discrezionalità politica che il carattere “fluido” delle norme potrà permettere. Ma non si fa nessun passo in avanti se non si capisce che queste distorsioni antidemocratiche sono il frutto e allo stesso tempo l’alimento dell’assetto istituzionale intergovernativo.
In un anno di elezioni europee questa consapevolezza dovrebbe essere più diffusa di quanto non lo sia attualmente. Anche perché, in questo deficit democratico, il Parlamento europeo rappresenta un nodo ineludibile. La vicenda del nuovo Patto di Stabilità è, in tal senso, illuminante.
La cosa più importante che i negoziatori parlamentari sono riusciti ad ottenere nel trilogo è un maggior coinvolgimento del Parlamento europeo nelle varie fasi dei piani nazionali e delle traiettorie – in chiave di informazione e di facilitazione della discussione con gli Stati membri – e, soprattutto, un ruolo più incisivo in quel segmento importante della governance economica che è lo svolgimento del Semestre europeo. Non è la prima volta che si ha l’impressione che, anziché incidere realmente sulle politiche, il Parlamento europeo si preoccupi (e si accontenti) di aumentare le proprie competenze. Visti i risultati ci si deve chiedere: per farne cosa? Anche considerando il fatto che con il Trattato di Lisbona sono ormai poche le materie non sottoposte alla procedura ordinaria (codecisione legislativa con il Consiglio). E allora perché questa irrilevanza? È una domanda che, in relazione alle elezioni europee di giugno, i partiti politici e soprattutto coloro che sbandierano il proprio europeismo dovrebbero porsi.
In realtà è una domanda alla quale la metà dei cittadini europei, più o meno consapevolmente, ha da tempo dato la propria risposta, non partecipando alle elezioni. Questo perché nessuno dei partiti cosiddetti europeisti ha affrontato le cause dell’irrilevanza del Parlamento europeo – anche perché questo comporterebbe affrontare altre questioni – non solo analizzandole, ma individuando obiettivi e azioni politiche in grado di contrastarle e superarle. Insomma, un vero programma politico europeo da proporre agli elettori.
Domande ancora senza risposta
Una riflessione in questa direzione potrebbe scaturire proprio dal risultato della vicenda del Patto di Stabilità. Un risultato inaccettabile, in cui la sovranità popolare è stata beffata. A partire dall’ultimo atto di questa tragicommedia: il trilogo. Un negoziato informale, non trasparente, con una forte e stridente asimmetria tra le parti in termini di potere politico. E qui torna il discorso della subordinazione, di cui si è detto. D’altra parte, se non fosse così, perché il Parlamento sceglie tanto di frequente la strada dell’informalità e della non trasparenza del trilogo anziché quella di un confronto, condotto alla luce del giorno, eventualmente fino al Comitato di conciliazione? Certo c’è, come si è detto, il fatto che mancano veri partiti europei, ma la loro esistenza, da sola, non basterebbe a risolvere il problema della subordinazione politica dei parlamentari. In realtà, ciò che succede nel Parlamento europeo è il riflesso dell’intergovernativismo imperante – e che si rafforza sempre più – nell’assetto istituzionale dell’Unione europea. È questo che determina la sproporzione di peso politico e la sostanziale subordinazione del Parlamento al Consiglio. Se non si abolisce il sistema intergovernativo non si potrà mai risolvere il problema della rappresentanza democratica e della sovranità popolare nell’Unione.
Ma questo apre un altro arco di questioni: il federalismo è l’alternativa all’intergovernativismo? Quale sistema federale garantisce di più la rappresentanza democratica e il mantenimento delle specificità nazionali? Ma poiché la democraticità della rappresentanza non basta da sola a garantire la democrazia senza che la sovranità popolare sia ancorata a un corpo di principi costituzionali, come si arriva a una Costituzione europea? E ancora, poiché è improbabile, se non impossibile, che l’idea federalista venga accettata da tutti gli Stati membri (oggi 27 ma fra non molto saranno di più) come procedere per fare la federazione “con chi ci sta”? Chi dovrebbe promuovere un processo federativo, anche tra un gruppo ristretto di Paesi? Certo non possono essere i Governi, con le loro diplomazie, a promuovere la fine del loro potere. Né i partiti nazionali che o sono al Governo o aspirano ad arrivarci. Dovrebbero essere le organizzazioni della società civile, i sindacati, i movimenti per la pace, i più interessati a una piena democratizzazione dell’Unione Europea. Ma quanto, al di là delle professioni di europeismo, questi problemi sono presenti nelle strategie e nelle azioni di queste organizzazioni?
Questioni non facili, ma che prima o poi qualcuno dovrà cominciare a porsi.
Andrea Amato
- Commissione Europea, Comunicazione sugli orientamenti per una riforma del quadro di governance economica dell’UE. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52022DC0583[↩]
- Commissione Europea, Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo al coordinamento efficace delle politiche economiche e alla sorveglianza di bilancio multilaterale e che abroga il regolamento (CE) n. 1466/97 del Consiglio https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:d77d1046-e4e3-11ed-a05c-01aa75ed71a1.0012.02/DOC_1&format=PDF ALLEGATI: https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:d77d1046-e4e3-11ed-a05c-01aa75ed71a1.0012.02/DOC_2&format=PDF[↩]
- Commissione Europea, Proposta di Regolamento del Consiglio recante modifica del regolamento (CE) n. 1467/97 per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52023PC0241[↩]
- Commissione Europea, Proposta di Direttiva del Consiglio recante modifica della direttiva 2011/85/UE del Consiglio relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52023PC0242[↩]
- - Parlamento europeo, Relazione sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo al coordinamento efficace delle politiche economiche e alla sorveglianza di bilancio multilaterale e che abroga il regolamento (CE) n. 1466/97 del Consiglio. https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-9-2023-0439_IT.html
– Parlamento europeo, Relazione sulla proposta di regolamento del Consiglio che modifica il regolamento (CE) n. 1467/97 sull’accelerazione e sul chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-9-2023-0444_IT.html
– Parlamento europeo, Relazione sulla proposta di direttiva del Consiglio che modifica la direttiva 2011/85/UE sui requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri. https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-9-2023-0440_EN.html[↩] - - Council of the European Union, Proposal for a Regulation of the european Parliamente and of the Council on the effective coordination of economic policies and multilateral budgetary surveillance and repealing Council Regulation (Ec) No 1466/97 – Confirmation of the final compromise text with a view to agreement https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-15874-2023-REV-4/en/pdf
– Council of the European Union, Proposal for a Counsil Regulation amending Regulation (EC) No 1467/97 on speeding up and clarifying the implementation of the excessive deficit procedure – Agreement in principle with a view to consulting the European Parliament. https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-15876-2023-REV-4/en/pdf
– Council of the European Union, Proposal for a Counsil Directive amending Directive 2011/85/EU on requirements for budgetary frameworks of the Member States – Agreement in principle with a view to consulting the European Parliament https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-15396-2023-REV-4/en/pdf,[↩]
- European Parliament – Committee on Economic and Monetary Affairs, Provisional agreement resulting from interinstitutional negotiations. https://view.officeapps.live.com/op/view.aspx?src=https%3A%2F%2Fwww.europarl.europa.eu%2FRegData%2Fcommissions%2Fecon%2Finag%2F2024%2F02-21%2FECON_AG%282024%29759672_EN.docx.[↩]
- Si veda: Lorenzo Bini Smaghi, La Riforma del Patto di Stabilità e Crescita: ce n’è veramente bisogno? Luiss School of European Political Economy, Policy brief, 9/2022 https://lorenzobinismaghi.com/pdf/La_Riforma_del_Patto_di_Stabilit%C3%A0_e_Crescita_LBS.docx.pdf
Si vedano anche vari articoli dell’economista (nonché moglie di Bini Smaghi) Veronica De Romanis, tra cui:
Ma l’austerità non c’è (quasi) mai stata. La Stampa, 17.12.2023
Il mancato accordo sul Patto UE prova che le regole attuali vanno bene. La Stampa, 12.12.2023
Perché conviene il vecchio Patto. La Stampa, 9.11.2023
Nonché l’intervista rilasciata a Huffington Post il 21.12.2023: Veronica De Romanis: “Il nuovo Patto è un pasticcio non necessario. Meglio le vecchie regole”. https://www.huffingtonpost.it/economia/2023/12/21/news/veronica_de_romanis_il_nuovo_patto_e_un_pasticcio_non_necessario_meglio_le_vecchie_regole-14661679/[↩] - Cfr. Andrea Amato, La riforma del Patto di Stabilità: un’impresa a perdere. Alternative per il socialismo n.70, 2023[↩]
- Jeromin Zettelmeyer, Assessing the Ecofin compromise on fiscal rules reform. Bruegel, First glance, 21.12.2023 https://www.bruegel.org/first-glance/assessing-ecofin-compromise-fiscal-rules-reform.[↩]
- Sebastian Mang and Dominic Caddick, Navigating Constraints for Progress: Examining the Impact of EU Fiscal Rules on Social and Green Investments. New Economic Foundation – Etuc, April 2024[↩]
- ifo Economic Forecast Spring 2024: German Economy Paralyzed. 6 March 2024
https://www.ifo.de/en/facts/2024-03-06/ifo-economic-forecast-spring-2024-german-economy-paralyzed[↩] - Vedi nota 5[↩]
- I risultati della votazione si trovano nella Relazione (nota 5) [↩]
- Cfr. Parlamento Europeo, Resoconto integrale delle discussioni. Mercoledì 17 gennaio 2024 – Strasburgo https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/CRE-9-2024-01-17-ITM-006_IT.html.[↩]
- The Left in the European Parliament, Let’s Bust Austerity 2.0. News, December 15, 2023
https://left.eu/lets-bust-austerity-2-0/[↩] - Cfr. Parlamento Europeo, Processo Verbale. Risultato delle votazioni per appello nominale. Pag.5 https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/PV-9-2024-01-17-RCV_IT.pdf [↩]
- The Left in the European Parliament, Shower of Cuts: Social Democrats, Liberals & Right Greenlight Austerity revival. News, January 17, 2024. https://left.eu/shower-of-cuts-social-democrats-liberals-right-greenlight-austerity-revival/[↩]
- Vedi nota 7[↩]
- The Left in the European Parliament, Austerity is back, and we know who signed the deal. News, February 13, 2024
https://left.eu/austerity-is-back-and-we-know-who-signed-the-deal/[↩]
- Cfr. Miriam Pozen Prize Award ceremony with address by Mario Draghi. MIT GCFP – Events Jun 7, 2023[↩]
- Mario Draghi on the path to fiscal union in the euro zone. The Economist, Sep 6, 2023. https://www.economist.com/by-invitation/2023/09/06/mario-draghi-on-the-path-to-fiscal-union-in-the-euro-zone [↩]
- Mario Draghi delivers downbeat outlook for EU economic growth. Financial Times, 8. 11.2023 https://www.ft.com/content/39ec07ea-2ca6-4539-bf70-b0348347898f.[↩]
- Cfr. Draghi: “L’Europa vive un momento critico. Serve ripensare il modello di crescita e diventare uno Stato”. Il Fatto Quotidiano, 29.11.2023. https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/11/29/draghi-leuropa-vive-un-momento-critico-serve-ripensare-il-modello-di-crescita-e-diventare-uno-stato/7369093/.[↩]
- Cfr. Andrea Amato, Il Mes e la questione democratica nell’Unione Europea, Alternative per il Socialismo, n. 66-67, 2023[↩]